Il Club dei Pescatori del fiume inesistente

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Alberto Zella

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-5539-019-4 Categoria: Tag:

Descrizione

Il Club dei Pescatori non ha molto a che fare con la pesca, è un centro con piscina, maneggio e campi da tennis frequentato dalla buona società di Ghevaro, sonnacchiosa cittadina della pianura lombarda. Il ritrovamento del cadavere della giovane e bellissima Valeria Bargi, fidanzata di Fuffo Gabennati, figlio del presidente del Club, sconvolgerà la vita degli oziosi frequentatori della struttura, attorno alla quale ruotano le indagini della polizia, e la preoccupazione principale sarà quella di trovare un capro espiatorio per non venire accusati dell’omicidio: poiché il corpo della ragazza assassinata è stato trovato avvolto nell’accappatoio del bagnino del Club, Zeno Zorseni, nulla di più facile che cercare di far cadere i sospetti su di lui. A favore del giovane testimonierà però Yvonne De Lorenzo, figlia del questore: la giovane è convinta dell’innocenza di Zeno e mente pur di fornirgli un alibi. La polizia sembra non fare molti progressi; saranno Zeno e Yvonne a indagare per conto loro, e dalle loro ricerche emergerà anche un segreto che coinvolge la famiglia Gabennati.

INCIPIT

PROLOGO

 

Raccontato da Zeno Zorseni, 24 anni, bagnino presso

la piscina del Club dei Pescatori di Ghevaro.

Questa storia me la raccontava mio padre quando ero un ragazzino: i partigiani erano scesi dalla montagna e avevano sterminato la famiglia dell’ingegner Gabennati. Era stato un regolamento di conti privato, niente a che fare con la politica o la guerra. Antichi odi familiari e recenti questioni d’interesse. L’ingegnere era stato ferito e se l’era cavata fingendosi morto.

Già, la guerra: ero felice di averla scansata, ma ero anche morbosamente attratto dalle storie di quel periodo. Le ascoltavo dai vecchi, che qualche volta tremavano nel corpo e nella voce quando le raccontavano. Sembrava che le bombe fossero appena esplose e loro avessero ancora i morti sotto gli occhi e l’odore della cordite nel naso. I loro tremori mi contagiavano: si parlava di morti veri! Carne vera di gente vera, non era come vedere un film in televisione. Mi veniva la pelle d’oca, ma non ero mai sazio di ascoltare.

Quella faccenda della famiglia Gabennati mi aveva lasciato un segno profondo. Fino a quel momento avevo sempre identificato i partigiani come «i buoni» e i fascisti come «i cattivi» e tra buoni e cattivi mettevo un confine netto che pensavo fosse invalicabile.

Naturalmente nella vita non può mai essere così. Mio padre stesso, a diciassette anni, era sfuggito per un pelo all’arruolamento forzato nella Repubblica di Salò, nascondendosi in una canonica. E mio padre non sarebbe mai stato cattivo, nemmeno con la camicia nera.

Avevo cercato di saperne di più da lui: «Ma papà, quanti erano? Chi erano? Quante persone hanno ammazzato?»

Mio padre non aveva saputo rispondere, o più probabilmente non aveva voluto. Parlare di guerra e di morte gli rovinava la digestione, e non so come fosse capitato che mi accennasse quella storia. Forse lo fece perché in quel periodo lavorava per l’ingegner Gabennati. Mio padre era un uomo di compagnia, amava scherzare e cantare e ballare. Povero papà! La morte, che tanto temeva, per lui sarebbe arrivata troppo presto. Non tornò più sull’argomento.

Passò qualche tempo e mi imbattei in versioni più corpose di quel fatto.

I partigiani erano quattro ed erano arrivati col buio nella frazione di montagna dove abitava la famiglia Gabennati. Cercavano il padre dell’ingegnere, che si diceva controllasse il mercato nero. Altri dicevano che uno dei figli, Angelo, facesse il doppio gioco. Ma quella sera, in quella casa, il padre e Angelo non c’erano. Spararono alla madre e ai tre figli presenti, Carlo, Maria e Pasquale. Carlo, il futuro ingegnere, si beccò tre o quattro pallottole. I cadaveri della madre e dei fratelli gli crollarono addosso. Lui rimase immobile, imbrattato dal sangue della sua famiglia. Probabilmente i partigiani gli avrebbero dato il colpo di grazia, se non avessero sentito dei rumori provenire dall’esterno. Era il lavorante dei Gabennati, un certo Gino. Ammazzarono anche lui.

Schegge impazzite, gente vile che aveva aperto un fronte personale. Tre della banda furono fucilati dalla rigorosa e inflessibile giustizia partigiana: così sostenevano le fonti più o meno ufficiali. Ma c’era anche un’altra versione: il quarto della banda faceva il doppio gioco e aveva venduto i compagni ai repubblichini. Era un po’ come Rashomon: vai a cercare la verità e scopri che probabilmente non esiste. Perlomeno, non esiste una verità assoluta. Io però ricavai due certezze da tutte le testimonianze che avevo e che avrei in seguito ascoltato. La prima: che l’ingegner Gabennati aveva la pelle dura.

La seconda: che uno dei quattro rinnegati, quello sopravvissuto, quello che aveva tradito i compagni, era stato riconosciuto dall’ingegnere.