Descrizione
Una tragica realtà è la scomparsa di bambini, soprattutto dai Paesi più poveri, vittime di adozioni illegali o, peggio, di pedofili, di trafficanti di organi…
Nel 1977 viene rapito in Ecuador il piccolo José Mario Albuja, un bimbetto di cinque anni che sogna di diventare un grande calciatore.
Veneto, 2008: Lara Dosi, laureanda in medicina ed aspirante psichiatra, svolge il suo tirocinio presso il Centro di Salute Mentale di Brentiel. La cittadina è piccola, ma tutt’altro che tranquilla: si parla, infatti, dell’esistenza di un mostro che ha rapito, nel corso degli ultimi anni, ben tre bambini, l’ultimo in tempi recenti. I piccoli non sono mai stati ritrovati e, insieme ai bambini, afferma Tiziana, una “gattara” che nutre i randagi che si aggirano intorno all’ospedale, sono scomparsi anche moltissimi gatti, forse un centinaio. Secondo quanto la donna confida a Lara, per scoprire il mostro è necessario indagare tra le persone insospettabili, che hanno salute, successo, denaro. Non sono poche le persone con queste caratteristiche, tra le frequentazioni di Lara Dosi, compreso il giovane psichiatra di cui si sta innamorando. E quando Marika, una paziente del Centro, confida a Lara di “sentire” che l’ultimo bambino rapito è ancora vivo, la studentessa vuole cercare di capire che cosa ci sia dietro a quelle misteriose sparizioni. E lo farà a suo rischio e pericolo… perché il Male, a Brentiel, c’è davvero.
INCIPIT
Ibarra, Ecuador
«Niño, a te!»
Martín Juarez urlò dall’altra parte del campo, il pallone stretto sotto la suola delle scarpe malandate.
José Mario bloccò la sua corsa, incredulo: il suo caposquadra aveva detto proprio a lui!
Strinse le palpebre contro il riverbero del sole: la palla parve arrivargli al rallentatore, un’ombra scura contro la luce abbagliante.
Sentì le vene pulsargli in testa.
Goffamente si appropriò del pallone, sentì il contatto del cuoio sulle esili gambe scorticate da sbucciature.
Subito, tre giocatori della squadra avversaria, El Condor, alti e grossi almeno il doppio di lui, lo puntarono.
«Che pendejada hai fatto a dare la palla a quel moscerino?» Diego Torres, compagno di Martín, ringhiò contro il suo capitano sputando a terra.
Martín fece le spallucce. «Lascialo in pace: è solo un bambino, lo sei stato anche tu.» E si affrettò a correre verso la porta.
José aveva solo cinque anni, e nella sua squadra di calcio, la Simon Bolívar, contava poco più di un insetto.
Anzi, avere quel bebè tra i piedi sarebbe stato fastidioso anche più di un insetto, se non fosse stato per il suo zelo nel raccattare le palle che finivano fuori campo.
Se gli era permesso di indossare la maglietta gialla e di scorrazzare in mezzo ai giocatori era solo perché il capitano della squadra, il tredicenne Martín, lo aveva inspiegabilmente accettato.
Gli altri ragazzi, suoi coetanei, avevano borbottato proteste a mezza bocca.
«Che problema c’è? Non fa male a nessuno» aveva liquidato la faccenda il capitano.
E così aveva avuto il privilegio di assistere a tutti gli allenamenti dei grandi, di correre in mezzo a loro con l’illusione di essere parte della squadra.
Qualche volta Martín si fermava dopo l’allenamento per fare qualche tiro con lui e per insegnargli a segnare in porta.
«Non male, niño. Stai migliorando» gli diceva spesso scompigliandogli i capelli.
Ora, per la prima volta, durante una partita vera, gli veniva passato il pallone!
Schivò il primo giocatore della El Condor, e con una finta riuscì a evitare anche il secondo.
Il terzo lo afferrò per la maglietta, gettandolo a terra come una bambola di pezza.
No!
Con una foga animale si rialzò lanciandosi sul ragazzo, neanche sentì la fitta lancinante del calcio sul piccolo stinco ossuto quando riuscì a riappropriarsi della palla.
Corse verso la porta, mentre altri due giocatori della squadra avversaria gli venivano incontro.
Una voce gridò: «Niño, aquí!»
Riconobbe l’urlo di Martín. Lo vide, sul lato destro del campo, molto vicino alla porta indifesa.
Con tutta la forza che aveva nel suo piede destro tirò la palla al ragazzo un attimo prima che i giocatori della El Condor lo raggiungessero.
Lo mancò di un paio di metri, ma Martín scattò sul pallone, ruotò di 180 gradi e fece rete.
Dalla platea si levò un boato.
I giocatori del Simon Bolívar si accalcarono urlanti attorno al loro capitano.
Fu la gioia più grande che José avesse mai provato fino ad allora.
«Bien hecho, niño!» gli urlò Martín. Si divincolò dall’abbraccio dei compagni e corse verso di lui, il palmo della mano tesa per battergli un cinque.
José fece per corrergli incontro, ma dopo due passi cadde a terra.
«Che è successo?» Martín si chinò sul bambino, e vide lo stinco sinistro gonfio e già livido.
«Hijos de puta» mormorò a mezza bocca. «Ora basta, non puoi continuare a giocare in queste condizioni.»
«Ma io…»
«Riposati, adesso. Sei stato molto bravo, oggi, hai fatto un gran bel servizio alla squadra.»
Quando uscì dal campo zoppicando, un gruppo di ragazze tra gli otto e i vent’anni anni intonarono le tifoserie della Simon Bolívar.
Gli urlavano complimenti coi pollici sollevati, e una bambina si protese oltre le transenne per porgergli un fiore.
Lui avvampò, allungando timidamente la mano a capo chino.
Il fiore era giallo e appassito, di quelli che crescevano nei terreni incolti attorno al campo di calcio. José trovava avessero un odore particolarmente sgradevole.
Eppure lui non riuscì a spiccicare una parola, nemmeno un “Gracias”. Distolse subito lo sguardo, arrotolandosi nervosamente lo stelo attorno al dito.
Dopo qualche minuto alzò furtivamente lo sguardo verso le transenne, e la rivide: aveva indosso un vestitino rosa, di cotone, di una o due taglie più grande di lei. Probabilmente era appartenuto a qualche sua sorella maggiore.
Ma era pulita e ben pettinata.
Ai piedi portava scarpine di vernice un po’ logore. Lo stava ancora guardando. Gli sorrise.
La partita di calcio sfumò per José, nei 25 minuti che restavano. Non si accorse più di chi segnava e chi no.
Anche se non aveva più osato guardarla, aveva in mente solo il sorriso e gli occhi leggermente a mandorla della bambina.
Alla fine i suoi compagni vennero a sollevarlo in trionfo come mascotte: avevano vinto 3 a 1!
Sorretto dalle braccia dei ragazzi, guardò di nuovo la platea: avevano aperto le transenne, ora il pubblico di grandi e piccini stava dilagando sul campo.
In mezzo a loro, distinse il vestitino rosa della ragazzina, le due trecce scure.
Stava venendo verso di lui.
Zampettò sulle braccia che lo tenevano in alto e quasi ruzzolò a terra, finendo a un metro da lei.
Da vicino era ancora più bella.
«Sei stato molto bravo» gli disse con un sorriso.
Lui doveva tenere la testa sollevata per guardarla: era alta una decina di centimetri più di lui e a occhio e croce doveva avere un paio d’anni in più.
Ma José non aveva mai visto nulla di così incantevole.
«Verrai alle prossime partite?» riuscì a chiederle.
Lei annuì. «Come ti chiami?»
«José Mario Albuja.»
«Laura Noguera.» Rimasero impalati un istante, senza riuscire a dire una parola, finché non si sentì strattonare da un braccio vigoroso.
«Vamos, Pelé!» Un suo compagno di squadra se lo issò sulle spalle per portarlo in trionfo attorno al campo.
«Hasta luego, Laura!» riuscì solo a urlare alla bambina, prima di venir trascinato in mezzo ai suoi compagni.
«Que vivo. Carina, la tipa» gli sussurrò Martín facendogli l’occhiolino. Non gli era sfuggito il breve dialogo con la ragazzina.
Martín era veramente un eroe. In quell’istante pregò Dio perché lo aiutasse a diventare come lui, da grande: forte, bello, pacato e leale.
«Gracias, Martín» mormorò, sperando che il compagno lo udisse. «Gracias de todo.»
Ma al di là degli spalti, acquattato in una delle ultime file, qualcun altro aveva tenuto d’occhio la scena.
L’uomo sui trent’anni, dai tratti latini addolciti da incroci europei, non aveva partecipato alle tifoserie, ma non aveva perso di vista nemmeno per un istante i movimenti del piccolo José.
La sua espressione non tradiva nulla, solo i muscoli del viso si contrassero impercettibilmente quando vide l’ovazione della squadra per il bambino.
Alla fine della partita si alzò, spazzolandosi con le mani il fondo dei calzoni: lo stadio di quartiere era piccolo e sporco.
Aveva scelto un look sobrio, una camicia anonima e mal stirata e un paio di vecchi Levi’s per non dar troppo nell’occhio, ma a casa aveva vestiti assai più costosi.
Estrasse una Marlboro dal pacchetto infilato nella tasca posteriore dei pantaloni e l’accese, la fronte aggrottata contro il riverbero del sole.
Quidado, si disse. Fa’ attenzione.
L’accaduto di quel pomeriggio poteva rendergli le cose più difficili.
Forse. Ma forse poteva anche giocare a suo favore.
Se non ricordava male, James aveva parlato di un facoltoso medico europeo che voleva un bambino particolare, con caratteristiche molto precise: bello, intelligente e bravo nello sport.
Una nuova idea iniziò a prendere forma nella sua mente, mentre usciva dalle porte dello stadio urtato da ragazzini malvestiti e strepitanti.
Non gli passò neppure per la testa di vedere se fra quelli c’era qualcun altro che avrebbe potuto portar via: mai pescare più di una volta nella stessa città, era troppo rischioso.
Era a Ibarra da tre settimane, durante le quali aveva studiato e individuato la potenziale vittima.
La rosa alla fine si era stretta attorno a José Mario Albuja.
«Desculpe, señor!» Una ragazza sui sedici anni gli aveva pestato un piede nella ressa che si accalcava all’uscita.
«De nada, señorita» ammiccò lui con la galanteria di un gentiluomo, squadrandola con discrezione dalla testa ai piedi. La ragazza sorrise, arrossendo sotto la pelle scura: aveva un seno precoce, per la sua età, stretto da un top fucsia che le lasciava scoperto l’ombelico.
L’amica che le stava accanto le sussurrò qualcosa all’orecchio: «Gli piaci: carino, il gringo».
Lo sconosciuto esitò un istante: l’idea di trastullarsi quella sera con quel piccolo diversivo lo tentò.
Sapeva che sarebbe stato molto facile: il fascino dello straniero e il suo portafogli pieno avevano un effetto sicuro su tutte le donne latino-americane povere.
Ma non era il caso di commettere imprudenze: doveva lasciare meno tracce possibili di sé.
E poi, non appena fosse rientrato in Brasile, di donne poteva averne quante voleva.
Ora era prioritario occuparsi del bambino, e di esporre il suo cambio di piano a James.
Si acquattò in un angolo tranquillo, finendo la sigaretta con aria assorta.
Sorrise, notando la ragazzina che ancora lo fissava speranzosa dall’altra parte della strada. Con quello che avrebbe potuto fruttargli quell’affare, a occhio e croce, avrebbe potuto procurarsi puttane per almeno un anno.
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