Il ‘Greco’ e il prigioniero fantasma

16,00

Formato: Libro cartaceo pag. 262

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Autore:Sergio d’Ormea

Note sull’autore

 

 

COD: ISBN: 978-88-5539-372-0 Categoria: Tag:

Descrizione

Il ‘Greco’ è Teodoro Paleologo, figlio dell’imperatore d’Oriente Andronico e della basilissa Jolanda, della dinastia aleramica del Monferrato. Alla prematura morte dello zio Giovanni, la madre sceglie Teodoro, non ancora sedicenne, come successore del defunto marchese. La “grande Storia” si dipana con un ritmo avvincente, fra piemontesi, bizantini, angioini, genovesi… Tra intese e tradimenti, alla guerra si alternano gli amori, a volte grandi e potenti, al di là delle fredde alleanze matrimoniali e si intreccia a quella del Prigioniero Fantasma, un uomo da tutti ritenuto morto, ma salvato da Teodoro, che ha per lui un progetto particolare…

INCIPIT

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
(Dante, Inferno, canto I)

Estate 1332. Il prigioniero

Il raggio di sole che dall’alto dell’occhio di luce entra nella stanza andando a colpire la parete opposta nel basso, quasi a livello del pavimento, mi fa capire che è mattino inoltrato. Con lo sguardo vado a perlustrare per l’ennesima volta la mia squallida cella. Un letto addossato alla parete, con un giaciglio di tela di canapa riempito di paglia; un tavolo con sopra una brocca d’acqua, una scodella e un catino; un bugliolo in un angolo; una porta di legno massiccio, rinforzata da chiodi di ferro, che so essere sprangata all’esterno da un solido catenaccio. Il pavimento è di assi di legno.

Non mi trovo in un carcere vero e proprio, ma in un casolare sperduto nella campagna. Me ne accorsi la prima volta che, scortato da due armigeri, mi fu consentito di uscire a prendere una boccata d’aria nel cortile, rituale che si è poi venuto a ripetere due volte al giorno, a metà mattina e al tramontare del sole. Non saprei dire che giorno sia, e nemmeno quale mese di quest’anno del Signore 1332. So soltanto che è estate, perché fa caldo, ma nemmeno troppo, e le giornate sono lunghe, quindi potrebbe essere l’inizio di giugno. Sono qui da dieci giorni – quelli sì che ho potuto contarli – da quando fui spostato dal carcere dov’ero recluso. È il tempo passato in quella prima prigione di cui non ho la minima idea, perché vi ero giunto ferito gravemente e avevo passato lunghi momenti in stato di incoscienza, in preda alla febbre. In confronto a quella cella buia, fredda, umida e puzzolente, la sistemazione attuale può essere considerata fastosa.

Non mi capacito di come abbia potuto sopravvivere. Mi ricordo vagamente di un uomo che, i primi giorni, veniva a curarmi le ferite, lavandole, spalmandovi sopra un unguento, fasciandomi. Quando smise di venire ero ormai in via di guarigione. Mi sono rimaste delle cicatrici e una certa difficoltà a camminare, ma sto migliorando, anche se sono molto dimagrito. Probabilmente sembro più vecchio di quello che sono. Fra poco il mio corpo avrà recuperato del tutto la salute, ma non posso dire la stessa cosa della mia anima, ancora straziata dal dramma vissuto. Quante volte mi sono detto che sarebbe stato meglio morire! Che senso può avere ormai la mia vita? Perché non sono stato giustiziato? Perché non sono più in quel carcere? Domande che continuo a pormi senza poter dare una risposta, così come non so chi ha deciso di portarmi in questo luogo, e a quale scopo. I primi giorni avevo posto qualche domanda agli armati di vigilanza, ma nessuno aveva aperto bocca, come se non mi avessero nemmeno sentito. Dopo un po’ vi rinunciai: era evidente che avevano ricevuto ordini precisi e che non avrebbero parlato.

Odo il rumore del catenaccio che viene aperto e una guardia si affaccia facendomi cenno di muovermi. Penso che sia giunta l’ora di fare i soliti due passi in cortile, ma non è così. Dietro alla porta c’è una seconda guardia e i due armati mi prendono in mezzo e, anziché portarmi fuori, mi conducono in un’altra stanza, molto grande: c’è un ampio camino, con gli utensili per cucinare, un tavolo con le sedie, un armadio basso, due cassapanche; con mia sorpresa, seduto a un lato della tavola, scorgo un uomo, di circa quarant’anni, un nobile signore, per la veste di tessuto blu finemente lavorata, per il portamento composto, fiero, di chi è cosciente del proprio lignaggio. Porta lunghi capelli lisci, neri come piume di corvo ma screziati da fili d’argento, come la barba, lunga a partire dal mento, che contorna un volto ovale, dal colorito scuro; gli occhi, anch’essi neri, sono grandi e luminosi, la fronte alta, solcata da rughe, da cui scende un naso affilato, poco sporgente dal viso. Mi sento a disagio di fronte a quest’uomo, consapevole del mio lurido aspetto e dello squallore di ciò che indosso, una tunica e un paio di brache di cotone grezzo, sporche e logore, che devono puzzare tanto quanto me, con barba e capelli incolti. Il nobile non dà segno di accorgersene e mi fa cenno di sedermi di fronte a lui, invitandomi con modo cortese.

«Vieni a mangiare qualcosa, sarai affamato», mi dice.

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