L’aria non può parlare

20,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Gaetano Manna

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-290-4 Categoria: Tag:

Descrizione

Roberto, dopo la morte di sua madre Angela, si scontra con un’inquietante verità emersa dai contenuti di una lettera lasciatagli dalla stessa madre: l’esistenza di un fantomatico zio di nome Antonio, fratello maggiore di Angela, rinchiuso da lungo tempo dentro un manicomio criminale.
Attraverso il racconto di Antonio scorre in filigrana la storia della Sicilia del primo Novecento, con le conseguenze del devastante terremoto di Messina del 1908, la vita difficile e misera del popolo e l’opulenza delle classi più abbienti, l’educazione dei ragazzi nei collegi destinati ai ricchi, lo squadrismo e la presa di potere del fascismo, la vita senza dignità all’interno dell’Ucciardone prima, e poi di un manicomio criminale.
La ferma decisione di conoscere il passato dell’anziano zio scatenerà una sequenza impressionante di straordinarie vicissitudini che si ripercuoteranno nelle vite di Roberto, della sua famiglia e dello stesso Antonio, con esiti imprevedibili e inimmaginabili.

INCIPIT

Torino, 5 luglio 1982.

Antonio guarda dalla finestra di un palazzo al quarto piano di corso S. Maurizio. Il corso, uno dei più belli di Torino, offre uno spaccato affascinante di questa città: da una parte la collina, con il suo verde e le ville dei ricchi, dall’altro la Mole, con la guglia protesa quasi a toccare il cielo.

Il cielo è plumbeo e fa caldo, più che caldo è afoso, quell’afa che fa diventare difficile respirare, muoversi, pensare.

Il silenzio in città è strano, non si sente nulla fuorché le televisioni che all’unisono raccontano le immagini del campionato mondiale di calcio. Oggi è il turno dell’Italia che gioca col Brasile.

In strada non c’è nessuno e Antonio guarda fuori, stranito, come a domandarsi dove siano finite tutte le persone.

La televisione, alle sue spalle, racconta immagini di giocatori che combattono accanitamente dietro una palla al punto tale da aver ipnotizzato le teste di tutti noi: Antonio, per un attimo, distoglie lo sguardo dalla finestra e guarda me, mia moglie Claudia e mia figlia Anna. Accenna una smorfia di sorriso quando ci vede muovere in sincronia, o sente le nostre voci, esultare, arrabbiarci e gesticolare a seconda delle azioni dei calciatori.

Io sono Roberto, suo nipote, figlio di Angela, la sorella minore di Antonio. Lei era per lo zio come una figlia, dato che era nata quando lui aveva quasi undici anni. Lei da piccolina aveva un debole per suo fratello. Antonio il bello, Antonio il simpatico, Antonio di qua, Antonio di là. Almeno questo è quello che ci ha raccontato dopo lo zio.

Angela è morta a poco più di settant’anni. Un cancro al polmone, senza avere mai fumato una sigaretta. Antonio non c’era quando è deceduta. D’altronde, come avrebbe potuto saperlo, nel posto dov’era rinchiuso?

Antonio non è interessato alla partita, guarda fuori dalla finestra e basta. Ha uno sguardo che a volte pare quello di un pesce in una pescheria, in attesa di essere venduto. Sembra vuoto, privo di vita.

Da poco è a casa nostra e io l’ho portato da Messina a Torino perché solo da alcuni mesi ho saputo della sua esistenza.

Benedetta madre, si vergognava di dirmi che aveva avuto un fratello più grande. L’aveva tenuto nascosto per sé. Chissà quante notti insonni, passate a pensare perché non avesse avuto il coraggio di cercare suo fratello, di sapere che fine avesse fatto. Chissà quanto era grande il rimorso verso noi figli e verso nostro padre per avere custodito questo suo segreto, questo capitolo della sua vita tenuto lontano da tutto e tutti.

Mia madre, dopo la sua morte, mi lasciò una lettera. In questa lettera c’erano scritti i suoi voleri e, dulcis in fundo, la notizia di avere un fratello che si chiama Antonio Nastasi. In quelle poche righe immaginai lo sconcerto di mia madre nello scrivere quelle poche frasi, tenute per tutta la vita nell’intimo del suo cuore. Chissà l’emozione e la paura, il rimpianto di non essere stata in grado di parlarne con nessuno in vita, mai.

Adesso, in quelle tre righe, mi affida il compito di avere notizie di questo fantomatico zio Antonio, rinchiuso in manicomio da quando era giovane perché ritenuto colpevole di gravi aggressioni a persone, troppo esagitato e rivoluzionario.

Mi chiede scusa mia madre nella lettera, a modo suo, non esplicitamente, ma come sapeva fare lei quando riconosceva di avere torto. Quando commetteva degli errori, non ammetteva mai di aver sbagliato ma si prodigava a fare cose buonissime da mangiare. Questo era il suo modo di chiedere scusa.

Infatti il giorno della lettera mi scrisse anche che aveva preparato dei biscotti allo zenzero e alla cannella. Duravano a lungo, i suoi biscotti, perché li conservava in una scatoletta di latta avvolti nel cellophane, così da mantenerli morbidi per diverse settimane. Sapeva che andavo matto per quei dolci. Capii allora che era il suo modo per scusarsi.

Da quel momento non seppi più che fare, chi contattare e come cercare questo zio. Poteva essere morto da tempo e poi cosa diavolo avrei potuto fare io, adesso? Già scosso dalla morte di mia madre e dal suo calvario durato oltre un anno, tra chemioterapie e altri farmaci, l’idea di un altro parente che in quello stesso momento stava chissà dove, magari con sofferenze simili, se non più grosse, non mi lasciava in pace, mi tormentava di un tormento lento e continuo. Passai giorni e giorni a fare tante cose freneticamente ma con la mente sempre lì, a pensare a questo zio.

Giorni dopo ne parlai con mia moglie Claudia. Non sapevo cosa potesse pensare di questa strana storia, ma avevo immaginato, sbagliandomi, una sua reazione di stizza nei confronti di questa persona. Invece rimase più incupita di me. Non mi disse nulla fino al giorno dopo.

Allora, presomi per un braccio, mi disse: “Vuoi mica aspettare ancora un poco prima di vedere se questo pover’uomo è ancora vivo!”

“No, certo che no” risposi. “Devo capire, devo informarmi… a chi telefono?”

Lei, con voce ferma, disse “Prova a telefonare agli ospedali della zona di Messina, visto che tua madre è nata e cresciuta lì.”

“Sì, ma che faccio, questa faccenda è tutta nuova, capisci? Adesso vengo a scoprire che i miei nonni non erano… veramente i miei nonni. Anche col papà non si è sbilanciata più di tanto. Chissà se a lui ha raccontato tutta la verità. Bah!”

“Lo so, lo so” disse Claudia sconsolata. Quante volte avevamo cercato di parlarle, di farci raccontare di come avesse vissuto da bambina, ma niente… Era come se qualcosa la bloccasse dal di dentro, cambiava discorso e si metteva a parlare di quando conobbe papà.”

Adesso capisco perché c’era in lei tanta chiusura, poveretta, chissà come ha resistito tutti questi anni” disse Claudia tenendomi affettuosamente il braccio sulla spalla.

“Beh, inizia da lì” mi disse d’un tratto impetuosa.

“Da lì… cosa?” le risposi.

“Dall’ospedale di Messina e da lì… vedrai che qualcosa salterà fuori.”

Ma procediamo con ordine raccontando tutto, dall’inizio dell’esperienza iniziata alcuni mesi prima, o meglio, della specie di incubo che mi avrebbe accompagnato in Sicilia. Infatti la ricerca andò bene perché, nel giro di qualche giorno, seppi che un tizio di nome Antonio Nastasi, poco più che ottantenne, era ricoverato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, a pochi chilometri da Messina.

“Manicomio?!” disse Claudia spalancando gli occhi con stupore e rabbia, come se avesse dovuto andare lei in quel posto per qualche anno.

“Sì, ma non sappiamo se sia proprio lui. Che cosa vuoi che faccia, prendo l’aereo e mi presento lì dicendo che sono suo nipote e lo porto via?”

“Cristo santo Roberto, non ti capisco, sembri una persona diversa da quella che ho sposato. Non ti sto dicendo questo, ma sappiamo da pochi giorni che esiste una persona, fratello di tua madre, di cui non sapevamo nulla e cosa facciamo, ci giriamo dall’altra parte e andiamo a dormire?” mi rispose stupita e stizzita.

“No, no, certo che è una cosa straordinaria, ma prendiamoci un momento per riflettere come agire. D’altronde non è dietro l’angolo Messina” le dissi mentre mi guardava in modo diverso dal solito.

“Cioè, non voglio dire che non…” Potete immaginare come andò a finire.

Ma ritorniamo all’esperienza in terra di Sicilia. Dopo innumerevoli lettere e carte bollate riuscii ad avere un permesso per recarmi in quel fantomatico posto. La prima volta che entrai in quel luogo, oscuro e ignoto per me fino a quel momento, mi tremavano le gambe. Avevo una paura fottuta. Ma di che cosa, ripetevo tra me e me. Magari questo tizio non mi vorrà neanche vedere o parlare.

Avvicinandomi a quel posto avvertii paura e voglia di scappare. Il cattivo odore di cui erano intrise quelle mura e l’ambiente così trascurato mi fecero percepire, come un fremito dietro la schiena, il dolore degli esseri costretti là dentro. Appena dentro l’androne un uomo, penso un infermiere, mi disse di aspettare e, se volevo, di sedermi su una sedia posta in un angolo buio di una stanzetta adiacente, così fatiscente che neanche un abitante delle favelas brasiliane avrebbe voluto avere come dimora.

Mi guardai attorno ma non vedevo nessuna sedia, o almeno qualcosa che facesse pensare ad un oggetto dove posare il sedere. Poi notai un oggetto che sembrava lontanamente a una sedia in fondo alla saletta. Chiamare sedia un pezzo di legno marcio pieno di polvere mi sembrava eccessivo, ma tant’è, mi decisi, con molta cautela, a poggiarci sopra i glutei.

E proprio in quel momento sentii quel terribile fetore, un misto di candeggina, feci e urina.

“Dio santo ma che è ’sta roba!” esclamai ad alta voce con la faccia incartapecorita.

Un altro operatore che passava in quel momento mi guardò come si guardano i bambini che fanno capricci. “Che c’è, ha bisogno di qualcosa? Chi sta aspettando?” mi chiese con l’aria di quelli che non vogliono avere rompipalle tra i piedi.

“Sono un parente di Antonio, Antonio Nastasi” rispondo esitando un poco.

“Minchia, meglio tardi che…” gli scappò di dire a questo infermiere, che si allontanò gesticolando con le mani come fosse un giocoliere stanco a fine esibizione.

Mi sentivo imbarazzato all’inverosimile. Come se avessi deliberatamente abbandonato io in questa fogna questo mio parente. Che cazzo ne sa ’sto tipo, pensai ad alta voce, offeso e arrabbiato. Mi guarda come si guardano i signorini per bene che vogliono mettersi il cuore in pace e fare la buona azione venendo a trovare lo zio fuori di testa almeno una volta nella vita. Sia mai che il paradiso esista davvero e qualcuno lì di sopra dovesse chiederne conto.

“Guardi che io… io ho saputo dell’esistenza di questa persona solo poco tempo fa, dal testamento di mia madre che è mancata. Mia madre, la sorella di Antonio, solo che lei non mi ha mai detto niente prima e io…” Il tizio mi guardava ma aveva già la sua idea e me la trasmetteva col suo faccione stupido e stupito, come se stessi raccontandogli delle frottole.

“Davvero lei non sapeva niente di ’sto povero disgraziato?” mi domandò falsamente stupito sogghignando sotto i baffi. Sapevo che non credeva ad una sola parola di quello che gli stavo dicendo.

“Comunque lei creda a quello che vuole… c’è il direttore, per piacere? Il suo collega mi ha detto che l’avrebbe chiamato prima di poter vedere il signor Antonio.” Lui mi guarda per qualche istante con l’interesse che si ha nel guardare i moscerini della frutta, si gira e di spalle mi dice di aspettare buono buono ancora qualche minuto, il direttore stava scrivendo dei documenti.

Aspettai quasi un’ora, con la voglia terribile di alzarmi, uscire e scappare via verso Torino, verso la mia famiglia, magari raccontando la balla che lo zio Antonio era già morto.

Non sopportavo più quel postaccio, quell’odore, quelle persone che avevo incontrato, così povere, così morte dentro. In fondo avevo pena per quei lavoratori. Come si fa a stare in posti del genere? Certo che devi per forza diventare così, pensai.

Ad un certo punto, d’improvviso, venne verso di me un uomo con una giacca sfatta e una camicia color lilla, o forse era una camicia rossa che a furia di essere lavata ad alta temperatura aveva perso il colore originale. Mi alzo dal tronco marcio con cautela e mi avvicino a lui pensando fosse il direttore di questo inferno.

“Buongiorno, sono il direttore. È lei il parente di Antonio Nastasi?” mi chiese aggiustandosi la camicia dentro i pantaloni.

“Sì, sì, sono io” dissi, tornando nuovamente a essere esitante e insicuro come prima.

“Prego, mi segua, andiamo nel mio ufficio.”

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