L’anello mancante

25,00

Formato: Libro cartaceo, pag.  356

Autore: Carlo Bertot

Note sull’autore

 

COD: ISBN: 978-88-5539-283-9 Categoria: Tag:

Descrizione

A Torino, nell’estate del 2003 che si fa sempre più calda, il giovane appuntato Enzo Rizzo vive la sua vita diviso tra la Polizia di Stato, la famiglia nel quartiere Vallette e i suoi guai con la fidanzata, figlia della collina torinese. La squadra del commissario Di Nunzio, di cui fa parte Enzo, si trova coinvolta in un’indagine delicata riguardo all’assassinio di una signora molto in vista nella società cittadina. L’indagine si complica quando si aggiungono altre vittime, uccise tutte con la stessa modalità particolare e inquietante, e i legami con la prima donna stentano ad emergere.

L’anello mancante è un poliziesco “classico”, a cui fa da contrappunto un vero e proprio romanzo di formazione, perché Enzo, appartenente a una famiglia di origine lucana, semplice e onesta, che gli ha trasmesso i suoi valori, dovrà confrontarsi anche con i propri sentimenti e fare i conti con l’ipocrisia che caratterizza talvolta la Torino “bene”.

INCIPIT

La prima cosa che ricordo di quella notte è la sensazione di panico. Stavo lentamente affondando. Galleggiavo sul mare su un minuscolo gommone, in un’atmosfera livida e irreale. Grosse nuvole temporalesche ruotavano sopra la mia testa, intorno a me si alzavano onde sempre più grandi, e il gommone sembrava destinato a rovesciarsi da un momento all’altro. Fissavo, in preda al panico crescente, l’acqua che si accumulava sul fondo. Cercavo disperatamente di non farlo rovesciare, e non riuscivo a concentrarmi per ricordare cosa ci facessi là. Quello che mi sconvolgeva, soprattutto, era il fatto che io, un gommone, non l’ho mai avuto.

Forse me l’aveva prestato Manuela, pensai confusamente: lei ce l’ha un gommone, mi ha raccontato tante volte di quando suo padre la portava in mare, al largo della Costa Azzurra. Partivano da Mentone, se non sbaglio. O forse era una barca a vela? Ma comunque in quel momento lei non era con me, e proprio mentre pensavo questo, chiedendomi angosciato dove fosse finita, sentivo le onde bagnarmi i piedi. Per qualche magia, anche se non stava piovendo, l’acqua saliva sempre di più sul fondo del gommone. Sentivo che in pochi minuti il mare mi avrebbe inghiottito. Ma in quel momento non era importante il destino che mi attendeva: la cosa peggiore era non sapere dove fosse lei.

«Manuela!»

Mi guardavo intorno spaventato, chiamandola con tutto il fiato che avevo, ma non sentivo il suono della mia voce; e questo era strano, perché il vento, anche se era molto forte, non faceva un rumore tale da soffocare le mie parole. Non udivo quasi nulla, come se fossi stato sott’acqua, e intanto continuavo a gridare senza voce, chiamandola.

«Manuela!»

Una voce di donna, lontana, mi rispose, ma non capii cosa diceva. Il mare s’era fatto calmo, anzi, era scomparso, e io correvo, fermandomi di tanto in tanto a lanciare il mio richiamo.

«Manuela!»

«Enzo!»

Questa volta avevo sentito distintamente la sua voce chiamarmi. Ma non c’era nessuno intorno a me: mi aggiravo smarrito per la piazza del quartiere Vallette, di cui conoscevo a memoria ogni pietra fin da quando ero bambino. La piazza era stranamente deserta. Invece del solito brulicare di uomini, donne, automobili, bambini in bicicletta, non c’era assolutamente nessuno, e l’unico suono, oltre la voce che mi chiamava, era il vento, che continuava a soffiare dalle nuvole color petrolio che incombevano sopra la città. Infine la vidi: alzai il viso e, da una finestra a un piano alto di un palazzo, scorsi il suo bel visino guardarmi ridendo.

«Enzo!»

«Manuela!»

Lei rideva, fissandomi, e mi sentii pieno di sollievo. Ma subito quella sensazione fu sostituita da un certo disagio: non mi piaceva il suo modo di ridere. Aveva un’espressione di scherno, come se stesse ridendo di me, in un modo che non le avevo mai visto usare. Mi sentii ferito, mentre il suo riso aumentava sempre più. Lentamente, mentre le sue risate rimbombavano sempre più forti nelle mie orecchie, una smorfia deformava i suoi lineamenti. Puntava il dito verso di me, piegandosi in due dal divertimento, sempre di più; fino a che scomparve dalla mia vista. Allora l’angoscia arrivò al massimo, e mi tornò in mente, vivida, come se io fossi ancora là, una scena orribile: la panchina, il suo viso serio serio che mi diceva: “Lasciamoci, Enzo, credimi, è meglio così…” Mi sentivo scosso, sballottato come se ci fosse qualcuno a prendermi a pugni.

«Enzo, svegliati! Svegliati!»

La mano di mia madre che mi scrollava diventò reale di colpo, insieme al suo viso scarsamente illuminato che mi sovrastava, con un’espressione vagamente preoccupata. Chiusi la bocca, e mi resi conto che fino ad allora avevo parlato nel sonno, forse avevo urlato, e che il sogno appena svanito mi aveva riportato l’angoscia che avevo quando mi ero addormentato.

«Stavo urlando?» chiesi, frastornato, sentendomi i capelli appiccicati di sudore.

Mia madre, santa donna, scosse il capo con espressione stupita. «Urlando? No. Ma ti stavi dimenando come se avessi il ballo di San Vito! Sognavi?»

Annuii, allontanando la sua mano con gentilezza, e richiusi gli occhi.

«Stavi sognando Manuela?» chiese lei dolcemente. «Hai fatto un incubo?»

Riaprii gli occhi e la fissai stancamente. La figura bassa e robusta di mia madre, dall’aspetto curato e pulito, mai truccata, mai elegante, mi era così familiare che avrei potuto riconoscerla anche al buio. Penso che mio padre l’abbia sposata perché ha carattere d’oro, non si arrabbia mai, ha sempre una parola buona per tutti e sa capire le cose al volo; non certo per la sua bellezza. Ma non smetterà mai di stupirmi: non le avevo ancora detto niente di Manuela, eppure col suo istinto preciso e sicuro aveva capito il motivo della mia angoscia degli ultimi giorni, e anche il motivo del mio incubo. Cosa potevo risponderle?

«Perché mi hai svegliato, allora?» Mi sentii improvvisamente irritato verso la sua preveggenza di madre. «Pensi che stia meglio adesso che nel sogno? Pensi che mi faccia meno male quando sono sveglio?»

Di nuovo l’espressione sinceramente stupita si dipinse sul suo viso largo di contadina lucana. «No» disse semplicemente. «È che ti vogliono al telefono. Dalla Questura.»

La frase pronunciata da mia madre ci mise qualche secondo prima di farsi strada nella mia mente. Quando finalmente compresi cosa mi aveva detto balzai a sedere e fissai la sveglia luminosa accanto al letto. «Ma sono le quattro e mezza di notte! Stanotte non sono di servizio.» Scesi bruscamente dal letto, scostando mia madre in modo poco gentile: ero piuttosto frastornato e inciampai mentre mi dirigevo in ingresso, dove il Sirio giaceva sul tavolino con la cornetta staccata. Mi avventai sulla cornetta e me la portai all’orecchio.

«Pronto! Chi parla?» esclamai.

«Agente Rizzo?» Non riconobbi la voce leggermente distorta.

«Sì, ma chi è? Sono le quattro e mezza…»

«Sono Donati, Rizzo, sono di piantone. C’è stata una chiamata per il commissario Di Nunzio, e lui ha chiesto di te. Lo so che non sei in servizio, ma vieni lo stesso, subito, prendi l’Alfa e vai a casa del commissario. Ti aspetta il più presto possibile.»

«Ma che è successo?»

«Dovete andare in collina. Hanno ammazzato qualcuno.»

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