Non tutto è permesso, tutto è possibile

15,00

Formato: Libro cartaceo pag.112

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Autore:Giampaolo Di Stefano

Note sull’autore

 

 

COD: ISBN: 978-88-5539-232-7 Categoria: Tag:

Descrizione

Lo scrittore Raul Robb è intento a scrivere un romanzo, in continuo e costante conflitto con il suo doppio, il Ghostwriter; immediatamente, il lettore viene catapultato in un mondo immaginario, dove gli elementi reali si mescolano ad elementi surreali, capaci di suscitare emozioni e offrire spunti di riflessione, sì che, ben presto, lo scrittore e i suoi personaggi si ritrovano sullo stesso piano narrativo.

Questo romanzo fantastico surreale, dal ritmo dinamico, quasi frenetico, risulta essere un efficace scritto di denuncia, soprattutto riguardo al genocidio degli Indiani d’America, ma anche un trattato sui generis sull’arte dello scrivere.

Prefazione di Marco Majone: laureato a pieni voti all’Università “La Sapienza” di Roma in Lettere e Filosofia, oltre ad essere un  attento studioso di Storia e Filosofia ed aver pubblicato diversi saggi, è stato un mio attento lettore come scrittore emergente e gli sarò eternamente grato per i preziosi consigli che mi ha elargito nel tempo. Prematuramente scomparso, il suo ricordo rimarrà in me indelebile.

   Giampaolo Di Stefano

È difficile ammettere che la democrazia possa essere, quando non correttamente applicata, un veicolo di sopraffazione e di dominio. Eppure è così. Voglio dire che non di rado il concetto è stato manipolato e reso diverso da quello che è, a vantaggio della demagogia e del facile populismo. In nome della democrazia, come della libertà, si sono commessi delitti atroci. La storia ne anella un’innumerevole serie. Ciò che aumenta lo sconcerto è che spesso, ancora oggi, chi si rende, o pretende di rendersi, artefice e custode della democrazia finisce per esserne detrattore nei fatti. Chi fa della democrazia un concetto assoluto è da temere, perché è là dove si grida alto il suo esercizio esclusivo che è più facile scorgere l’inganno e la mistificazione. La democrazia non è mai soltanto formale, ma è soprattutto sostanziale. È così, oppure non è. Non c’è scampo. La democrazia è un tendere a, uno strumento, non è un fine per pochi per annichilire molti. È un tendere alla libertà, questa sì da intendersi come fine. E la libertà come essere, come assoluto, sta nel volto degli altri, nei volti di tutti gli altri. Il tratto egualitario della democrazia risiede proprio qui e cioè nello sguardo di chi subisce la perversa logica dei poteri, di chi cerca di essere quello che è per essenza e non per quello che si pretende che sia. Qui si coglie il grave peso dell’inganno, qui la partita passa nelle mani di chi bara. Penso a chi si fa interprete alla democrazia della nicchia, pregiudicando gravemente il reale concetto di democrazia. Intendo dire quella liberista, piuttosto che liberale, quella che condiziona la libertà, riconducendole in ragione dei pochi spazi che si intendono lasciare alle reali autonomie. Sono spazi effettivi, ma limitati, dalle nicchie appunto, dove i potenti lasciano apparire e non essere i soggetti che li occupano. Dalla nicchia si è soltanto liberi di uscire per essere strutturati all’interno di sistemi consumistici o per essere addestrati ad essere acritiche cinghie di trasmissione di potere, mentre quanti regolano il perverso meccanismo si ergono a custodi e garanti dei diritti umani, pronti a stigmatizzare le pagliuzze degli altri per nascondere le proprie travi. Giampaolo Di Stefano in questo suo terzo romanzo ci pone di fronte a una offesa profonda dei diritti soggettivi, una, per carità, tra molte, ma, a differenza di tutte le altre, dimenticata, perché non ha avuto memoria, distratta nella storia proprio da quelle pretese di esclusiva detenzione della democrazia di cui facevo cenno. Si tratta dello sterminio sistematico degli Indiani d’America, uno dei più praticati nella storia, considerando che ha avuto corso dall’età immediata post-colombiana fino al XX secolo, e che ancora oggi si perpetua nelle forme della discriminazione sociale e culturale. La storiografia, sorda e muta, poco si è accorta della crudeltà di tale genocidio, fondato sullo scempio perpetrato ai danni di una parte dell’umanità, per spossessarla della propria terra e per offenderla con lo stupro fisico, con la riduzione ad animalità, con lo sventramento culturale, perché potesse così attecchire alla millantata “vera democrazia”, quella “assoluta”, quella che non vede il relativo rispetto a sé, se non attraverso sé. Sia chiaro: Giampaolo Di Stefano non colma una lacuna storiografica, troppo ampia dall’altra parte. Piuttosto, con il suo linguaggio conciso, con il suo rapsodico flusso narrativo, con il suo stile, dunque, che più lo caratterizza, descrive, anche con tratti apparentemente ingenui ma sempre arguti e oculatissimi, il lento e nobile dolore di un popolo, un dolore silenzioso, immemore forse, ma pieno di dignità. Quando ho discusso con l’autore i contenuti di Non tutto è permesso, tutto è possibile, egli mi ha detto che nel suo registro narrativo la poesia non è contemplata. Non è vero. Tanto più il reticolato narrativo si fa stringente, proprio lì la serrata maglia del racconto si gonfia di poesia. Là dove la costruzione dei periodi si manifesta frammentaria, anche approssimativa, proprio lì, dove il procedere logico e narratologico sembra assottigliare i già deboli fili, Giampaolo Di Stefano pone le corde solide dell’evocazione, dei flebili ma intensi suoni dei sentimenti e la tavolozza dei colori si fa intensa e suggestiva. Allora, le rughe segnate nei volti nativi sono i solchi profondi delle loro terre e dei loro tormenti, i gesti diventano tocchi magici, il dire, o il non dire, la forza e l’orgoglio di una cultura calpestata, i sogni non sono astrazioni semplicemente oniriche, ma candide visioni di quello che doveva essere e che non è stato. Tutto questo è esaltazione della ragione poetica che surroga, e tuttavia risalta, la ragion storica. E in questo gioco di rilievi, in quel caleidoscopico di effetti, la descrizione di una carezza a un bisonte non è un toccante episodio brevemente digressivo, ma l’estetica intuizione, sublime invero, di un tempo e di uno spazio storico che subito recuperano una memoria offesa.

Marco Majone

 

 

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