Descrizione
Mario, un ragazzo di Arona, classe 1920, muore a vent’anni tra le sabbie di El Alamein, condividendo il destino di tanti altri giovani ai quali una guerra – una qualsiasi guerra – ha sottratto il diritto alla vita.
Trent’anni dopo, inspiegabilmente, un giovane tedesco, Franz, scopre a poco a poco che dentro di lui rivive il Mario, del quale non aveva mai neppure sentito parlare, e questa “reincarnazione” negli anni Settanta è talmente ben riuscita da convincere davvero tutti – ex fidanzata, ex commilitoni superstiti… – perché il ragazzo è a conoscenza di dettagli e avvenimenti che soltanto il vero Mario potrebbe ricordare.
Così, Mario-Franz ritrova amici e conoscenti, ed anche la ragazza di cui era innamorato, Pinuccia, che, messa alla porta dalla famiglia, ha dovuto prostituirsi per vivere e mantenere il figlio che Mario non sapeva di aver generato. A poco a poco, il reduce redivivo ricostruisce la sua vita e quella della donna amata, ma il richiamo di El Alamein e il desiderio di ritornare là dove è morto è troppo forte. Questa volta, però, non sarà solo, ma accompagnato dalla sua donna.
L’elemento fantastico che caratterizza e rende intrigante tutta la storia è il motivo conduttore che permette una ricostruzione cruda ma convincente dell’epoca fascista prima, di alcuni scenari della seconda guerra mondiale e della lotta partigiana poi, per finire con uno scorcio dell’Italia degli anni ’70.
Un romanzo a tinte forti, ben ritmato, denso e ricco, con personaggi a tutto tondo “di carne e di sangue”, capaci volta a volta di amore o violenza, vendetta o perdono.
INCIPIT
“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…” intonava la banda che sfilava per le vie della cittadina. “Giovinezza, giovinezza…” cantavano in coro le ragazze con la camicia bianca e la gonna blu plissettata. Sarebbe stata una bella domenica di primavera con il corteo fino in piazza, la Messa, la gita in battello per qualcuno e molti momenti di serenità per tanti altri da dividere con le persone care.
Sarebbe senz’altro stata una bella domenica anche per la Rosetta: dopo!
Impegnata nella fatica più importante di una donna, non riusciva a espellere il suo primo bambino. Era dal mattino presto che si erano rotte le acque e il tutto sembrava essersi fermato. Niente spinte, niente dolori o quasi e la levatrice era andata addirittura a casa per il pranzo. Nel pomeriggio, una decina di rompiballe si erano affacciate alla stanza offrendo aiuto ma in realtà curiosando e spettegolando, mentre quella testa di cazzo del figlio era immobile come se fosse indeciso sul fatto di lasciare o meno l’utero che l’aveva ospitato per nove mesi. La partoriente a mezzogiorno aveva bevuto un brodino di carne di gallina come si fa quando si è ammalati, solo che la Rosetta non era ammalata, era semplicemente incinta e non vedeva l’ora di non esserlo più. Alle quattro del pomeriggio la levatrice si era ripresentata e aveva deciso che non poteva perdersi anche il concerto della banda in programma in piazza alle nove di sera, per cui il bambino doveva nascere a tutti i costi per quell’ora.
La dilatazione era quasi al massimo ma di questo passo avrebbe mancato almeno l’ouverture della Traviata che apriva il concerto, per cui prima dilatò con le dita la povera Rosetta che si era assopita e poi cominciò a premere sulla pancia.
“Spingi, forza!” urlava la levatrice.
“Prendi un bel fiato e spingi come quando sei al gabinetto!” sussurrava di controcanto la vicina di casa che aveva già avuto nove figli senza mai smettere di lavorare nei campi anche appena prima del parto. La Rosetta le aveva dato retta, con il solo risultato di sfiancarsi inutilmente; al posto dell’inguine sentiva la presenza di una palla delle dimensioni di un’anguria che non andava né su né giù. Poi la vicina e la levatrice le salirono praticamente sulla pancia e la povera donna sentì un dolore violento come se le sue povere carni si stessero per lacerare, lanciò un urlo e spinse con la forza della disperazione… qualcosa si mosse.
“San Carlun aiutaci” esclamò la levatrice vedendo un piedino apparire tra le pareti della vagina ora dilatata al massimo. Con mani esperte afferrò prima un piede poi l’altro e cominciò a tirare, mentre spediva la vicina di casa a chiamare il vecchio medico condotto.
“Digli che è podalico, che è primipara e che non ha più le spinte.”
Il vecchio medico arrivò con ancora indosso la camicia nera del corteo del mattino e con l’alito che sapeva di vino, provò la pressione alla Rosetta, le ascoltò il cuore, poi aprì la borsa e caricò la siringa di vetro con un liquido giallastro contenuto in una fiala. Lo iniettò in una natica della donna, aspettò una decina di minuti, prese una forbice e chiese alla Rosetta di spingere più che poteva. Mentre era al massimo dello sforzo, le fece un taglio sulla parete laterale della vagina. L’urlo della poveretta arrivò fino in piazza dove stavano montando il palco per il concerto. La Rosetta cominciò a realizzare quello che tante donne più anziane le avevano detto e cioè che il parto non è un meccanismo proprio naturale e che a volte da lì il bambino non passa.
Con l’ostetrica seduta a cavalcioni sulla pancia e con il medico che tirava i piedi del nascituro la faccenda cominciò a sbloccarsi e dopo qualche minuto la creaturina era uscita fino al collo, ma la testa era incastrata.
“È un maschio, un bel maschietto” urlò la vicina di casa praticamente in faccia alla Rosetta che oramai non capiva più nulla e che stava per avere una crisi isterica. La sberla del medico le fermò l’urlo:
“Spingi, scema, spingi, adesso.” E tirò per i piedi il bambino finché la donna, con un ultimo grido, ebbe la forza di spingerlo fuori.
E mentre tutti cominciavano a fare festa, mentre le comari e tutte le donne del cortile invadevano la stanza, mentre fuori gli uomini stappavano i bottiglioni di Barbera, mentre si mandavano staffette ad avvisare i parenti, la Rosetta, oramai felicemente rimbambita, piombò in un lungo dormiveglia durante il quale espulse la placenta davanti a tre giovani donne che guardavano inorridite, mentre una quarta veniva allontanata perché altrimenti si sarebbe spaventata e non avrebbe mai più voluto un uomo. Perlomeno così affermava la Caterina, vero e proprio capo cortile che, invece, gli uomini li voleva tutti. Il cordone ombelicale e la placenta passarono di mano in mano e ognuna sentenziò che tutto andava bene. A quei tempi un parto in casa era l’evento più seguito del quartiere e riuscire a imporre il proprio parere equivaleva ad avere accesso a tutti i parti successivi:
“Non ha studiato ma ne sa più lei di un’ostetrica!”
Il lavaggio del bambino fu affidato a due vecchie che in totale avevano partorito una ventina di figli: il piccolo fu lavato in acqua tiepida, cosparso di borotalco e avvolto in chilometriche fasce. Non smise un attimo di piangere. Poi fu appoggiato sulla pancia della neo mamma e cercò da solo il capezzolo come la natura gli imponeva. La Rosetta non se ne accorse neanche e si svegliò dal torpore solo quando l’ostetrica le suturò la ferita.
Prima di andare via, il medico le infilò una mano nella vagina ancora aperta e sentenziò:
“Sembra tutto a posto, se non viene la solita emorragia non ci saranno problemi.” Poi rivolto alla levatrice aggiunse: “Continua tu a cucirle la ferita e controlla bene la placenta che io non posso perdermi il primo pezzo del concerto perché mio nipote debutta come oboe solista.”
La Rosetta si svegliò la mattina dopo con due tette grosse e gonfie come due meloni e con il basso ventre in fiamme. Fu lì che per la prima volta si rese veramente conto di essere madre, vide e prese in braccio il figlio che le si attaccò al seno come una sanguisuga. Nel frattempo fu trasferita in cucina e sul lettone riprese il suo posto l’enorme bambola col vestitino di taffetà azzurro vinta al tiro a segno della festa del paese.
La Caterina le portò il brodo di faraona che fa fare il latte.
La Neta le portò il Brachetto che fa fare il latte.
La vide anche il prevosto che la benedisse dal peccato che evidentemente aveva commesso, benedisse il piccolo in attesa del battesimo e le portò due bottiglie di birra che fanno fare il latte.
Una mucca!
Vide anche il Piero col vestito della festa che sembrava addirittura sobrio. Lui le disse:
“Il mio primo figlio lo voglio chiamare Giovanni come mio padre.”
“No, lo chiameremo Mario come il mio che non c’è più e comunque questo è il primo e l’ultimo… argomento chiuso.”
La levatrice corse a casa a cambiarsi e arrivò al concerto in tempo per sentire il nipote del medico che si cannava tutto l’assolo dell’oboe. Una figura di merda!
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.