La voce del maestrale

17,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Nunzio Russo

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-214-0 Categoria: Tag:

Descrizione

Salvatore Musumeci, mugnaio del paese di Granata, si è arricchito col suo duro e onesto lavoro, fino a comprarsi il titolo di barone di Mezzocannolo: un titolo che, secondo le sue intenzioni, dovrebbe permettergli di essere più autorevole nei confronti del principe di Granata, senatore del Regno d’Italia, fondatore del paese oltre che potente “signore del pane”, in quanto proprietario dei mulini che macinano la gran parte della farina per i panettieri. Ma il principe è di diverso avviso: il pane è “roba sua” e la concorrenza di quel parvenu di Musumeci – anche se minima – è per lui un continuo affronto. Inoltre, insulto imperdonabile, il barone ha umiliato don Pietro Bellomo, soprastante del feudo principesco, frustandolo a sangue. I rancori esplodono all’improvviso: mentre Turi Musumeci passeggia sulla spiaggia, una scarica di pallettoni lo centra in pieno.
Il mulino passa a suo figlio Vincenzo, che comincia a produrre semole da pasta, poi fonda il Pastificio Musumeci, con ottimi guadagni. Ma non va altrettanto bene la vita sentimentale di Vincenzo, da sempre innamorato di Maddalena, medico missionario in Africa, ma sposato ad Ada, madre di suo figlio Totò, lentamente avviata verso una quieta follia. Una visita del giovane all’Asmara ed un incontro d’amore con la donna avrà le prevedibili conseguenze: Maddalena resta incinta e, per salvare se stessa e il bambino dalla vergogna, sposa Adriano Baggio, un ufficiale appena arrivato dall’Italia.
Una saga famigliare che parte dal 1910, attraversa tutto il secolo, tra due Guerre Mondiali, il Ventennio fascista, la Campagna d’Africa, la caduta della monarchia, l’avvento della repubblica, e arriva quasi a oggi. Un sorprendente romanzo d’esordio che è lo splendido affresco storico e sociale di un mondo scomparso, tra segreti, passioni inconfessabili, odi, vendette, peccati “dalla lunga ombra”. Una vicenda narrata con una prosa impeccabile, ritmo sostenuto e assoluta verosimiglianza: la storia degli uomini che hanno fatto l’imprenditoria del Sud, tra dure fatiche e ostacoli quasi insormontabili, con audaci intuizioni e molta perseveranza. Personaggi, sia principali che di contorno, che amerete per il loro coraggio, la loro forza morale e la profonda umanità, ma anche per il loro spirito e la inarrestabile vitalità.

INCIPIT

Spesso morire è una liberazione, soprattutto se si è vecchi e si naviga pure in cattive acque. In quel caso, dunque, la breve malattia e la morte arrivarono nel momento più opportuno.

Il vecchio onorevole aveva ormai ottantasei anni e, come la maggior parte degli anziani, ricordava tutti gli eventi passati e niente delle settimane precedenti. A momenti era talmente lucido e perspicace da stupire anche i più scettici, ma più spesso la demenza senile e una forma maniaca rivolta al sesso, ovviamente innocuo, lo facevano credere capace di grandi conquiste nel mondo femminile. Imprese non dovute tanto alla sua dialettica, che era sempre stata acuminata e che durante la sua giovane età aveva fatto capitolare molti buoni propositi, ma ottenute, così credeva lui, dal fascino del suo fisico da ottantenne indéshabillé. Ultimamente, appunto in déshabillé, si affacciava al balcone e chiamava a squarciagola, con la voce stridula dei vecchi, le sue vittime designate. Altrettanto a squarciagola la sua dolce metà, la signora Elena, lo rimproverava a cuore aperto.

– Totò, vergognati! Guarda come ti sei ridotto! Ma sempre così sei stato: un maniaco! Mi hai messo tante corna che anche in cielo lo sanno. E io ti ho sopportato, soltanto perché sono una gran dama.

Tutto questo, naturalmente, avveniva sul terrazzo dell’appartamento condominiale al cui interno vivevano un centinaio d’anime sollazzate.

Alle sei del mattino squillò il telefono.

– Pronto –, disse Andrea Rao, assonnato e infastidito.

– Sono la mamma. Il nonno è morto.

Andrea aspettava quel messaggio. Il nonno stava male e l’ultima volta che lo aveva visto, un paio di giorni prima, non riconosceva più nessuno. Malgrado ciò, alla notizia così definitiva, i suoi occhi s’inumidirono e ci volle qualche minuto per riaversi e cominciare a vestirsi per andare a salutare la salma, che era stata composta nell’antica tenuta di famiglia.

Il cancello era aperto e lasciava intravedere il viale di palme e aiuole che, nonostante la stagione fredda, erano fiorite d’oleandri e gerani. L’enorme dirupo roccioso, la timpa, che sormontava la casa, dava al luogo un’aria imponente e cupa.

La costruzione in fondo al viale era un vecchio fabbricato del Settecento. Rispecchiava in pieno l’agiatezza di cui molte famiglie siciliane avevano goduto fino ad un recente passato, così come il suo stato d’abbandono rifletteva la crisi che era seguita.

S’intuiva, infatti, come negli ultimi anni l’onorevole si fosse limitato nel mantenerlo.

Andrea cercò nella sua memoria e costatò come proprio alla fine degli anni sessanta risalisse l’inizio del declino del nonno e di tutta la casata. Stranamente il periodo coincideva anche con la prematura scomparsa del fratello, quello che per tutti era lo zio Peppuccio, ma che per il nonno era colui che gli suggeriva l’iniziativa e che quasi gli dava la forza e il coraggio di agire. Da allora troppi fatti si erano susseguiti, e tutti disastrosi.

A pensarci bene, Andrea si rendeva conto che, durante quel periodo, non era cambiato solo il destino di una famiglia ma, forse, anche il corso della storia. Eppure questa consapevolezza non gli dava la lucidità per accettare i fatti serenamente: lui li aveva vissuti e ne portava ancora i segni.

Intento com’era a pensare, Andrea non osservò di avere oltrepassato la soglia d’ingresso tenuta aperta per l’occasione, e di avere automaticamente imboccato il corridoio che portava al gran salone dalle pareti vetrate. Subito fu con gli occhi fissi sul morto, già adagiato dentro la bara e messo al centro della stanza.

Si chiese se il momento che stava vivendo fosse reale perché, Dio gli era testimone, fuorché il feretro, niente faceva pensare che il nonno fosse deceduto: vestaglia di seta rossa, calze scure, foulard al collo, volto sereno e sorridente e con la stessa espressione sorniona che lui ricordava da quando era bambino. No, doveva essere un brutto sogno, un incubo in cui si affacciavano, sovrapponendosi a turno, le facce dei vari parenti seduti in circolo che, senza lasciare la loro posizione, aprivano impercettibilmente le bocche e facevano risuonare lamenti, con tono mistico e doloroso.

– Andreino, condoglianze –, disse uno.

– Andrea, che ci vuoi fare, è la vita. L’ora arriva per tutti –, sentenziò un’altra.

– Eh, ne ha fatto di bene, pace all’anima sua! Ne nascono pochi così –, disse Assunta Bonsignore, l’anziana madre dello zio Adriano.

Andrea non riusciva ad adattarsi alle circostanze perché, malgrado avesse trentacinque anni, non aveva mai assistito al rito della nottata intesa come visita, o mortu cunzatu. Anzi, ad onor del vero, Andrea non aveva mai visto un morto in vita sua, anche se aveva già sofferto la mancanza definitiva di affetti. Qualche anno addietro era morto suo padre, ma non ne aveva visto il corpo senza vita, e nemmeno c’era stata la veglia.

La mattinata passò e, avvicinandosi l’ora di pranzo, la folla dei parenti iniziò a scemare.

La nonna, che aveva già affrontato una prima lunga notte, decise che era meglio tornare in paese per essere così nelle condizioni di reggere il successivo pomeriggio e la nuova notte. Solo allora, finalmente, sarebbe stata consentita la tumulazione. Aveva quindi pensato di chiudere la casa per qualche ora e di andare contro la tradizione, quando Andrea decise di restare.

– Mi fa piacere rimanere con il nonno, così posso dargli un ultimo saluto in maniera più intima –, disse, e pensò di avere tante cose di cui discutere con lui e che non poteva certo farlo davanti a tutti quei parenti scassacazzi, e neppure quando il nonno sarebbe stato al cimitero, sottoterra. Senza guardarlo in faccia, non poteva essere la stessa cosa.

Andrea comprese che quella era l’occasione buona, certamente l’ultima nella quale poteva ripetere a suo nonno tutto quello che già gli aveva detto, ma che il vecchio aveva cocciutamente rifiutato di capire. Adesso, che per forza doveva avere una visione più chiara delle cose, avrebbe senz’altro compreso che lui aveva ragione. Naturalmente, con l’occasione, gli avrebbe chiesto scusa per aver avuto, a volte, delle reazioni esagerate e poco rispettose. Anche questo era da riconoscere.

E così, Andrea fu a faccia a faccia con il nonno e improvvisamente tutti i pensieri precedenti svanirono, lasciando il posto ai ricordi più dolci. Comparvero come tante luci i momenti che aveva passato con lui, a cominciare da quelli della sua infanzia spensierata. Si rivide a sette anni nella villa della nonna a Collesano. Il sabato, appollaiato sulla ringhiera del terrazzo, guardava la strada sottostante ancora percorsa da parecchi muli. Stava lì e aspettava di sentire il rombo dell’auto e l’arrivo del nonno adorato che, lungo quei tornanti, gli sembrava bravo come un pilota della Targa Florio. Doveva essere lui il primo a corrergli incontro e baciarlo, aspettando che gli dicesse: – Adesso il mio piccolo Andrea sale in macchina e guida tutto da solo.

A dieci anni, allo stadio della Favorita di Palermo, la sua espressione era fiera e orgogliosa. Sedeva nella tribuna delle autorità, a destra c’era il nonno e nel campo da gioco la sua Inter, quella di Mazzola e Boninsegna. Certo, se avesse potuto urlare il suo tifo, tutto sarebbe stato perfetto, ma il nonno gli aveva detto: – Andrea, a Palermo si tifa Palermo. Sei siciliano.

E poi fu più grande, seduto sul divano a dondolo sistemato nel piazzale di campagna, mentre i mattoni in cemento davanti casa erano infuocati dal sole del primo pomeriggio ed irradiavano un calore soffocante. Ma a quindici anni, per Andrea e qualche amico, l’abbronzatura era la cosa più importante. Il nonno era appena rientrato e aveva varcato celermente la soglia di casa, cercando frescura. Immediatamente lo aveva accolto la voce irritata della nonna, che anche quella volta aveva trovato qualcosa per lamentarsi. Litigavano ormai da quarant’anni, ma in modo simpatico, e quelle liti avevano sempre fatto ridere. Il nonno, ancora con il vestito acquamarina indossato, aveva riempito una valigia ventiquattr’ore ed era tornato verso la macchina, secondo un copione immutato da qualche tempo.

– È finita. Io sotto lo stesso tetto con quella donna mai più! – disse.

Andrea non si era scomposto e il nonno, in effetti, quella volta non arrivò ad entrare in auto: forse lo scoraggiò il caldo o forse, e questo era più probabile, architettava quelle scene perché si divertiva, e i nipoti pure.

Di scatto, Andrea ricordò come negli ultimi anni il nonno non ridesse più. Recentemente, una volta che lo aveva visto piangere, mentre guardava l’azzurro striato bianco del mare d’inverno, aveva pensato: – Avanza negli anni e rincoglionisce.

Adesso, Andrea capiva che piangeva per amore e perché si rendeva conto d’essere vecchio e inutile e di non potere aiutare nessuno. Lui, che per tutta la vita, ogni volta che aveva potuto, aveva preso, ma aveva generosamente e soprattutto dato.

Fu così che Andrea, attraverso i ricordi, ritrovò la visione di quello che il nonno era stato: non l’attempato signore dai modi facili e dal pensiero leggero che lo aveva infastidito negli ultimi tempi, ma un amico e un esempio. Un uomo che nella maggior parte degli anni aveva avuto, nella sua mente e nel suo cuore, il primo posto, quello che si concede all’eroe amato e mitizzato. Le lacrime che prima avevano solo timidamente inumidito gli occhi, adesso scorrevano copiose sulle guance, mentre i singhiozzi esplodevano incontenibili.

– Nonnino mio … –, continuava a ripetere, con la voce rotta dal pianto.

Il rumore di una macchina che percorreva il viale lo scosse. Andrea andò in bagno immediatamente, lavò il viso e ricacciò tutto dentro. Era così che aveva sempre fatto e, forse, era proprio per questo che sentiva l’anima sempre pesante e angosciata. Automaticamente il viso si ricompose e, visto che secondo l’usanza i visitatori entravano senza bussare, tornò nel salone, sbirciando verso l’uscio, e aspettò di vedere chi entrasse.

Nel corridoio che dal vestibolo portava al salotto, avanzavano tre figure. Al centro c’era un anziano con le gambe innaturalmente arcuate e che per camminare si aiutava con un sostegno. Ai lati, leggermente dietro come fossero di scorta, procedevano due giovani.

Entrando nel salone, il vecchio tolse la coppola e guardò la salma.

– Dovevo venire anche con la lingua per terra –, disse l’uomo. Poi, senza nemmeno accennare ad Andrea, sedette su una delle tante sedie che attorniavano la bara e continuò. – Onorevole. Sei stato un signore e un padre di famiglia. Te lo ricanoscio –. Poi zittì e, con il mento appoggiato alle mani incrociate sul manico del bastone, rimase immobile e simile ad una sfinge.

Andrea fremeva, perché aveva riconosciuto il personaggio dagli atteggiamenti e dal tono dei discorsi. Impacciato e a disagio, si struggeva al pensiero che proprio in sua presenza fosse avvenuta quella visita. Ma doveva capitare proprio a lui, che quella gente la aborriva e, allo stesso tempo, la temeva?

Grazie a Dio, tutto terminò dopo cinque minuti, quando il vecchio, mettendosi ai piedi della bara, allungò la mano nella quale teneva la coppola.

– Ti saluto, onorevole –, disse. Poi si voltò e faticosamente uscì dalla stanza.

Andrea pensava che il nonno quelli là li conosceva e una volta, in preda al nervosismo e all’indignazione, glielo aveva pure rinfacciato.

– Ma cosa credi, che vivere in questa terra bruciata dal sole e dal fuoco dei mafiosi sia facile? Andrea, la vita è dare e avere ovunque, e qui lo è a maggior ragione. In Sicilia senza mediazione non si vive. Lo sanno tutti e tacciono perché accondiscendono. Non mi offendere più. Non sono uno di loro, ma ho il dovere di proteggere i miei cari –, gli aveva detto, con aria solenne.

Andrea non aveva saputo ribattere e anzi aveva pensato alla bomba che era esplosa nei magazzini del pastificio di suo padre, quando lui era ancora un bambino. Matteo Rao quest’argomento non l’aveva mai toccato, ma tutti affermavano che non aveva voluto pagare.

Pensando alla visita cui aveva assistito e con la mente invasa da questi pensieri, rivolse lo sguardo al viso del nonno e sentì il cuore meno duro.

– Hai vissuto da protagonista quasi un secolo di storia nella quale hai avuto sempre un ruolo e, cosa più importante, ne sei uscito con onore. Avevi capito di non potere più primeggiare e hai pensato di morire.

Le visite erano terminate. Andrea andò in cucina e cercò qualcosa da mangiare, ma tranne un barattolo di caffè non trovò niente. Del resto, la casa era rimasta chiusa per anni e lui stesso non ci andava più. Malinconico, tornò in salotto. Stava per entrare, quando avvertì che, durante la sua assenza, era entrato qualcuno.

– E adesso che te ne sei andato, chi mi resta per parlare? Per confidarmi? Eravamo i sopravvissuti ad un’epoca e ci comprendevamo. Iddio ti benedica, Totò –. Un vecchio stava chino sulla bara e carezzava la testa del nonno.

Il signore rimase sorpreso alla vista di Andrea che entrava nel salone. Anzi, l’atteggiamento era come quello di un bimbo colto nel compiere una monelleria. L’anziano divenne rosso in viso e il rossore contrastò con il candore della capigliatura ancora folta. Gli erano scivolati gli occhiali sulla punta del naso. Li tirò su con l’indice della mano, spingendo dal centro la montatura di metallo.

– Ah, sei tu Andrea –, disse.

– Lei era affezionato al nonno, vero?– Andrea lo aveva riconosciuto.

– Affezionato? No, credo che sia poco. Ecco, mai nessuno mi ha sentito chiamarlo per nome e dargli del tu. Ti prego di scusarmi.

– Sono certo che lui avrebbe gradito –. E giacché l’uomo era in piedi e imbarazzato, gli fece cenno di sedere.

Restarono in silenzio per qualche minuto.

– È ora di pranzo e dovrai mangiare. Io vado via. Ci vediamo in chiesa per il funerale –, disse il vecchio signore, mentre lasciava la poltroncina di bambù dove era seduto.

Negli occhi gli leggeva una gran tristezza, e pensò che quello riteneva di dare fastidio con la sua presenza. Forse, fino a qualche minuto innanzi, era stato vero. – Resti ancora, ragioniere Ventura. Mi faccia compagnia. Facciamo compagnia al nonno.

Il piglio di Nino Ventura divenne sereno. L’uomo ritornò comodo sulla poltrona. Teneva un bastone poggiato al fianco. Era un legno stagionato e aveva una splendida impugnatura in madreperla.

Andrea offrì una tazza di caffè e la prese anche lui. Iniziarono a parlare del nonno, della storia di famiglia e d’epoche e vicende sconosciute. L’altro raccontava, a volte faceva una sosta e sorrideva compiaciuto o un velo di commozione gli appannava lo sguardo.

Fuori la casa, il maestrale faceva sentire forte la sua voce, quasi volesse evitare che quelle storie giungessero ad anima viva.

1 recensione per La voce del maestrale

  1. Marina Atzori

    La Voce del vento della Speranza. recensione di Marina Atzori

    Quattro generazioni di imprenditori siciliani sfidano la tortuosa storia della loro terra. Una storia raccontata bene, in maniera sobria e senza eccessi quella di Nunzio Russo, che non lascia nulla al caso. Un’Isola meravigliosa la Sicilia, ambita da sempre, fin dall’antichità, per la sua posizione strategica e il suo straordinario territorio che è sempre stato oggetto di contenzioso da parte di numerose popolazioni. A partire dai Greci e dai Fenici audaci naviganti e abili commercianti che si insediarono attraverso nuove colonie e come ben sappiamo fondarono la città di Panormo, (Palermo). Ho voluto introdurre con questa breve parentesi storica perché l’intenzione dell’autore è proprio quella di far comprendere al lettore che anche la Sicilia raccontata da lui, quella del novecento ha subito momenti storico-politici importanti. I personaggi che vivono le vicende si espongono in quest’epoca e hanno ruoli ben definiti, vissuti molto forti, dai tratti caratteriali tipici del sud, dove orgoglio, famiglia e cultura dell’Impresa familiare ruotano come ingranaggi perfetti ben posizionati nel tempo. Rimango infatti colpita positivamente dagli aspetti realistici che caratterizzano il narrare e dall’umanità delle figure femminili presenti nella storia, alle quali, vedrete non vi risulterà difficile affezionarsi. Purtroppo la mafia ha da sempre ostruito lo scorrere limpido dei fatti rendendo serpeggianti le sue intrusioni. Infatti, i segreti, la slealtà e i codici d’onore della malavita in questo romanzo, auspicano ad impadronirsi di risultati ottenuti col sudore della fronte. Tuttavia, la volontà di chi non si piega a tali subdole forme di ricatti morali ed economici vuole prevalere tra le pagine de “La Voce del Maestrale”. Come ben sappiamo gli obiettivi ultimi dei malavitosi sono il denaro e il potere. Spesso questi loschi figuri attaccano un’azienda quando è solida e sana, il fatto di aver sacrificato una vita per raggiungere determinati risultati a loro poco importa. Spesso, malauguratamente spartire gli utili con questa fetta di “mondo” con il quale non si vorrebbe avere nulla a che fare scaturisce la tappa di un pericoloso percorso obbligatorio. Potrebbe starci bene “BELLUM OMNIUM CONTRA OMNES”, i latini riassumono egregiamente quella che risulta essere una battaglia di tutti contro tutti, la stessa che combattono ogni giorno gli imprenditori costretti a scendere a patti col “diavolo” in questione, ovviamente poco puliti. Insomma, all’apparenza qualcuno protegge per essere a sua volta protetto. In realtà si incorre in grosse rinunce e in una serie di molteplici guai dai quali risulta proibitivo uscire. Totò Musumeci qui ha tuttavia un’altra missione, la figuradi quest’uomo è riuscita bene all’autore, infatti è ricca di senso di rivalsa e di intenti puliti. Questo personaggio, nipote del Barone di Mezzocannolo ucciso dalla mafia, nel romanzo dovrà difendere la tradizione con tutte le sue forze e divulgarla con quel coraggio che gli sussurra quotidianamente il Maestrale. Un vento che vuol portarsi via le croste della violenza del Principe di Granata padrone di tutto. Un tutto che è il Pastificio, e vale oro, vale i sacrifici di una vita intera, passata a voler lasciare qualcosa di grande e inviolato a chi viene dopo. Vorrei sottolineare la ricchezza di contenuto della lettera dell’amata Maddalena, quella risposta tanto attesa che Vincenzo Musumeci legge la notte in cui non riesce a chiudere occhio. Una lettera carica di sentimento, di gratitudine, eccone un breve passaggio: “le memorie dei giorni felici diventarono le prigioni della mia anima”, parole intense che poco dopo, lasciano spazio a luci spente, colori dell’alba, a uno scirocco mai cessato, odori semplici come quello della zagara e dei fiori d’arancia, i profumi della Sua Sicilia. L’attaccamento alle origini insegue tutto il racconto stringendo nel cuore il significato più profondo del silenzio che si impone di fronte alla vista dell’azzurro incantato del mare siculo. A questo aspetto romantico velato dalle sfumature malinconiche si contrappone un soffio di Maestrale gelido ma promettente che attraversa questo bellissimo romanzo, scritto davvero in maniera semplice, piacevole e interessante, per quel lettore che ama la tradizione e che desidera partecipare ad una parte fondamentale della storia d’Italia sospinta da quel sottile alito di speranza che dovrebbe accomunare tutti coloro che l’hanno persa per colpa di un sistema corrotto. Da leggere.

Aggiungi una recensione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *