Il detenuto della cella 23

22,00

Formato: Libro cartaceo pag. 322

Autore: Ossi Gamide

Note sull’autore

 

COD: ISBN: 978-88-5539-237-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Grazia De Caro, brillante redattrice delle Edizioni Airoldi, è perseguitata da enigmatiche e inquietanti missive. Quando viene commesso un delitto, un’ombra di sospetto e di incredulità cala su tutto il personale della stessa casa editrice. Le indagini sono svolte dal commissario Virginio Pace, misogino e scorbutico, e dalla giovane ispettrice Caterina Valle, alle prese col suo primo caso di omicidio e con una relazione sentimentale complicata. Passato e presente si intrecciano e la scoperta della verità porterà ancora sangue.

Prologo

 

 

Come lucciole morenti le luci delle celle si spensero una a una, abbandonando il lungo corridoio nelle mani del blando chiarore delle lampade di emergenza. Era ora che ognuno si mettesse tranquillamente e in buon ordine a dormire, senza protestare e senza inveire con l’uso di un turpiloquio inveterato. La guardia carceraria, mani dietro la schiena, camminava con passo felpato, girandosi ora a destra, ora a sinistra, per abbracciare visivamente ogni cella che incontrava, attenta a controllare minuziosamente che tutto fosse in ordine. Ispezionava i lucchetti, batteva il manganello sulle sbarre, redarguiva i reclusi indugianti nella veglia, e i più turbolenti di loro gli gridavano dietro ogni sorta di epiteti. Ma lui faceva finta di non sentire e lasciava correre senza reagire. Si augurava solo che il detenuto della 23, che aveva già dato segni di squilibrio, non gli procurasse ulteriori grattacapi. E invece, in fondo, un fascio di luce proveniente proprio dalla cella 23, illuminava il corridoio. “Ci risiamo” pensò. “Purché non incominci con la solita tiritera dell’insonnia e degli incubi che lo perseguitano.” Affrettò il passo.

Il detenuto era sul suo letto, sotto la coperta sino al mento.

«Ehi, tu!» lo chiamò. «Vedo che te ne sbatti del regolamento. Non lo sai che è l’ora di spegnere la luce?»

Non ottenne risposta.

«Dico a te. Cerca di non procurarmi guai… ma cosa…» sbirciando tra le sbarre, la sua attenzione venne attirata da una pozza liquida sul pavimento accanto al letto. Intuì che qualcosa non andava per il verso giusto, infilò precipitosamente la chiave nella toppa, entrò e si diresse difilato verso il detenuto.

«Oh, cazzo…» imprecò disorientato appena prese coscienza della natura del liquido, e vedendo che scorreva dal letto. Sollevò con un gesto secco e nervoso la coperta. Divenne spettatore di una scena alla quale volentieri avrebbe fatto a meno di assistere: il ragazzo era disteso supino sul letto, il volto rilassato e sereno, le braccia incrociate sul petto, e dai polsi continuavano a fuoriuscire fiotti di sangue che avevano già inondato il corpo e le lenzuola; sull’inguine, un frammento di vetro dai bordi frastagliati.

 

Esile, curvo nella schiena, il petto scosso a intervalli regolari da colpi di tosse, l’uomo, marcato dai segni di una malattia progressiva, gli occhi chiari oscurati da un velo triste e malinconico, pur essendo in età avanzata, dimostrava molti più anni di quelli che in realtà aveva.

Si reggeva appena in piedi, il corpo pendente a sinistra esercitava il peso maggiormente sul bastone al quale si poggiava. L’andatura era lenta e ondeggiante, il volto scavato dai segni della sofferenza non palesava alcuna emozione. La sorella si era offerta di accompagnarlo, ma aveva rifiutato categoricamente, asserendo con convinzione che quel compito ingrato doveva assolverlo solo lui, come aveva fatto col riconoscimento della salma. Da quando era arrivato, se ne stava seduto sulla panca della sala d’attesa da oltre mezz’ora, immobile, lo sguardo fisso sulla porta chiusa.

Il giovane agente di guardia lo osservava con sguardi commiserevoli ma affettuosi, e si sentiva in dovere di offrire servizi in grado di lenirne il peso della permanenza.

«Ha bisogno di qualcosa? Le porto un bicchiere d’acqua?»

«No, grazie» rispose l’uomo con tono garbato. «Ne ha ancora per molto?»

«Chi può dirlo? Purtroppo, sappiamo quando una persona entra, ma nessuno può prevedere quanto tempo impiegherà.»

«Va bene, aspetto.» Colpi di tosse prolungati conclusero la conversazione. L’uomo prese dalla tasca un fazzoletto stropicciato e se lo portò alla bocca, nell’inutile tentativo di attutirli.

Passarono ancora alcuni minuti e la porta si aprì. Ne uscì prima una donna di forme opulente e subito dopo il direttore del carcere. Era un uomo di corporatura media, di mezza età, vestiva un abito di discreta fattura e guardava attraverso i vetri di un paio di occhiali che sembravano troppo piccoli per la sua faccia.

«Prego, si accomodi.» Accompagnò l’invito con un gesto della mano.

L’anziano uomo si alzò con cautela, i movimenti erano lenti, dosati. Seguì come un automa il direttore che lo precedeva facendogli strada. Imboccarono un lungo corridoio e alla fine di esso, il direttore aprì una porta, si fermò al lato della soglia e gli indicò la via.

Entrò e lo accolse un locale asettico le cui pareti erano nascoste da enormi scaffalature che dal pavimento si ergevano sino al tetto e, nel mezzo della stanza, una scrivania modesta e altre piccole scaffalature che fungevano da muri divisori. Le scaffalature contenevano migliaia di scatole di differenti dimensioni. A ognuna di loro era attaccata un’etichetta.

Dopo avergli offerto l’unica sedia a disposizione, il direttore scrisse qualcosa sulla tastiera del computer, guardò il monitor e disse sottotono:

«A1258 s24I. Mi scusi un attimo, torno subito».

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