L’uomo dei corvi

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Grazia Maria Francese

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-268-3 Categoria: Tag:

Descrizione

Adelwin non ha più incontrato suo padre Arechi da quando, dieci anni prima, l’uomo ha preso parte alla ribellione contro Carlo Magno ed è stato fatto prigioniero. Paolo Diacono, zio del ragazzo, s’impegna a farlo liberare. In cambio ottiene dalla famiglia che Adelwin entri nell’ordine benedettino, ma il destino del ragazzo non sarà la vita monastica e, pur imparando a leggere e scrivere il latino, seguirà una strada diversa da quella desiderata dallo zio Paolo. Questi, che vive in un mondo fatto di erudizione e di libri, ha ricevuto l’incarico di scrivere una cronaca del regno longobardo, diventato ormai provincia dell’impero carolingio. Nella speranza di raccogliere informazioni sulla storia della sua gente si rivolge a un “uomo della memoria”, e l’opera che scriverà, la celebre Historia Langobardorum, è considerata ancora oggi la principale fonte storica dell’alto Medioevo italiano, dove affondano le nostre radici culturali, che L’uomo dei corvi, romanzo storico appassionante e ben documentato, ci guida a esplorare.

INCIPIT

 “Ancora niente, ragazzo?”

La voce del monaco lo fa trasalire. Non s’era accorto del suo arrivo: eppure gli scalini di legno devono avere scricchiolato sotto i suoi passi pesanti. Adelwin si rimprovera. Se fosse stato un fiand, un nemico, adesso sarei morto… ma non ci sono fiandar qui. E io non sono una vera sentinella. Non lo sarò mai.

“Niente, reverendo padre. In tutto il giorno sono passati solo un gregge di pecore e un carro di fieno.”

La luminosa sera d’estate sta sbiadendo. L’ultimo raggio di sole colpisce la vetta delle montagne, ma la valle è già in ombra: una foschia sottile si alza dagli acquitrini in riva al lago. La strada limitanea si arrampica sulle falde delle colline, come un serpente che cerca il calore delle rocce. Nel punto in cui incrocia la via per Mediolano, la fiammella giallastra di qualche lucerna è già accesa nelle casupole di Clavis.

Si sente stanco. Fin dal mattino è stato lì sulla torre di segnalazione, a strizzare gli occhi nel sole che gli ha bruciato la faccia: con il vento nei capelli e lo stridìo dei falchi come unica compagnia. Il monaco gli posa la mano sulla spalla.

“Vedrai che domani saranno qui. È un viaggio lungo, tuo zio non è più giovane e…” Lascia la frase a metà, ma si capisce cosa intende dire. “E nemmeno tuo padre lo è. Chissà come sarà ridotto, dopo dieci anni di prigionia!”

Ha un po’ paura di incontrarlo. Se lo ricorda appena: aveva solo cinque anni quando il padre è partito per prendere parte alla ribellione contro i Franken. Non l’ha mai più rivisto. Sperava sempre che le notizie fossero false. Che la rivolta non fosse finita così male: che i ribelli fossero riusciti a fuggire oltre le montagne, nella terra dei Wari… speranze che la madre faceva finta di condividere. Ma Adelwin la sentiva piangere di notte, quando gli altri dormivano.

Qualunque cosa fosse accaduta ad Arechi, il marito, una cosa era certa: la morte di Folkehri, il primogenito. Il suo corpo era stato riportato a casa martoriato dalle asce dei fiandar. Isitruda, la madre, ne era stata sconvolta. Non aveva approvato la decisione del marito: tredici anni sono troppo pochi per trascinarlo in un’impresa come questa, aveva detto. Arechi era andato in collera.

“Cosa ne vuoi sapere, tu? Avevo la sua età quando mio padre mi fece entrare nell’esercito di Ratchis. Ho combattuto per vent’anni, eppure sono ancora vivo. Il ragazzo è in gamba. Se la caverà!”

I fatti gli diedero torto: Isitruda non gliel’ha mai perdonato. Ma non ha avuto modo di riversargli addosso le parole amare che cova nell’animo, perché di Arechi non s’è saputo più nulla.

Speranze, disperazione, rimpianti furono spazzati via dalle parole del barba, lo zio Paulus. Si presentò inaspettatamente a casa una sera d’inverno, quando Adelwin aveva undici anni. Il suo viso era paffuto e simpatico, la corta barba ben curata. La tonsura attorniata da un’aureola di radi capelli biondi sembrava risplendere di luce propria al riflesso del fuoco.

“Ho saputo qualcosa” annunciò. “Tuo marito è vivo, grazie a Dio: ma è prigionieri dei Franchi. Sono venuto fin qui, con la dispensa dell’Abba, per portarti questa fausta notizia.”

Isitruda era forte, come tutte le donne langbardar. Soltanto il tremito della voce lasciò trapelare la sua emozione. “Dove l’hanno portato?”

“Ad Aquis Granni.”

“In Austrasia?” Sembrò diventare curva come sotto il peso di un grosso fardello. “Così lontano?”

“No! Nel Piceno c’è un luogo che, per uno strano caso, porta lo stesso nome: Aquis Granni. Sulle colline di quella regione Re Karyl sta facendo edificare una città chiamata la Nuova Roma. Sarà la residenza di suo figlio Pipino, futuro re dei Langobardi. I prigionieri sono impiegati a costruire il palazzo.”

“Fadar non è capace di costruire un palazzo!” esclamò Gunda, la sorella maggiore. Aveva solo un anno più di Adelwin, ma si credeva già in diritto di dire la sua quando parlano i grandi. La madre le tirò uno scappellotto: il barba invece sorrise.

“Arechi è bravo in tante cose: avrà imparato a spaccare le pietre e impastare la malta, se è questo che bisogna fare per restare vivi. Quando tornerà sarà diventato un vero e proprio magister commacino. Magari riuscirà a rimettere in sesto perfino questa vecchia stamberga!”

Ce ne sarebbe bisogno, pensò il ragazzo. Le pareti della casa di famiglia erano piene di crepe, le scandole del tetto saltate via in diversi punti: nei giorni di pioggia la mamma ordinava a Gandulf e Haimo, i figli più piccoli, di mettere delle conche in tutti i posti dove l’acqua sgocciolava sul pavimento. Non c’erano più uomini capaci di fare le riparazioni necessarie, né denaro per pagare qualcuno. Ma fare queste cose tocca ai servi, non ad Arechi figlio di Warnefrid. Un comes di Rothgaudo, duca di Foroiuli? Immaginarlo con una cazzuola o qualche altro attrezzo, arrampicato sul tetto della casa, era semplicemente assurdo.

“E quando tornerà?” chiese Gunda. In cuor suo Isitruda forse fu grata alla ragazzina di avere posto la domanda che non riusciva a fare.

“Non lo so” rispose lui tranquillamente. “Ma farò di tutto perché sia presto.”

Adelwin lo guardò: sembrava che dicesse sul serio. Era la prima volta che incontrava il barba, come viene chiamato il fratello maggiore del padre: ma aveva sentito parlare di lui. Nonno Warnefrid, quando era in vita, aveva progettato bene il futuro della famiglia. Il figlio cadetto, Arechi, avrebbe servito nell’esercito del re: invece Paulus, il primogenito, sarebbe andato a Ticeno per compiere i suoi studi. Non per niente l’aveva fatto battezzare con un nome latino! Era la prima volta che questo accadeva, nella loro stirpe.

Arechi era diventato in breve tempo un campione famoso. Ma non riuscì a conquistarsi una posizione importante perché disapprovava la politica di Ratchis, che riteneva troppo conciliante verso il papa e i latini. Anche quando i duchi avevano deposto Ratchis per eleggere re Haistulf, duca di Foroiuli, le cose non erano cambiate: aveva partecipato a molte battaglie, ma non aveva fatto carriera. Forse non era capace di farsi amico dei potenti.

Paulus era sempre rimasto a Ticeno. Oltre alla grammatica e alla legge s’era messo a studiare la Sancta Sophia, come dicono i preti, cioè le Scritture: in pochi anni aveva ottenuto il rango di diacono. Alla morte di Haistulf, il nuovo re Dauferius l’aveva nominato precettore delle sue figlie. E quando la principessa Adelberga aveva sposato il duca di Benevento, il barba s’era trasferito laggiù. Si diceva che in seguito fosse diventato monaco nella famosa abbazia di Mons Cassino, dove Ratchis aveva trovato rifugio nella vecchiaia.

Era la prima volta che rimetteva piede a Foroiuli dopo un’assenza di quasi quarant’anni. Ormai parlava male la lingua dei Langbardar, con un forte accento straniero: si sentiva che era abituato al latino, forse perfino al greco. Indossava un saio e una coculla di lana cotta, morbidissima, che prodigiosamente non s’erano inzaccherati nel viaggio disagevole sulle strade d’inverno. Forse ne aveva molti nel suo bagaglio. Chissà se toccava al suo allievo tenerglieli puliti?

“Tu?” si stupì Isitruda. “E come pensi di riuscirci? Purtroppo non abbiamo oro sufficiente a pagare il riscatto. Anzi, a dire il vero” arrossì “non ne abbiamo proprio.”

“Questo lo vedo da me” disse il barba. “Anche se foste ricchi, tuttavia, l’oro sarebbe inutile. Re Karyl odia i ribelli di Foroiuli, gli unici che abbiano davvero cercato di rovesciare il suo dominio sull’Italia. È già tanto che non li abbia fatti giustiziare: non accetterà che vengano riscattati, per nessuna somma.”

“E allora tu come farai?” chiese Adelwin, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.

“Un modo lo troverò.” Il barba prese un altro sorso di vino. Per fare onore all’ospite, la madre l’aveva mandato a spillare una brocca dall’unica botte rimasta in cantina. Somiglia proprio a fadar, pensò Adelwin: poche parole, e ti guarda dall’alto in basso come se lui fosse a cavallo e tu in ginocchio nella polvere. Vorrei riuscirci anch’io…

Paulus fece schioccare la lingua. “Vino di Foroiuli… non ne ricordavo più il sapore! Davvero eccellente. Si sta facendo tardi, cognata. Questi ragazzi dovrebbero essere già a letto.”

La mano del monaco gli batte sulla spalla distogliendolo dai ricordi. La luce è quasi del tutto scomparsa: la strada non si vede più.

“Ormai non arrivano di sicuro: sarebbe una pazzia viaggiare di notte. Forza, scendi con me nel refettorio! L’ora di cena è passata, ma ho lasciato detto che tenessero in caldo qualcosa per te.”

Quel monaco, gli hanno spiegato, viene chiamato il cellerario. Si occupa delle provviste, della cucina, di accogliere gli ospiti, ed è esentato dalle preghiere diurne. Lo segue di malavoglia. Sa già cosa lo aspetta a tavola: minestra di legumi, qualche tozzo di pane raffermo da inzupparci dentro, mezzo boccale di vino acido… per quanto a casa della madre non regnasse certo l’abbondanza, è abituato a pasti più sostanziosi. Ricorda il sapore della carne di cervo, la lepre stufata con i funghi, la poehla condita con una buona razione di burro e formaggio… gli viene l’acquolina in bocca: di colpo si accorge di avere una fame tale da divorare perfino la ciotola. Gli torna in mente quello che fadar ha detto una volta, quando era ancora piccolo.

Il figlio di alcuni parenti aveva compiuto dodici anni: età in cui avviene la cerimonia di consegna del prand, la spada, che segna l’inizio dell’età adulta. Adelwin era fierissimo di essere stato invitato anche lui. La prima volta che partecipava a un banchetto insieme al padre e al fratello maggiore, proprio come un uomo! Si sforzava di tener dietro ai loro cavalli con il suo piccolo puledro. Appena fuori dalle mura della città il padre s’era fermato, aveva frugato nella bisaccia e messo in mano a ciascun figlio un pezzo di carne secca.

“Non ne voglio” aveva detto Folkheri. “Mi rovinerei l’appetito. Ci saranno montagne di cibo!”

“Perciò devi mangiare prima” aveva risposto fadar. “Chi arriva a banchetto con la pancia vuota fa la figura dell’ingordo, e non sa interessarsi ai discorsi degli altri.”

Giusto, si dice Adelwin. Ma come avrei potuto riempirmi la pancia su quella dannata torre? Tre mele verdi mi hanno dato da mangiare, in tutto il giorno! Ne risente in bocca il sapore asprigno. Si sforza di mangiare adagio: almeno il pasto durerà di più.

Discorsi da ascoltare non ce ne sono proprio, lì. Nel monastero di San Pietro in Clavis dormono già tutti, tranne il cellerario che ciondola dal sonno aspettando che lui finisca di mangiare. Alla terza vigilia i monaci devono svegliarsi per recitare il Mattutino: li sente ogni notte dal suo pagliericcio nella foresteria. Le voci salmodianti sembrano il mormorio di un ruscello. Si gira e rigira inquieto, pensando che presto quella levataccia quotidiana toccherà anche a lui. Pensa a Roswitha, e si sente bruciare sulle guance lacrime di dispetto.

“Un monaco? Tu?” Ha scrollato i riccioli neri e s’è messa a ridere, ridere… gli viene voglia di prenderla a schiaffi e poi di baciarla, come ha fatto quel giorno.

“Questo lo dice il barba, ma si sbaglia. Appena rilasciano mio padre scappo… torno qui e ti rapisco!”

Gli ha rivolto un’occhiata birichina. “E se io non volessi essere rapita? Se nel frattempo mi fossi già sposata con un altro?”

“Fallo pure, se vuoi.” Ha scrollato le spalle. “Sposa Adelmo, quel sacco di ciccia: suo padre è il capo della guarnigione dei Franken. Un buon affare.”

“E allora tu cosa farai?”

“Troverò un’altra… più bella di te! Una ragazza di stirpe nobile.”

Roswitha ha scostato i capelli dalla guancia. Gli occhi neri le brillavano. “Sciocco!” ha sussurrato. “La mia stirpe è nobile quanto la tua. Lo sai. E credi che ce ne siano tante, più belle di me?”

“Non so. Fammi vedere.” Ha slacciato la fibula che le fermava la tunica attorno al collo. Gli tremavano le dita…

“Non c’è altro” dice il cellerario. “La Regula è molto chiara su questo punto: la cena dev’essere frugale. Troppo cibo nuoce allo spirito.”

Non s’era accorto di avere divorato tutto. “Sì, reverendo padre!” Non ha ancora l’obbligo di chiamarlo così, ma gli hanno detto che deve abituarsi. “Posso andare a dormire?”

“Prima lava la ciotola e il cucchiaio. Ricordati di recitare il salmo che t’ho insegnato ieri.” Lo benedice e se ne va. La Regula dice che non bisogna pronunciare parole superflue.

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