Gelsomino rosso sangue

14,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Michele Zoppardo

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-5539-008-8 Categoria: Tag:

Descrizione

Una preziosissima parure di gioielli, sporchi di sangue innocente, percorre l’Italia da nord a sud, irrompendo come un vento malefico nella vita di più persone, scatenando brame, costringendo a compromessi con la propria coscienza, spazzando via l’esistenza, o comunque determinando la rovina, di quanti incroceranno la loro strada con la sua.

I gioielli maledetti legheranno a doppio filo la vita di tanti personaggi, tra rapine vere e simulate, brutali assassinii, innocenti creduti colpevoli e colpevoli che sembrano vittime perché talvolta, specie nella terra che fu di Pirandello, “quello che appare non è quello che è”.

Le indagini ordinarie di un singolare commissario di Polizia e quelle “straordinarie” di un giovane investigatore privato consentiranno di dipanare l’intricata matassa, approdando a un finale sorprendente.

 

Antefatto

 

Alle sei del mattino del 15 dicembre 1971, tre ragazzi tra i venticinque e i ventisette anni, due uomini e una donna, partirono da Milano, a bordo di un’autovettura Alfa Romeo 2000 Berlina di colore blu scuro, diretti a Roma. Erano vestiti elegantemente ma il loro aspetto fisico non era rispondente a quello reale.

Parrucche, lenti a contatto colorate, gommapiuma collocata strategicamente sotto i vestiti, stivaletti con rialzo, barba e baffi posticci, lattice di gomma e un trucco sapiente avevano trasformato il loro aspetto.

La ragazza, che occupava il sedile posteriore, aveva capelli corti, rossi e ricci, occhi cerulei e il volto coperto da efelidi.

L’uomo alla guida era di media statura, capelli lisci e folti color castano, occhi scuri, naso leggermente aquilino, baffetti sottili.

Il giovane che gli sedeva accanto era alto, di corporatura snella e vigorosa. I capelli ondulati e brizzolati, abbondantemente cosparsi di brillantina. Una barba ben curata, anch’essa screziata di bianco, gli copriva il mento e parte delle guance.

 

Roma, ore 10,20 della stessa mattina.

La giornata era fredda e piovosa. I negozi già parati a festa, data l’ora, erano ancora semivuoti.

Una giovane donna si fermò davanti alla vetrina dell’elegante gioielleria De Rossi. Indossava un cappotto beige col bavero di pelliccia color miele, un colbacco dello stesso pelo, guanti, scarpe e borsetta perfettamente intonati. La ragazza indugiò un po’ ad ammirare i gioielli esposti, poi suonò il campanello a lato della porta d’ingresso, munita di vetri blindati.

La commessa spense l’aspirapolvere con cui era intenta a pulire la moquette; guardò attraverso il vetro e, rassicurata dall’aspetto della donna, aprì senza indugio.

La ragazza si disse affascinata dai gioielli esposti in vetrina e chiese di vedere qualcosa da vicino.

La commessa volle sapere che cosa le interessasse di più, se una collana, un anello, un bracciale.

«Beh» rispose la ragazza «anche una parure completa; ma di un certo livello» aggiunse con nonchalance.

La commessa le mostrò una parure, poi un’altra, poi un’altra ancora.

La ragazza si mostrava interessata ma poco convinta e chiedeva sempre qualcosa di più ricercato, di più costoso.

«Ho capito quello che fa per lei!» esclamò infine la commessa. «Abbiamo una splendida parure, più unica che rara; però la teniamo di là in cassaforte. Le spiace attendermi un attimo solo?»

Tornò dopo qualche istante e mostrò i gioielli alla cliente.

La collana, splendida, era formata da due serpenti che, intrecciandosi, arrivavano a mordersi le rispettive code. Gli occhi dei due rettili erano costituiti da grossi diamanti. Lo stesso motivo era ripreso nel bracciale, nell’anello e negli orecchini.

«È una parure in oro giallo e diamanti» affermò la commessa, orgogliosa come se l’avesse creata lei. «Costa veramente molto ma è da sogno.»

La cliente manifestò il desiderio di provarla. La commessa le agganciò la collana. Intanto le parlava dell’originalità del disegno, creato dal noto stilista Bignami; della purezza e del taglio dei diamanti; degli orecchini, che “le stanno una meraviglia, sembrano fatti apposta per il suo viso!”; dell’anello che “le sta un po’grande ma non c’è problema, perché si può facilmente restringere”.

Entrambe le donne erano estroverse e tra loro si era stabilita una certa confidenza.

Nel negozio non c’erano altri clienti e la commessa poteva intrattenersi tranquillamente con quella ragazza interessata a una parure così costosa, la quale ora le stava raccontando che quello sarebbe stato il dono di Natale del suo fidanzato che sarebbe dovuto arrivare da un momento all’altro, insieme al fratello.

«Sai» confidò allegramente la donna alla commessa, dandole del tu «lui è molto facoltoso e al momento anche molto generoso. Che devo fare? Ne approfitto; l’amore non è eterno e se un giorno dovesse finire» indicò i gioielli «almeno mi consolerò con questi.»

Le due ragazze risero.

«Magari l’avessi io un fidanzato come il suo!» esclamò la commessa, lusingata dalle confidenze della cliente. «Il mio ragazzo fa l’operaio in una fabbrica ed è manna dal cielo quando ha in tasca i soldi per portarmi al cinema la domenica.»

Risero di nuovo.

«Però, dammi del tu» protestò la giovane cliente; poi, con indifferenza: «Ma sei sola in questo negozio così grande?» chiese.

«Sai, a quest’ora del mattino non ci sono mai tanti clienti» rispose la commessa. «Però, più tardi arriva un’altra collega a darmi man forte e nel pomeriggio siamo in quattro. Comunque, non sono sola neanche ora; di là c’è il proprietario.»

Proprio in quel momento, davanti alla porta a vetri della gioielleria, comparvero due uomini, anch’essi piuttosto giovani e dall’aspetto signorile. Sorridevano, facevano cenni di saluto alla donna che si trovava all’interno.

«Oh, ecco il mio fidanzato!» esclamò la ragazza.

La commessa pigiò il pulsante posto sotto il bancone e fece scattare la serratura della porta, consentendo ai due uomini di entrare.

Poi, tutto si svolse fulmineamente, come nella sequenza accelerata di una pellicola.

Il ragazzo con gli occhi scuri e i baffetti estrasse un coltello a molla dalla tasca dell’elegante cappotto; fece scattare la lama, si portò dietro alla commessa, le tappò la bocca con la mano guantata e le puntò l’arma alla gola.

«Non fiatare!» le intimò «o ti sgozzo come un agnello.»

La ragazza era esangue; nei suoi occhi stupore e paura.

L’altro uomo, quello alto e con la barba, abbassò le veneziane sulle vetrate, per precludere la vista a eventuali sguardi curiosi dall’esterno.

«Attenzione; di là c’è il proprietario!» avvertì la falsa cliente.

L’uomo alto impugnò una pistola munita di silenziatore; aprì la porta che separava il negozio dal retrobottega e si precipitò dentro.

Qui trovò il proprietario, un uomo anziano, intento a esaminare alcuni cataloghi; poco più in là, c’era una cassaforte.

L’uomo rimase sorpreso a vedersi parare davanti quel ragazzo che, senza esitare, gli puntò una pistola alla testa e:

«Zitto!» gli intimò. «Questa è una rapina! Apri la cassaforte, se no ti faccio saltare il cervello!»

L’uomo sudava, cercava di prendere tempo.

«Ma c’è un congegno a orologeria» balbettò «non posso aprirla ora.»

Il ragazzo, senza scomporsi, gli sferrò uno schiaffo potente, appena attutito dal guanto che indossava. L’uomo barcollò.

«Apri la cassaforte o sei morto e non fare scattare l’allarme!» urlò ancora il ragazzo.

«Va bene, va bene, ma calmati» piagnucolò l’anziano.

Con le mani tremanti, disattivò il temporizzatore e l’allarme collegato alla cassaforte; ruotò la manopola sui numeri che componevano la combinazione e, con uno scatto, lo sportello si aprì.

Accadde l’imprevisto.

Il gioielliere infilò una mano dentro la cassaforte e ne estrasse un revolver.

Fu rapido, nonostante l’età, nonostante la paura, ma il giovane, benché colto di sorpresa, lo fu di più.

Lo sparo fu appena percettibile, perché attutito dal silenziatore.

Il gioielliere, colto in pieno petto, barcollò e il revolver gli cadde di mano. Fece un passo in avanti verso l’uomo che gli aveva sparato, come a volerlo afferrare ma stramazzò ai suoi piedi, senza vita, mentre una chiazza rossa si andava allargando sulla sua camicia bianca.

Il ragazzo si sentiva eccitato come non mai; il tasso di adrenalina nel suo sangue era altissimo.

“Sangue freddo, sangue freddo!” si ripeteva il giovane rapinatore, ora diventato assassino. “Nessuno può aver sentito lo sparo!”

Volle dimostrare a se stesso di essere ancora padrone della situazione.

Nella cassaforte c’erano parecchi soldi. Ne arraffò più che poté, riempiendone la capiente doppia fodera fatta cucire appositamente all’interno del cappotto. Ora era lui a sudare abbondantemente; d’altra parte, era la prima volta che uccideva. “Bisogna far presto, bisogna andare via da qui” andava ripetendosi.

Corse ansimando verso il negozio.

Intanto, la falsa cliente si era impossessata della parure che prima stava ammirando. L’altro complice si era fatto aprire le vetrine blindate e si stava appropriando dei gioielli in esposizione.

«Via, via!» gridò il ragazzo assassino, nel frattempo giunto dal retrobottega.

«L’ho ammazzato; era armato, via!»

Anche i complici furono colti di sorpresa. Prima non era mai successo. Prima nessuno mai aveva reagito. Avevano preso ciò che avevano voluto, avevano rinchiuso commessi e clienti nel retrobottega o nel bagno e se ne erano andati via tranquillamente, come se niente fosse. Stavolta il copione era saltato.

La falsa cliente si precipitò prontamente a pigiare il pulsante di apertura per sbloccare la porta ma, inaspettatamente, senza che gli altri potessero rendersene conto, il giovane assassino, con movimento fulmineo, appoggiò la pistola alla tempia della commessa terrorizzata e sparò una seconda volta.

Un altro sibilo, un altro tonfo; tutto talmente rapido che nessuno poté far nulla.

«Noooo!! Perché?» gridò la ragazza complice. «Che bisogno c’era?»

Anche l’altro giovane era sbigottito, incredulo.

«Zitta; era necessario!» urlò l’assassino.

Uscirono, cercando di tenere un’andatura regolare; non bisognava correre. La ragazza, però, non ce la faceva neanche a camminare. Le gambe non la reggevano e gli altri due furono costretti a sorreggerla, prendendola sottobraccio. Per fortuna, la stradina laterale in cui avevano lasciato l’auto in sosta era vicina.

La ragazza era chiaramente sconvolta e, per tutto il viaggio di ritorno, continuò a ripetere come una nenia:

«Lei perché, che bisogno c’era?»

«Katia, era necessario, devi convincertene!» sbottò alla fine l’uomo che aveva sparato. «Porca puttana! Mirco, diglielo anche te che era necessario!» ordinò al compagno.

Questi, che era alla guida dell’auto, non rispondeva, esitava.

«Siamo travestiti, non ci avrebbe mai riconosciuto» balbettò alla fine.

«E le nostre voci?» urlò l’altro, indispettito. «Le nostre voci le ha sentite, specie quella di Katia; un domani, in un confronto, avrebbe potuto riconoscerle. Non ci daranno tregua, ci braccheranno. Non si tratta più solo di una rapina questa volta; c’è scappato il morto, lo capite o no? Voi non ci pensate a queste cose, io invece ci ho pensato e l’ho fatto per il bene di tutti.»

«Sì, forse era necessario» convenne il ragazzo alla guida, pur senza troppa convinzione. Pensava piuttosto che il capo fosse stato colto dallo stesso impulso assassino delle bestie che hanno fiutato il sangue e non possono più trattenersi dall’uccidere.

La ragazza, abbandonata sul sedile posteriore, non ascoltava; era come in trance. «Lei perché?» continuava a chiedere.

Usciti dall’autostrada, il capo ordinò all’altro ragazzo di fermarsi in un posto appartato; temeva che la donna, fuori di sé, potesse in qualche modo tradirli. La fece scendere dalla macchina, poi le mollò uno schiaffo violento.

La ragazza sembrò riaversi e scoppiò in singhiozzi irrefrenabili.

Il capo le prese le mani tra le proprie. La sua voce ora era bassa, suadente.

«Katia guardami; era necessario, andava fatto, devi convincertene, fattene una ragione o vuoi marcire in galera? Che è colpa mia se quel vecchio stronzo si è messo a fare l’eroe?»

La ragazza sembrò calmarsi.

«Brava, così» la incoraggiò il capo. «Adesso ripeti con me: era necessario, andava fatto!»

Lei ripeté, ma quella povera commessa non se la sarebbe più tolta dalla mente.

 

Il 1971 era stato un anno difficile, come quelli che l’avevano preceduto, a partire dal 1968. Violente manifestazioni di piazza, scontri quotidiani tra dimostranti e forze dell’ordine, uccisioni di uomini dello Stato da parte della mafia avevano insanguinato l’Italia, seminando morte, dolore e devastazioni.

Si dice che quando gli avvenimenti sono tanti e drammatici la gente ci fa il callo e non s’impressiona più per nulla.

Eppure, quella sanguinosa rapina compiuta a Roma ai danni della gioielleria De Rossi, la mattina di quel piovigginoso 15 dicembre, suscitò molta commozione. La città era già pervasa dall’atmosfera festiva tipica del periodo natalizio e la gioielleria era tra le più note della capitale. La mattina dopo, tutti i principali quotidiani riportarono in prima pagina la notizia, con le foto di Andrea De Rossi, l’anziano titolare dell’esercizio, e di Giovanna Moroni, la commessa, entrambi barbaramente uccisi: il primo, perché aveva evidentemente tentato di reagire, infatti accanto al cadavere dell’uomo era stata rinvenuta la sua pistola; la seconda, verosimilmente, per essere stata testimone del fatto. I giornali pubblicarono anche le foto della magnifica parure in oro e diamanti che i rapinatori erano riusciti a sottrarre, insieme a una ventina di milioni di lire in contanti.

Certamente, ad agire sono stati dei professionisti. Niente testimoni, niente impronte, niente tracce” scrissero i cronisti.

Le indagini della tragica rapina furono affidate al vice commissario Calogero Sanfilippo, da poco immesso nei ruoli dei funzionari della Pubblica Sicurezza e assegnato alla Squadra Mobile, sezione furti e rapine, della Questura di Roma.

Il vice commissario era giovane, privo di esperienza ma pieno di entusiasmo. Si era arruolato per puro idealismo, per combattere il crimine e far trionfare la giustizia. Ci teneva a sottolinearlo, a dispetto dell’opinione corrente secondo la quale, in Polizia, si arruolavano i giovani laureati che non erano riusciti a vincere concorsi più allettanti, soprattutto dal punto di vista delle gratificazioni economiche.

A coadiuvarlo, c’era l’anziano maresciallo Angelo Mangialardi, per gli amici Angelino, prossimo alla pensione, ricco di esperienza ma ormai svuotato di ogni entusiasmo, che il giovane funzionario si ostinava a chiamare Angelini, malgrado le ripetute ma inutili precisazioni del sottufficiale che, alla fine, si era rassegnato.

Entrambi si buttarono a corpo morto su quel caso.

Sin dall’inizio, l’indagine si presentò ardua.

«Dottore» aveva sentenziato il maresciallo dopo il primo sopralluogo sulla scena del delitto «parlo per esperienza e non per pessimismo. Questi sono professionisti rifiniti. Qui non veniamo a capo di niente.»

«Maresciallo, mi rendo conto anch’io che l’indagine è complessa ma non per questo dobbiamo arrenderci subito» aveva replicato il vice commissario, col suo marcato accento siciliano e un caratteristico difetto di pronuncia che lo portava a straziare le erre.

In effetti, i rapinatori avevano lavorato bene e non avevano lasciato tracce. I colleghi della Polizia Scientifica non avevano rinvenuto nulla d’interessante sul luogo del delitto; né impronte digitali né un’orma né altro che potesse far risalire a loro, e non c’erano testimoni.

Nulla di buono neanche dagli esperti di balistica. Dai proiettili estratti dai corpi delle vittime, ricavarono soltanto che la pistola che aveva sparato era una comunissima calibro nove.

Per settimane, il vice commissario e il maresciallo si dedicarono solo a quel caso, giorno e notte.

Setacciarono tutti i luoghi di malaffare. Torchiarono tutti i pregiudicati per reati di rapina e i ricettatori del settore. Controllarono le liste dei passeggeri arrivati e partiti dall’aeroporto di Roma, nel giorno della rapina e in quelli immediatamente antecedenti e successivi. Inviarono dispacci e foto dei gioielli rubati a tutte le Questure d’Italia, nella speranza che qualche ufficio rispondesse positivamente, che qualche ricettatore venisse trovato in possesso dei preziosi; niente.

In un paio di circostanze, gli investigatori pensarono di aver fiutato la pista giusta e, di conseguenza, pedinamenti estenuanti, appostamenti notturni, saltando i pasti, dimenticandosi delle famiglie, vincendo il sonno. Alla fine, avevano fermato due o tre persone, nella certezza di aver individuato almeno uno dei malfattori ma gli incriminati erano riusciti a dimostrare la loro estraneità ai fatti; avevano, come suol dirsi, un alibi di ferro.

Neanche gli informatori, adeguatamente allettati o minacciati, avevano saputo fornire notizie utili.

“Sicuramente” dicevano “non è gente di qua; sono venuti da fuori.”

I responsabili del grave fatto di sangue sembravano essersi volatilizzati insieme ai gioielli che, però, erano bruciati sul mercato, perché sporchi di sangue. In quel momento, nessun ricettatore li avrebbe voluti; c’era il rischio di beccarsi un’accusa di concorso in omicidio.

Inizialmente, l’opinione pubblica e la stampa avevano esercitato forti pressioni sulle istituzioni perché si arrivasse presto a una rapida soluzione del caso. A sua volta, il prefetto aveva esercitato forti pressioni sul povero questore che, non sapendo a che santo votarsi, aveva finito con l’affiancare al giovane vice commissario il più esperto commissario capo Donati della Sezione Omicidi, in qualità di coordinatore delle indagini; ma neanche così l’esito era cambiato.

Poi, la sofferta e contrastata elezione di Giovanni Leone, nuovo Presidente della Repubblica, le celebrazioni del Natale, i botti di capodanno, altre rapine, altri morti ammazzati, tanti altri gravi episodi di cui occuparsi e l’attenzione su quel caso era scemata, com’è naturale che sia.

Il vice commissario Sanfilippo e il maresciallo Mangialardi avevano continuato a occuparsene ma “a scappa tempo” finché, dopo qualche mese, per il sottufficiale era arrivato il giorno del pensionamento e per il funzionario quello dell’agognato trasferimento nella sua terra, alla Questura di Catania.

Il carteggio della rapina con omicidio alla gioielleria De Rossi finì, come tanti altri, nei sotterranei della Questura, tra gli scaffali polverosi dell’archivio, con sulla cartella il timbro “IRRISOLTO”.