Descrizione
“L’alba del sacrificio è il libro che avrei sempre voluto leggere.” Così mi ha detto Giancarlo Ibba. Ma il fatto è che questo libro, lui lo ha scritto. Ed è una bella soddisfazione.
La genesi è lunga e complessa, e risale agli anni dell’adolescenza, ma nel tempo l’opera si è arricchita e intessuta di suggestioni e buone letture, è stata oggetto di autocritiche e di critiche. Insomma, è una di quelle storie che non nascono per caso, ma che hanno come sostrato la passione dell’autore e come materiale da costruzione nuove idee e capacità di scrittura che si affinano soltanto con il lavoro sui testi, condotto in modo intelligente e, a volte, nel caso di Giancarlo bisogna riconoscerlo, quasi certosino, perché lui è capace di cambiare dieci volte un aggettivo, di spostare una frase, di limare un periodo e poi di tornarci su a modificarlo ancora.
Per chi fosse curioso di conoscere il percorso di questo libro e di questo scrittore, c’è la sua postfazione, arricchita da precisazioni sull’ambientazione sarda, sulla teoria degli universi paralleli, sulle antiche civiltà che hanno dominato la Sardegna e il Mediterraneo… altrimenti, sono parti del libro che potete tranquillamente ignorare, limitandovi a divertirvi e appassionarvi leggendo questa storia che è difficile classificare: un po’ thriller/mistery, un po’ horror…
Sardegna, Sulcis, 719 a. C. Con macabra puntualità, all’alba del Solstizio d’inverno, sotto lo sguardo impassibile e arcigno di un Volto di pietra sgretolato dal tempo, si svolge un sanguinario rituale millenario tramandato di generazione in generazione dagli Iniziati. Un sacrificio ciclico che non può essere interrotto…
Sulcis, Carbonia, 1991 d. C. Tommaso Cannas, un giovane avvocato sconvolto per la recente morte del padre, è tormentato ogni notte dallo stesso enigmatico incubo: un susseguirsi di urla strazianti, suoni angoscianti, immagini inquietanti ed emozioni opprimenti, terminante con la visione di un bambino misterioso che lo implora di essere liberato. In seguito ad un tragico evento, avvenuto a Villa Massidda, una solitaria dimora sperduta tra desolate campagne e brulle colline, Tommaso si accorge che il suo strano incubo è in qualche modo collegato a un inspiegabile episodio vissuto in passato dal padre…
Sulcis, Solus, 1952 d. C. Michele Cannas, infermiere generico alle prime armi, riceve dai suoi superiori un insolito incarico: assistere a domicilio, coprendo il famigerato turno di notte, la moglie schizofrenica del ricco e potente architetto Raffaele Massidda. Durante la prima drammatica veglia, in preda ad una violenta crisi nervosa, la donna gli confida un terribile segreto…
INCIPIT
Prologo
Sulcis, Sardegna, 719 a. C.
L’Alba del Sacrificio era vicina.
La lunga processione di torce uscì dall’intricata boscaglia di querce da sughero e si snodò nel sentiero sabbioso tra le colline, un percorso tracciato dal continuo viavai di pellegrini. Le scabre alture di trachite, sommerse dall’umida foschia notturna, erano disseminate di anfratti. Cespugli di mirto, lentisco, rosmarino e ginestra ricoprivano i pendii rocciosi. Il profumo aromatico della vegetazione mediterranea si mescolava con quello solforoso della palude. Proveniente dal golfo, un gelido maestrale staffilava le lingue di fuoco delle primitive fiaccole. Luce e ombra guizzavano.
Giunto in una radura isolata ai piedi di un oscuro dirupo, dal corteo di uomini e donne s’innalzò una monotona litania. Tutti puntarono lo sguardo su un grosso macigno alla base della collina. In tempi perduti vi era stato scolpito un Volto. I suoi lineamenti erano deformati da millenni di vento, sole, pioggia. Tuttavia, nella sua espressione arcigna persisteva una traccia di ieratica solennità.
Il canto aumentò d’intensità.
L’uomo alla testa della processione si allontanò dal resto del gruppo. Indossava una grezza tunica e un mantello di lana. Il suo aspetto, anche in quella tenebrosa atmosfera, non aveva niente di speciale. Tarchiato, gambe robuste, sporchi capelli grigi arricciati sulle ampie spalle. L’unica cosa che lo distingueva dal resto dei partecipanti alla cerimonia era che non stringesse tra le mani una torcia impregnata di grasso animale, ma una cesta di giunchi.
Nella radura, una depressione a forma di ferro di cavallo con la cavità rivolta a oriente, i seguaci salmodianti si disposero intorno all’uomo con il mantello. Le pulsanti lingue di fuoco sprigionate dalle torce rischiaravano le orbite vuote del Volto nella roccia. Sciami di scintille, disperse dal vento, si smarrivano nel limpido firmamento. In cima alla collina retrostante, stagliato contro il disco butterato della luna, lo scuro profilo a tronco di cono di un nuraghe. Era diverso da tutti gli altri dell’Isola. Questo era stato costruito con pesanti blocchi di roccia nera, levigati e sgrossati, sovrapposti uno sull’altro con maestria. A causa della colorazione uniforme delle sue pietre, era denominato “su Nuraxi Nieddu”: il Nuraghe Nero. Nella tradizione orale tramandata dagli abitanti dei villaggi circostanti, la memoria della sua primitiva funzione, come quella del Volto, si era persa nella notte dei tempi. Ciononostante, il periodico rituale a essi collegato, proseguiva nei modi previsti dagli Iniziati e dalle “Tavole”. Interrompere un’usanza che andava avanti dall’inizio del tempo era un sacrilegio e fonte di sventura.
L’uomo con il mantello sollevò la cesta, tenendola in equilibrio precario sulle palme callose e mormorò alcune formule segrete nel linguaggio dei suoi avi, che avevano dominato l’isola prima della “Grande Onda”. Subito dopo, la depositò sul terreno ciottoloso.
Al suo interno c’era un neonato addormentato. La pelle nuda, violacea, avvizzita e ancora imbrattata di placenta, esalava vapore. Nonostante il gelo pungente della notte era caldissimo. Per tenerlo calmo, era stato drogato con l’infuso di un’erba che cresceva solo in quel luogo. Per gli adulti era un potente allucinogeno capace di provocare terribili visioni e un’incontenibile risata nevrotica.
L’uomo estrasse il bimbo dalla cesta e lo mostrò ai seguaci.
Il canto cessò.
Una folata di vento s’incuneò nella conca e sferzò le torce.
Ignorando quel turbine, dopo aver esposto il neonato, l’Iniziato si girò verso l’effigie sgretolata cesellata sulla pietra. Ai piedi del Volto c’era un altare, una specie didolmen in miniatura, fatto con la stessa pietra del nuraghe. L’uomo depositò con cura il neonato, supino, in corrispondenza di un apposito incavo. Sul margine esterno della solida lastra, correva una scanalatura in pendenza che terminava in due fori circolari in ambedue i pilastri dell’altare.
Lo sbocco sotterraneo di quei condotti era sconosciuto.
A quel punto, come rispondendo a un segnale, l’uomo con il mantello e i suoi fedeli indossarono grezze maschere di legno che fino a quel momento avevano tenuto nascoste sotto le tuniche. Le maschere riproducevano le fattezze del viso scolpito sul macigno.
Senza solennità, l’uomo con il mantello estrasse dalla semplice cintura di cuoio che gli serrava la tunica un aguzzo pugnale di ossidiana. Le scheggiature riflettevano il bagliore delle torce. Circondato da un improvviso silenzio, l’uomo lo impugnò con entrambe le mani e lo elevò al cielo. Poi restò immobile, in attesa del momento esatto. Il rito richiedeva precisione assoluta.
Con il viso celato dalle bieche maschere, silenti e immobili, le persone alle sue spalle parvero trattenere il fiato per tutto il tempo, mentre le torce si esaurivano, sfrigolando nelle raffiche di vento.
Al primo tenue raggio di sole dell’alba, che s’infilò dritto nella conca, insinuandosi tra le frastagliate colline all’orizzonte, l’uomo strillò una parola e calò il pugnale nel cuore del bambino assopito.
La parola, pronunciabile solo in quell’occasione, era: “Cik-al!”
Il sangue sgorgò nell’incavo dell’altare, lo riempì e defluì nella scanalatura, da cui venne convogliato verso i buchi nei basamenti. Da quel punto sgocciolò, lento e denso, nel buio delle due cavità.
Andrea L –
L’alba del sacrificio
Il secondo libro di Giancarlo Ibba, ”L’alba del sacrificio”, è decisamente un horror thriller, ma non solo, che miscela sapientemente gli elementi che caratterizzano questi generi, arricchendoli di sfumature solitamente inconsuete per molti lettori nostrani.
Primo di essi è l’ambientazione in cui si svolge la vicenda: un’immaginario paese, Solus, che da tempi antichissimi ospita, non notati, gli ultimi rappresentanti di una antica popolazione i cui appartenenti continuano a praticare riti di un culto altrimenti dimenticato.
Le descrizioni degli ambienti che, nel caso di questo libro, diventano a volte un virtuosismo dato la complessità di certe location.
Poi, il folclore locale che viene miscelato dall’autore con atmosfere da brivido, nelle quali gli avvenimenti si susseguono a ritmo serrato coinvolgendo il lettore in macchinazioni sovrannaturali e inseguimenti inarrestabili.
Inoltre, c’è un libro dentro il libro, una specie di “lettura matrioska”, espediente attraverso il quale, Ibba, ci illumina su avvenimenti precedenti che hanno condotto i protagonisti, oggi, a trovarsi in quelle situazioni pericolose attraverso cui si dipana la storia.
Oltre al sovrannaturale viene inserito, nel contesto della narrazione, anche un pizzico di fantascienza, ottenendo così una nuova sfumatura narrativa.
I protagonisti sono ben delineati e lo stile è accattivante, arricchito da molte “citazioni” seminascoste, che il lettore può divertirsi a individuare. Il libro, in certe parti decisamente crudo e crudele, ha decisamente le caratteristiche dell’horror, ma sono talmente tanti gli ingredienti e così ben miscelati che definirei questo stile New Gothic, anche per i richiami alle atmosfere cupe di una certa letteratura classica mai dimenticata.
Sicuramente un’ottima opera, un libro composito e coinvolgente, così avvincente che è stato per me, un dispiacere lasciarlo nei momenti in cui ho dovuto sospenderne la lettura.
Anna Cibotti –
Sono stata presa nelle spire del mistero e dell’horror che questo libro esprime in tutta la sua crudezza. Mi sono immedesimata nella storia con un senso di profondo disagio e curiosità, ondeggiando in essa, come in una bolla pronta a scoppiare. In un contesto al di fuori di qualsiasi realtà conosciuta, ho vissuto con i protagonisti in una dimensione mobile e gommosa. Arcana forma di doppia o tripla coscienza dell’uomo che ai corpi devastati dai colpi e quindi carcasse putrescenti, sopravvive lo spirito dell’energia che si disperde nell’universo. Non sappiamo niente di quanti mondi ci circondino e in quali modi potremmo eventualmente far parte di ognuno di essi. Nella storia del libro c’è un filo che li scompone e ricompone quasi guidato da un ectoplasma superiore che sovrappone alla crudeltà umana una possibile redenzione attraverso uno spirito puro. C’è storia, sangue, truculenza a iosa in un incalzare di scene fotografiche raccontate nei minimi dettagli. Una sceneggiatura per un film horror che io ho visto in grigio. La cupa atmosfera che lo pervade dal primo capitolo alla fine non mi ha evocato nessun altro colore se non quello. Il tempo trasforma ogni cosa e chissà quante volte ci è capitato di guardare le nuvole nere e pensare che forse sono un’altra dimensione dove noi potremmo aver vissuto o vivere una doppia vita.No? Non è capitato? Allora dopo aver letto questo libro forse succederà… o per lo meno capiterà nei nostri incubi peggiori. Non è facile scrivere bene una storia così agghiacciante senza cadere nel ridicolo…l’ esagerazione a volte prende la mano di registi e scrittori risultando tragicomica. Devo dare atto all’autore che in questo caso nemmeno l’ombra di un sorriso mi ha sfiorato.
Adrenalina… questo sì!
Anna Cibotti
Elena G –
Atmosfere macabre
Sono svariati i motivi per cui questo romanzo si legge con piacere, anche quando la fredda crudeltà di alcune scene produce reazioni emotive non certo piacevoli. Il principale motivo per apprezzarlo, è che il lettore viene sapientemente calato in atmosfere macabre e sovrannaturali, morbosamente malate, che richiamano indiscutibilmente Edgar A. Poe, attraverso abili descrizioni di ambientazioni sospese tra realtà e incubo. Non è da tutti quella capacità, propria di Poe, di farti credere che tutto ciò che stai leggendo sia plausibile benché assurdo, capacità necessaria a non scivolare nel grottesco e che Ibba sembra proprio possedere. In alcuni punti la lettura è effettivamente appesantita da descrizioni così particolareggiate da rallentare l’azione, presente invece in altre parti; ma si sbaglierebbe a considerarlo un limite della scrittura. Se infatti ci si lascia condurre dall’autore, ci si ritrova fiato sospeso, respirazione rallentata, ad osservarci intorno come fossimo dentro la scena, i muscoli paralizzati ad aspettare il pericolo che ci colpirà da un momento all’altro. E poi bam, riesplode l’azione. Forse un po’ macchinosa la ricostruzione finale, ma comunque un bel libro, che lascia in bocca l’amaro di una consapevolezza: anche la battaglia più coraggiosa ed apparentemente giusta nulla può, per cambiare un destino scritto nel dna di una famiglia maledetta.
Oliviero Angelo F –
Gothic Sulcis
Questa Opera seconda di Ibba è un romanzo Horror che lascia il segno nel lettore, sia a parole concluse e soprattutto a parole in corso d’opera che mai e poi mai si vorrebbero accantonare per le incombenze quotidiane e personali di ognuno. Ibba si dimostra subito un gran maestro di parole creando suggestioni e ambienti che ci investono completamente appena ci si lascia irretire dalla trama, e non è difficile abbandonarsi a queste atmosfere gotiche e irreali che l’autore sa costruire credibilmente alla perfezione.
Viene facile accostare questo romanzo ai noti racconti di E.A.Poe e il paragone non è assolutamente fuori luogo. Come Poe anche Ibba sa disegnare situazioni nelle quali immergersi completamente, respirarle e osservarle con un costante senso di timore e smarrimento, perdendocisi dentro, appunto, senza soluzione di respiro rilassato.
“L’alba del sacrificio” è quella del Solstizio d’inverno ed è un’alba che per noi lettori nasce la prima volta nel 719 a.C, nel Sulcis in Sardegna dove tutta la storia ha poi dimora di svolgimento.
Con l’espediente riuscitissimo di un diario-racconto che Michele Cannas, il padre del protagonista Tommaso, scrive a futura memoria del figlio di fatti misteriosi e innaturali dei quali è stato scomodo e spaventato testimone nel 1952 mentre svolgeva le sue mansioni di infermiere (alle prime armi) nella lugubre e spaventosa Villa Massida, possiamo rivivere situazioni che altro non sono che una specie di presequel dei drammatici eventi che nel 1991 vedono protagonisti Giovanni Massida e la sua famiglia, attuali abitanti di Villa Massida. Sempre nel Sulcis e sempre in occasione di un Solstizio d’inverno.
Inquietanti e spaventosi colpi di scena si susseguono senza soluzione di continuità e la bravura di Ibba è quella di non cadere mai nel grottesco e nel ridicolo nel proporci situazioni che potrebbero essere non credibili ma che di contro, anzi, ci tolgono credibilmente il fiato.
Personalmente ho avuto più di un reale e fisico sussulto nelle vicende narrate nell’obitorio e questo pur essendo io un abituale lettore di genere horror e trovarmi poi immerso nelle inquietanti architetture in movimento sia spaziale che temporale di Villa Massida è stata davvero un’esperienza intensa. La complessità della trama che ha concreti appigli nella storia e nella tradizione sarda poteva rischiare di disorientare in qualche modo il lettore e il finale un po’ macchinoso poteva far nascere qualche perplessità. Così però non è stato. Onore al merito e al talento di Giancarlo Ibba.
Il finale apparente poi è ben lontano dal lieto fine che ognuno desidera leggere e, quasi sicuramente, non è nemmeno il definitivo finale di queste vicende.
Inutile dire che aspetterò con ansia l’eventuale proseguimento di questo avvincente romanzo come lo stesso autore pare promettere nelle note conclusive.