Guardati le spalle

12,00

Formato: Libro cartaceo, pag. 130

Autore: Mario Nejrotti

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-6690-429-8 Categorie: , Tag: ,

Descrizione

Torino, Barriera di Milano: quartiere triste, operaio, duramente colpito dalla crisi economica e infiltrato dalla malavita organizzata.
Care, per gli amici, in realtà Amilcare, è un triste e scialbo quarantenne, barista di un bar di periferia. Ha passato la vita a “guardarsi le spalle” e a non schierarsi, alla ricerca di un’occasione per fuggire da quel quartiere che gli sembra un carcere fin da quando era bambino.
Una sola difesa: la mediocrità.
Una sola consolazione: la passione per i film western, che colleziona e guarda da sempre.
Convinto di essere un vigliacco, come suo padre, sorvegliante fallito, non giudica i suoi clienti e accetta il loro denaro senza farsi troppe domande: “Un barista può non avere una coscienza, non gli serve per fare il caffè.”
Ma quando la malavita organizzata decide di usare il bar per i suoi affari, incominciano i guai, in un crescendo che coinvolgerà anche il suo amore.
Alla fine dovrà decidere da che parte stare ed escogitare un piano per liberarsi di tutti i cattivi, perché di veri buoni in questo romanzo non ce ne sono.
Deve eliminare tutti: camorristi, ’ndranghetini, poliziotti corrotti, ma lui non èGary Coopere non può affrontarli in duello, come in Mezzogiorno di Fuoco.
Dovrà fare a modo suo e prevedere le mosse di tutti.

INCIPIT

Le piaceva quella strada, non che fosse bella, anzi non lo era per niente, ma l’idea di stare in via Scarlatti, che, le avevano raccontato, era un grande musicista italiano, le faceva piacere. Scarlatti doveva essere uno come Gigi D’Alessio, che con le sue canzoni la faceva proprio impazzire.

In Italia questo c’era di bello: tanta musica. Cantavano tutti. Si era messo a cantare al karaoke anche il suo Balarabe, che lavorava con Vincenzino al mercato.

Una cosa la colpiva di quella città e non si era ancora abituata: i grandi marciapiedi di pietra che ci si poteva camminare in due affiancati e anche i passeggini dei bambini potevano correrci sopra. Ogni tanto c’era qualche ragazzo con i pattini e qualche bicicletta. Dovevi sentirli come protestavano i bianchi. Ma come facevano a non capire che fortuna avevano. Nel posto da dove veniva lei quando pioveva non c’era marciapiede, non c’era strada: solo fango rosso, che qualche volta veniva giù tutto insieme dalla collina e si portava via baracche e persone.

Era arrivata tre anni prima su un barcone, ma in Sicilia la stavano aspettando e aveva passato solo una notte al Centro di Accoglienza, poi l’avevano portata via e spedita a Torino.

Doveva pagare ancora molti soldi per riscattare il viaggio e poi a casa aveva due sorelle piccole e la mama le aveva fatto capire che se non rigava dritta gli spiriti che le ubbidivano avrebbero portato su di loro sventura e morte.

Ormai da un anno l’aveva comprata quel vecchio insieme alle altre e l’aveva messa in un grande alloggio dove erano in sei. Una camera per due, un armadio, un comodino vicino al letto e una sedia. Un bagno per tutte: qualche volta era scomodo, ma c’era l’acqua calda e quello era una gran cosa. L’altro bagno era solo per la mama, che dormiva nella camera vicino alla porta di ingresso, così sapeva sempre chi entrava e chi usciva. In salotto c’era la televisione che potevano guardare, quando non erano al lavoro. Se uscivano dovevano dire dove andavano e dovevano rispettare gli orari. Se ritardavi, le grida della mama si sentivano fino in strada. Ma in quella casa nessuno degli altri inquilini protestava. O avevano paura o quelli che avevano brontolato erano stati convinti a non farlo. Alcuni erano anche contenti di avere le puttane in casa senza dover uscire di notte.

Nessuno la picchiava più come faceva il primo padrone, che l’aveva anche violentata insieme ai suoi uomini per spiegarle bene bene quale sarebbe stato il suo futuro. Ma con il nuovo aveva capito subito che bisognava stare molto buone e non cercare di scappare, altrimenti non ci sarebbero state botte, ma le sarebbe successo qualcosa di peggio, a lei qui e alla sua famiglia a casa.

Per convincerla le avevano mostrato le fotografie di una ragazza nera, morta, nuda in un fosso con la faccia nel fango.

Però poteva ascoltare con le cuffiette tutta la musica che voleva e il mangiare era buono e ce n’era tanto. Veniva una donna bianca a farlo. Era una vecchia che parlava strano, un po’ come sentiva al mercato dai contadini. Lei la capiva poco, ma era gentile e faceva bene da mangiare. La mama la pagava molto, perché fosse contenta e stesse zitta.

Lavorava tutte le notti in un piazzale, dietro a un supermercato.

Quando faceva freddo, accendevano i fuochi. Chi abitava nelle case vicine si era lamentato dell’andirivieni dei clienti e del fumo, ma la polizia non si era mai fatta vedere e nemmeno il comune. Forse non importava che ci fosse quel commercio, aveva saputo che qualche retata nei viali dietro via Bologna, dove stavano quelle dell’Est, l’avevano fatta, ma lì da loro non era mai arrivato nessuno.

Aveva incontrato un mattina al mercato il padrone di quelle dell’Est. Era andata a comprarsi gli avocado. Ne aveva proprio voglia, anche se il gusto era completamente diverso da quelli che mangiava a casa sua. Manghi e papaie non riusciva proprio a mandarli giù. Gli unici decenti erano gli ananas. Ma ogni tanto almeno la polpa degli avocado in bocca le ricordava dove era nata.

Quell’uomo era enorme, con una pancia che arrivava prima di lui. Portava pantaloni bassi, una maglietta bianca giro collo e un giubbotto imbottito di pelle nera, lucida. Sulle maniche e lungo i bottoni una fila di borchie d’argento. La faccia era larga e senza collo, ma portava una catena d’oro pesante e alle mani anelli d’oro con pietre preziose. Aveva una barba sottile intorno al viso, come una striscia nera di pennarello. Si vedevano tatuaggi spuntare sui polsi nudi e sul torace: un uccello forse, ma con le fiamme che uscivano dalla bocca. E lettere cinesi. Parlava un poco italiano con uno, ma aveva un accento russo o di quei paesi là. Lo avevano fatto entrare nell’area chiusa alle macchine e lui l’aveva lasciata lì, con una portiera aperta, per andare al bar con i suoi amici e con una donna alta e bionda. La gente dei banchi gli aveva brontolato dietro, ma nessuno si era mosso. Avevano paura. Quello aveva la faccia da assassino e anche a lei faceva spavento.

Il suo di padrone teneva i prezzi più bassi.

«Così facciamo concorrenza a quelle stronze polacche» aveva detto il vecchio una sera nell’alloggio. Per lui erano tutte polacche, ma lei sapeva che non era così. Una volta ne aveva incontrate tre al Care’s Bar, dove andava qualche volta a bere un marocchino, che la faceva ridere che si chiamasse così, ma era molto buono e il barista lo faceva benissimo e lo spolverava bene di cioccolato. Quelle tre erano una bulgara e due russe e non erano antipatiche: la loro storia era uguale alla sua.

Di clienti lei ne aveva tanti e anche con tanti soldi.

Si stupiva di vedere arrivare belle macchine, uomini eleganti. Qualcuno le diceva, perché gli uomini italiani chiacchieravano e le facevano perdere anche tempo, che era sposato e aveva dei figli. Non riusciva a capire perché venissero con lei: ma pagavano.

Man mano che il tempo passava, si era abituata e le faceva meno schifo stare con tutti quegli uomini, soprattutto con i vecchi.

Aveva i suoi abituali, che diventavano sempre di più, perché era molto brava, le dicevano, e ci metteva un po’ di cuore, mentre le altre si vedeva che volevano solo che i clienti finissero il più in fretta possibile per farne tanti. Quegli uomini non sapevano che più soldi si portavano alla mama e prima riuscivano a pagare il riscatto per il viaggio.

Lei aveva vent’anni e si chiamava Maimuna e quello era un vantaggio, perché i clienti riuscivano a dire facilmente il suo nome, mentre facevano l’amore, e questo agli italiani piaceva tanto. Le altre avevano nomi impossibili da pronunciare per gli europei e avevano dovuto cambiarselo, ma non suonava così esotico.

Riceveva tanti regalini con il suo modo di fare e nascondeva i soldi.

Con Balarabe, il suo amore che aveva ventidue anni e veniva dalla Nigeria anche lui, se lo erano detto: sarebbero scappati per tornare a casa. Lì si sarebbero sposati e avrebbero vissuto bene, meglio che qui, dove lei faceva la puttana e lui tutto quello che gli ordinavano i D’Introno.

Loro l’avevano ripreso con il telefonino quella notte che non ce l’aveva più fatta a farsi chiamare “sporco negro” dal Milanese, che gli faceva scaricare le cassette tutte le notti e lo pagava solo quando voleva lui.

Aveva aspettato che tornasse a casa e poi lo aveva colpito da dietro con un bastone e lui non aveva neanche visto chi era stato. Aveva gridato mentre lo colpiva e lui aveva provato piacere, ma non si era fatto riconoscere, non aveva detto una parola, gli bastava picchiarlo. Gli aveva poi portato via il portafoglio, così imparava a non dargli i soldi. Lui doveva mangiare come i bianchi.

Nessuno lo aveva visto nella strada mentre lo picchiava, così credeva.

Quando Lucio, il fratello di Vincenzino, lo aveva chiamato al mattino dopo, mentre lavorava come al solito a scaricare cassette e fingeva di aspettare il padrone, credeva che volesse offrirgli un lavoro.

Invece, lo aveva tirato da parte e gli aveva mostrato il video. Lo si riconosceva benissimo nel cellulare, sotto il lampione, mentre massacrava di botte il Milanese, che era poi morto al Giovanni Bosco, appena arrivato in Pronto Soccorso.

Lucio gli aveva detto:

«Da domani lavori per noi e fai tutto quello che ti diciamo di fare: altrimenti passi il resto dei tuoi giorni alle Vallette. Hai capito, stronzo?»

E da allora aveva fatto tutto quello che volevano loro. Ma poi lo avevano anche pagato, perché forse avevano paura che anche lui avrebbe potuto parlare con gli sbirri.

Era venuto una sera al piazzale in macchina. Erano stati insieme e a lei era piaciuto di più di quello che avrebbe voluto.

Sperava di non vederlo più. Invece era tornato e aveva aspettato vicino al fuoco che finisse con il suo cliente.

Le aveva chiesto di andare di nuovo con lui.

Era diventato un abituale, ma lei sapeva che con Balarabe era un’altra cosa.

Parlavano spesso invece di fare l’amore e basta. Ma i soldi glieli dava lo stesso, perché non voleva che il vecchio e la mama si accorgessero che c’era qualche cosa di diverso.

Si erano innamorati, lo sapevano tutti e due, ma non se lo erano mai detti: l’amore era difficile per loro.

Faceva il picchiatore per i due fratelli: per la droga, per gli spazi al mercato, tutte le volte che serviva.

Una volta le aveva confessato, con le mani davanti alla faccia per non farsi vedere piangere, che gli avevano ordinato di ammazzare un tizio, che si era rubato della droga e poi aveva cercato di fregarli.

Erano andati a prenderlo a casa, tutti e tre, e l’avevano portato appena fuori città, vicino all’autostrada per Milano. Lui non voleva uccidere quel poveraccio di albanese, ma Vincenzino, che il lavoro sporco lo faceva sempre fare a qualcun altro, aveva deciso così, altrimenti Lucio, che invece non aveva nessun problema a sparare, li avrebbe ammazzati tutti e due.

«Spicciati, che vediamo come viene alla TV» aveva detto e lo aveva ripreso di nuovo con il cellulare.

Aveva chiuso gli occhi e aveva sparato.

Da quel momento aveva deciso di scappare. E adesso che aveva incontrato il suo piccolo fiore, come la chiamava, nulla gli avrebbe impedito di tornare a casa con lei.

Bastava che stessero quieti, lei con il vecchio e lui con Vincenzino.

Li avrebbero serviti bene e nessuno si sarebbe accorto che stavano accumulando soldi per andare a vivere lontano insieme, felici.

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