Di boxe e di vita

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Formato: Libro cartaceo p. 196

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COD: ISBN: 978-88-5539-159-7 Categoria: Tag:

Descrizione

Il pugilato è uno sport di riscatto. È stato così per gli italiani all’inizio del secolo scorso, come per gli irlandesi e i neri americani, che negli States combattevano per emanciparsi da una condizione di povertà, emarginazione e miseria. Luca Michael Pasqua ha combattuto come dilettante, vincendo molti titoli, e poi da professionista, guadagnandosi l’appellativo di “Luca Bazooka”. Anche lui ha coltivato il sogno americano, allenandosi nella mitica palestra “Gleason’s Gym”, e questa è la sua storia.

INCIPIT

Seduti su un muretto si possono raccontare cose, persone, vite. A Barriera di Milano, a Torino, le sere d’estate a volte sono piuttosto movimentate. Altre, come quella in cui Giovanni e Ale mi stavano seduti di fronte, non si muove una foglia. Ale mi chiese di raccontare com’era andata oltre oceano alcuni anni prima. Se avessi da raccontarvi solo i fatti della mia vita non starei neanche a cominciare, ma io vi racconterò di una epopea, di come si fa la boxe in America, dei miti che hanno popolato l’arte sublime di tirare pugni, di quelli che ho incontrato, con cui ho combattuto. Di quelli che mi hanno mostrato la strada e che mi hanno insegnato a vivere.

Voglio dirvi che la boxe è uno sport di riscatto. Almeno negli States. Non importa se sei povero, se sei nero, né da dove vieni. Se sai combattere puoi arrivare in cima. Certo, non è tutto così lineare, devi trovare appoggi e avere conoscenze, spesso qualche incidente di percorso può buttarti fuori strada, ma l’artefice del successo rimani tu, con la tua forza e la tua determinazione.

A guardare bene, la boxe è molto cambiata nel corso degli anni, i pugili degli anni ’50 erano incredibilmente forti perché avevano la fame a sostenerli, gli italiani, gli irlandesi e i neri, tutti accomunati dalla stessa motivazione, il desiderio di riscattarsi. Ora i più forti sono i sudamericani e quelli dei paesi dell’Est, proprio perché loro hanno la stessa fame dei pugili degli anni ’50.

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A gennaio del 2008 io e Susanna, la mia fidanzata di quel periodo, decidemmo di andare negli Stati Uniti. Per due come noi che stavano entrambi nella boxe, quello che riguardava il pugilato negli States era una sorta di mito. Come fummo a New York ci precipitammo a visitare la Gleason’s Gym, la più famosa palestra al mondo dedicata alla boxe. A volte i miti si esauriscono, tramontano, ma la Gleason’s continua da ottanta anni a sfornare campioni del mondo e medaglie olimpiche. Solo la sede è cambiata un paio di volte. Ora sta a Brooklyn, proprio sul water front, sotto al famoso ponte, ma nel 1937 Peter Robert Gagliardi, che di professione faceva il tassista, la fondò nel Bronx. Lui era di origine italiana e uno si aspetterebbe che aprendo una palestra di boxe in America si degnasse di darle un nome italiano, e in effetti fu quello che fece, ma il periodo non era dei migliori per i nostri connazionali oltreoceano, che venivano visti come fumo negli occhi per la posizione del nostro regime, fortemente schierato con i tedeschi, già in aiuto del franchismo nella guerra civile spagnola. E poi al Bronx c’era una fortissima comunità irlandese, che in quanto a boxeur non era inferiore a quella italiana. Non bisognava scontentarla. Così il buon Peter Gagliardi prese il toro per le corna e fece cambiare il proprio nome in Bobby Gleason, ispirandosi a un pugile della sua scuderia che si chiamava in quel modo. Nacque la Gleason’s Gym. A guardarla in quel periodo nessuno si sarebbe mai aspettato che potesse diventare un tempio della boxe. Un solo ring al centro della sala, quattro sacchi pesanti e sei veloci, qualche specchio per gli esercizi e una fila di sedie per gli spettatori. Eppure, per qualche sortilegio tutto americano, subito diventò popolarissima. Già nei primi anni ’40 vi si allenavano a-tleti che poi sarebbero diventati campioni del mondo, come Phil Terranova e Jake La Motta, il famoso Toro del Bronx e poi “Toro scatenato” del film di Scorsese con De Niro. Fu proprio nella sua sede successiva, a Manhattan, dove Gleason decise di spostarsi nel ’74, che venne girato il famoso film. E prima e dopo, Roberto Duran, Muhammad Ali e Mike Tyson calcarono quel ring, diventarono i più grandi pugili del mondo, in compagnia di alcuni Italiani come Vito Antuofermo, Arturo Gatti e Paulie Malignaggi, che manco loro scherzarono in quanto a bravura pugilistica.

Con tutti quei nomi e quelle immagini di combattimenti mitici a girarci per la testa, io e Susanna mettemmo piede nel tempio. Bruce Silverglade, l’attuale proprietario, è un uomo pieno di energia e passione, ereditata in gran parte dal padre. Il suo ufficio è impressionante, colmo di fotografie autografate e di immagini ingiallite di incontri leggendari. Peccato potergli gettare solo uno sguardo frettoloso, non invitati e quasi clandestini in quel luogo di memorabilia. Eppure, qualcosa c’entravamo anche noi. Fatti pochi passi in palestra, ci rendemmo conto che uno dei due pugili sul ring era un mio amico e collega, Floriano Pagliara. Soltanto qualche mese prima avevamo combattuto nella stessa riunione di pugilato nel campionato italiano super welter. Rimanemmo a parlare per un po’, immersi nell’inconfondibile odore acre di sudore e cuoio che sempre impregna le palestre di quel genere.

«Ma sì, ero stufo del pugilato in Italia, la vera boxe è qui, e New York è il suo tempio…» mi disse col fiato corto per il combattimento.

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