Gotham City ha bisogno di te

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore:Manuel Vestrucci

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-235-8 Categoria: Tag:

Descrizione

Questo romanzo è liberamente ispirato alla storia di Miles Scott, un bambino di San Francisco gravemente malato di leucemia che, grazie alla Fondazione Make-a-Wish poté realizzare il suo sogno di essere, per un giorno, Batkid, l’aiutante di Batman, il suo supereroe preferito.

Stewie, il protagonista di Gotham City ha bisogno di te, ha nove anni, una grande passione per i videogiochi, per i Pokemon e per Batman. È un bambino intelligente e razionale, sensibile e attento a tutto ciò che accade intorno a lui. I suoi genitori, Cooper e Cobie, affrontano la terribile esperienza della sua grave malattia, che metterà in evidenza le loro fragilità, ma anche il loro coraggio e il loro amore.

INCIPIT

Prologo

01.

La sera prima

Novembre 2013

«Quindi a che ora sarà pronto?»

Stewie udì un rumore sconnesso provenire dalla cornetta, come se tante zanzare rinchiuse in un barattolo non vedessero l’ora di evadere dalla prigionia.

«Sì, certo. Grazie. Si figuri. A domani» disse chiudendo definitivamente la telefonata. Anche quella era durata all’incirca una mezz’ora. Per ascoltare la televisione aveva dovuto alzare fino a ventidue.

Un’enormità, di solito la teneva a quattordici.

Ultimamente, Cooper trascorreva gran parte delle sue giornate al telefono. E spesso piangeva. Per modificare il suo trantran quotidiano, doveva essere successo qualcosa di veramente grave.

L’uomo entrò in sala e si lasciò cadere sul divano vicino a lui. Stewie stava guardando un altro episodio di Family Guy. Lo davano sempre dopo cena e non ne perdeva uno. Era l’appuntamento fisso che anticipava la prima visione serale.

«Eri al telefono con mamma?» gli chiese.

Suo padre rispose di no mentre spalancava la bocca in uno sbadiglio.

«E allora chi era?»

«Un signore che aveva sbagliato numero.»

E c’era voluto così tanto per capirlo? Stewie però decise che non aveva motivo per non credere al padre.

«E quando torna?»

«Stewie, non lo so. Deve finire un importante lavoro fuori città. Dopo la chiamo e glielo chiedo.»

«Ok.»

Sai Brian, se io ora decidessi di fare il pieno al pannolino ci saresti soltanto tu qui per cambiarmi, cosa te ne pare?

Tanto io non ti cambio.

Non parlerai sul serio! E se io metti faccio la cacca? No, non succederà, no, non succederà… ahh, l’ho fatta!

Si sentirono le risate di sottofondo.

«Come si chiama il cane?» domandò Cooper.

«Brian.»

Quando c’era la famiglia Griffin in televisione, suo padre gli rivolgeva sempre le stesse domande da finto interessato. Così Stewie giocò d’anticipo e aggiunse: «Il bambino si chiama Stewie come me».

«Ma che coincidenza. Lo sai che è una coincidenza, vero?»

E si ripeteva anche nelle osservazioni.

«Certo, me l’hai già detto.»

«Davvero?»

«Sì, Cooper.»

«Stewie» lo rimproverò «ti costa molto chiamarmi papà o babbo? Anche padre può andar bene».

«Dai! Ma perché?»

«Perché di solito funziona così.»

«Ma Cooper è più bello!»

«E a te non suona strano?»

«Strano?»

«Insomma, dovresti chiamarci mamma e papà, non mamma e Cooper. Sembro un estraneo o una specie di zio surrogato.»

«Surrogato?»

«Finto» spiegò l’uomo.

«Comunque se fossi uno zio ti chiamerei zio Cooper.»

«Ecco, appunto. Stewie, ormai hai nove anni, cominci a diventare un ragazzino.»

«Sì, infatti faccio la cartella per la scuola da solo. Ma Cooper è comunque più bello da dire. Suona bene. Sembra il nome di una gomma da masticare.»

Sorrise poi cercò di sedersi meglio sul divano, più composto.

«C’è una cosa che devo dirti.»

«Adesso? L’episodio non è ancora finito. Me la puoi dire dopo?»

Stewie sapeva bene quanto fossero lunghe le ramanzine di suo padre. Non andava mai al punto e ci metteva delle ore. Sua madre, invece, era molto più diretta e concisa. Cobie andava subito al sodo e senza pretendere la stupida promessa di comportarsi meglio in futuro. Diceva quel che aveva da dire e poi tornava a farsi gli affari suoi. Se Cooper avesse cominciato a parlare, Stewie si sarebbe certamente perso il resto dell’episodio. Tra l’altro era l’ultimo dei due in programmazione e voleva gustarselo senza essere disturbato.

Cooper lo fissò a lungo e poi sospirò.

«Va bene» disse alzandosi dal divano «ma dopo a letto presto. Domani sarà una giornata impegnativa».

«Perché cosa succede domani?» domandò di scatto Stewie. Sperava non c’entrasse il dottor Bob. Non perché odiasse il dottor Bob o le sue medicine, ma perché aveva una paura cieca della Stronza.

Cooper sbiascicò qualcosa di incomprensibile, poi si schiarì la voce e disse:

«La scuola».

«Come sempre.»

Tutto lì? Stewie si lasciò cadere sul divano, tornando a concentrarsi sulle avventure di Peter Griffin.

«Beh sì, mi sono espresso male.»

L’uomo si scusò con il figlio e poi uscì dalla stanza.

Stewie Galfrix allora prese il telecomando e abbassò il volume della televisione, riportandolo al solito quattordici. Così avrebbe potuto sentire le battute del cartone animato origliando, però, anche quello che faceva Cooper.

Stranamente era tornato in cucina, anche se nemmeno quella sera c’erano piatti da lavare. Ultimamente ordinavano spesso da asporto.

Quando era a casa, Cooper era solito chiudersi a chiave nello studio e continuare a fare quello che faceva in ufficio: ovvero gingillarsi al computer.

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