Black Wedding

15,00

Formato: Libro cartaceo, pag. 190

Autore: Angelarosa Weiler

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-110-8 Categoria: Tag:

Descrizione

Una storia scottante, consumata alle pendici dell’Etna, occultata per anni da un mare di omertà profondo quanto l’Oceano Atlantico per proteggere una piccola vittima innocente. Un oblio forzato, destinato a generare silenzi ed incomprensioni, corazze indossate a protezione di paure latenti, dubbi, incertezze e debolezze umane. Un percorso che si trascina sempre più lontano dalla Sicilia, passando attraverso città e nazioni in cui si svolgono eventi che modificano la forma dell’anima della protagonista, di pari passo con le esperienze vissute; un movimento interiore legato a reali spostamenti, spesso non voluti e non programmati, che la vita le impone. I sentimenti che prova e che le vengono manifestati sono tutti ammantati da un’ombra, nera come la lava del vulcano. La luce della verità si riaccende dopo decenni sulla costa orientale degli Stati Uniti d’America, in seguito ad un incontro predestinato, fatto di passione trasgressiva e di morte violenta. L’investigazione che fa seguito a quest’ultimo delitto disperde le ombre e svela la dicotomia dei personaggi che hanno fatto la storia di una bambina diventata donna, desiderosa di raggiungere i propri obiettivi grazie ad una determinazione non comune e capace di guardare la verità, anche la più dura e difficile da accettare, al di là dei veli con i quali è stata celata.

INCIPIT

PATERNO’

 

Gli aranceti di Contrada Zappulla brillavano nel sole carichi di frutti. La natura aveva messo in scena, come ogni anno, uno spettacolo sfolgorante, una danza di colori intensi e vivaci che incontravano la luce evocandone la vittoria nei confronti del buio. L’epoca della raccolta era ormai prossima, ben presto il silenzio della campagna sarebbe stato interrotto dall’incursione pacifica di uomini e mezzi agricoli. Nell’attesa, la distesa di terra lavica alle pendici dell’Etna riposava nella stasi e nella pace più assolute. La vetusta utilitaria di Carmelo Burro procedeva lentamente lungo la strada sterrata che conduceva a uno dei casolari al limitare della contrada. L’attenzione del conducente era interamente assorbita dalla guida sul terreno sconnesso, onde evitare buche, dossi e sassi; il suo sguardo non sfiorava neppure la rigogliosa bellezza che lo circondava, nel bel mezzo della quale, ben celati e molto incuriositi, occhi sconosciuti osservavano il suo passaggio.

Carmelo aveva da poco compiuto ventidue anni e, come altri giovani della sua età agli inizi degli anni Novanta del Novecento, aveva dentro di sé grandi sogni che faticavano a prendere forma nella realtà di una città come Catania. Il picciotto lavorava come garzone di bottega nel più rinomato salone di acconciature femminili della località etnea, di proprietà di Calogero Vinci, meglio noto come Don Lillo. Quando era al lavoro, Carmelo non distaccava gli occhi dalle mani del suo maestro neppure per un istante. Don Lillo era un vero esperto nella piccola arte del taglio e nell’acconciatura; era rapido, veloce, sicuro e da lui c’era davvero molto da imparare. Il talento naturale di Carmelo era ben noto al suo datore di lavoro, il quale, in compenso, ne frenava ogni fantasia. Tanto Don Lillo era sobrio e legato a uno stile classico ed elegante quanto Carmelo era estroso, creativo e innovativo; pur tuttavia, le clienti del salone di Don Lillo, tutte appartenenti alla migliore società catanese, non parevano le candidate ideali a recepire mode e modi diversi dal consueto. Il sogno di Carmelo era quello di poter un giorno dare vita a uno spazio tutto suo, nel quale esprimere le proprie idee in fatto di hair styling, ma quel sogno, almeno in quel momento, pareva destinato a rimanere confinato all’interno di una dimensione eterea. La famiglia di origine di Carmelo non era certamente in grado di contribuire economicamente al raggiungimento degli obiettivi che il giovane si era prefissato e il magro stipendio elargito da Don Lillo era a malapena sufficiente per pagare le rate della sgangherata utilitaria, riempire il serbatoio di benzina e coprire le spese per i divertimenti dei quali il ragazzo non poteva né voleva fare a meno. Per questo motivo, Carmelo accettava volentieri ogni richiesta di prestazioni al di fuori dell’orario di bottega; la domenica, il lunedì e nelle ore serali era sempre pronto a presentarsi con attrezzature e prodotti del suo mestiere nelle case di coloro che richiedevano un suo intervento a domicilio. Don Lillo era a conoscenza di questo fatto e non aveva nulla da obiettare, anzi, a volte era proprio lui a indicargli dove e da chi andare: si trattava soprattutto di anziane clienti non più in grado di spostarsi per raggiungere il centro cittadino oppure di signore limitate da una malattia o da un incidente subito. Così era avvenuto anche quel lunedì mattina. La cliente che attendeva Carmelo si trovava in una località disagiata. Don Lillo era stato molto preciso nel fornire le indicazioni stradali e perentorio nell’impartire ordini: «Devi fare un buon lavoro e tenere la bocca chiusa. Non dire a nessuno dove vai, la signora è molto riservata. Fai quello che devi fare, non chiedere niente a nessuno e torna a casa tua senza fare commenti. Se ti comporti bene, sarai pagato profumatamente e potrai ritornare anche in futuro. Se mi fai fare una brutta figura oppure sgarri, è meglio se non ti ripresenti più qui a lavorare. Hai capito bene?» Carmelo aveva promesso obbedienza senza discutere, contraddire Don Lillo era difficile se non impossibile. Nell’omertà più assoluta aveva infilato la strada che conduceva a Paternò, da lì si era diretto in Contrada Zappulla e ora stava arrancando verso il casolare indicato dal suo datore di lavoro, brontolando tra sé e sé per il polverone sollevato dalle ruote che imbrattava la carrozzeria della sua auto e lo costringeva a mantenere chiusi i finestrini.

«Mi’, che camurria!» esclamò Carmelo quando giunse in vista del bagghiu che rappresentava la meta del suo viaggio. Una costruzione rurale dall’aspetto degradato, per non dire fatiscente, dal quale provenivano i versi del pollame che razzolava libero nella corte interna e il latrato di una muta di cani invisibili alla vista, forse tenuti da qualche parte alla catena o rinchiusi in un recinto. Carmelo prese a rimuginare tra sé e sé: «Ma che diavolo! Cosa ci fa in un posto del genere una cliente di Don Lillo? Quello non pettina le zappaterra, a bottega vengono solo delle gran signore». Carmelo fu accolto da un uomo di mezza età, basso di statura, tarchiato, dal viso rugoso reso bronzeo dal sole, contornato da capelli ispidi e neri come la pece. Dalle maniche della camicia sbucavano due mani che dimostravano di aver avuto contatti assidui e prolungati con la terra. Si rivolse al picciotto in siciliano, senza sprecare parole di saluto e intimandogli uno stringato: «Seguimi e taci». Attraversati i locali intercomunicanti del bagghiu uno dopo l’altro, Carmelo si trovò al cospetto della sua cliente, una ragazza di giovane età e in avanzato stato di gravidanza. Era bella, molto bella, della bellezza tipica dei discendenti dei Normanni: lunghi capelli biondi, occhi azzurri, pelle chiara; le mani morbide e ben curate lasciavano intuire che non era lei a occuparsi delle faccende domestiche all’interno di quelle mura di pietra. Anche la giovane futura madre si rivolse a Carmelo nel dialetto locale, mostrandogli la foto di una star della TV pubblicata su una rivista; voleva la stessa acconciatura di quella icona celebrata e sensuale.

«Come ti chiami?» chiese Carmelo.

«Angela» rispose lei.

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