L’eredità di Amos

24,00

Formato: Libro cartaceo pag. 338

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Autore: Rosa Gemma Piazzardi

Note sull’autore

 

 

COD: ISBN: 978-88-5539-239-6 Categoria: Tag: ,

Descrizione

L’eredità di Amos  racconta una storia giocata tra presente e passato: il presente è quello di Athina Delimari, una giovane archeologa, che nel 2012 si reca nell’isola di Rodi alla ricerca dei documenti lasciati, ne è certa, dal nonno paterno, Amos, venuto poi a nascondersi a Roma, dove viene catturato con la famiglia perché ebreo proprio mentre gli Alleati stanno entrando nella capitale nel giugno del 1944, cattura a cui sfugge per un semplice caso una figlia, Miriam, che sarà la madre di Athina. La storia del passato inizia nel 1937, quando il nonno Amos, allora giovane e promettente archeologo specializzato nella traduzione di epigrafi, conduce le sue ricerche nelle isole di Rodi, Kos e Kalymnos, sottraendosi così, in un primo tempo, alle leggi razziali promulgate nel 1938; a Rodi, il giovane conosce la nipote del governatore italiano dell’isola, la bella Germana, che diventerà sua moglie, gli darà due figli, Davide e Miriam, e lo seguirà fino alla fine nel suo tragico destino. Attraverso le ricerche della giovane Athina viene messo in scena un periodo buio e difficile della storia d’Italia, con i giochi di potere e l’arrivismo di alcuni loschi individui, il declino del fascismo ma anche la generosità e l’amicizia perfino di persone che la storia indicava invece come nemiche.

Incipit

Rodi, 2 settembre 2012

 

 

Athina Delimari si sporse dalla fiancata della nave che entrava maestosamente come un cigno stanco nel porto di Mandraki.

Aveva tanto atteso quel momento, lo aveva preparato nella mente e nel cuore e ora temeva di essere delusa non perché il porto non fosse bello, anzi! Ma perché si sentiva come sopraffatta dalle memorie.

La prozia Anna le aveva descritto tante volte l’isola delle rose.

«Tu non puoi neanche immaginare quanto sia splendida, ogni pietra ha una storia, un colore, andrai verso il castello e incontrerai chiese bizantine e moschee mescolate insieme come su un arazzo e vorresti essere né italiana né greca né turca, ma semplicemente una donna di Rodi. Le sue rose sono speciali, perfino i consoli romani, dopo una vittoria, erano incoronati, non d’alloro, ma di rose.»

«Anche ai nonni piacevano?»

«Tantissimo… mi hanno detto che lui ogni volta che si incontravano le portava una rosa e una rosa di corallo e d’oro fu il suo ultimo regalo prima del ritorno.»

Anna non parlava volentieri di suo fratello, di sua moglie e dei loro bambini, sembrava che ogni volta soffocasse un dolore e quando proprio non riusciva a sottrarsi alle domande di Athina, concludeva:

«Tu sei giovane, è la tua vita che conta ora, non pensare più a quello che è successo. I tuoi nonni si sono amati profondamente e sono stati felici finché è stato possibile. Ricorda solo questo».

L’Esperia si accostava alla banchina, tutti si affrettavano verso l’uscita. Athina non si muoveva ancora, voleva vedere dal mare la città che si presentava chiusa nelle sue mura, poteva permettersi di indugiare, non doveva andare alla ricerca del suo bagaglio, aveva solo un piccolo trolley con sé. Nessuno l’aspettava, l’albergo che aveva prenotato era sul lungomare, non distante dal porto, sapeva che da un tunnel si arrivava direttamente sulla spiaggia.

«Potrò fare qualche bagno, non sarò sempre impegnata.»

Non si accorse che anche l’ultima persona aveva lasciato la nave e che restava solo lei, accanto alla scaletta c’era un gruppo di ufficiali e, tra questi, il comandante, Stavros Yannis.

Soffocò un moto di stizza.

“Penserà che mi sono trattenuta apposta per poterlo salutare senza tanta gente intorno e invece non ne ho avuto proprio l’intenzione.”

Quando lei gli passò vicino, lui le si parò davanti scherzosamente ed esclamò in italiano:

«E se non la facessi scendere?»

Gli occhi erano ironici e ridenti come sempre durante la traversata.

Lei finse di stare allo scherzo.

«Sequestro di persona… la sua carriera sarebbe rovinata.»

«Lei ha già rovinato la mia vita, cosa vuol che m’importi della mia carriera? Comando navi da anni, più di quello che sono non potrò diventare. Lei ha fatto a pezzi il mio cuore con la sua indifferenza, quando sarà scesa il mio cuore la seguirà e io cadrò morto.»

«E come farà a seguirmi se io l’ho ridotto a pezzi?»

Suo malgrado rise, il comandante era spiritoso, solo bisognava non dargli corda, lo aveva visto corteggiare parecchie ragazze dalla partenza della nave da Atene e tutte sembravano cadere vittime del suo fascino.

Lui riprese:

«Mi darà l’occasione di mostrarle i luoghi più suggestivi di Rodi. Non devo partire subito».

«Ma non ci penso proprio!»

«Viva la sincerità! Davvero non vuole scoprire le meraviglie dell’isola con una guida competente come me?»

«Non sono qui per ragioni turistiche, ma le assicuro che, se per caso avrò bisogno di una guida, mi ricorderò della sua offerta.»

«Ha visto che, a insistere, si ottiene sempre qualcosa?»

«Non s’illuda… molto poco.»

«Meglio poco che niente. Si ricordi, sono a sua disposizione!»

«Me ne ricorderò.»

La voce di lui la inseguì:

«La cercherò in ogni angolo dell’isola. Comunque, quando sono a Rodi, vado ogni sera al Casinò dell’Albergo delle Rose».

«Se mi verrà voglia di giocare, ci incontreremo lì, allora.»

Non aveva nessuna idea di rivederlo, non per un incontro sentimentale era venuta a Rodi, ma per una specie di obbligo morale verso sua madre e i suoi nonni e per trovare una risposta a un destino spaventoso che aveva coinvolto loro come milioni di altre persone.

Mentre lasciava la nave e s’inoltrava nel Mandraki verso il suo albergo ricordò l’ultima visita alla Residenza svedese che nel 1944 ospitava l’Ambasciata.

La segretaria dell’ambasciatore era stata, come sempre, gentilissima.

«Mi creda, dottoressa Delimari, abbiamo cercato dappertutto, ma qui non c’è nessuno scritto di suo nonno. Abbiamo frugato in ogni angolo, siamo scesi nei rifugi antiaerei. Forse suo nonno ha distrutto tutto prima di uscire, temeva che finisse nelle mani dei tedeschi.

«No, sono sicura che non l’ha fatto. I tedeschi stavano andandosene, gli americani erano alle porte, lui si sentiva in salvo e salvo era il suo lavoro.»

Miss Larsson aveva continuato:

«Non so proprio cosa dirle… qui tutti sapevano che l’opera di suo nonno era importantissima per la comunità scientifica, nessuno si sarebbe attentato a spostare qualunque cosa gli appartenesse. Dopo quello che accadde, tutto fu conservato, gli oggetti sono stati lasciati così come lui li vide per l’ultima volta. Nessuno ha più abitato la sua camera nella mansarda. Vuole rivederla?»

«No, grazie, ci sono già stata varie volte, me la ricordo bene.»

«Forse qualche particolare può esserle sfuggito. Lei sa che la realtà che ci circonda è più misteriosa di quanto immaginiamo. Non si è mai accorta a casa sua, di non riuscire a vedere cose che erano sotto i suoi occhi?»

«Dubito che in questo caso possa succedere, ma saliamo pure, mi fa sempre piacere rivedere ciò che era appartenuto ai miei nonni.»

Lasciarono la sala dove Athina era stata ricevuta, attraversarono una fila di salotti e salottini finché Miss Larsson si fermò davanti a un armadio, aprì un’anta e s’infilò su per una scala a chiocciola. Arrivarono a una mansarda divisa in due vani, ben arredata e tenuta in perfetto ordine.

«Suo nonno, mi hanno riferito, preferiva lavorare in biblioteca, raramente qui. L’ambasciatore di allora era solito intrattenersi con lui, s’interessava alle sue traduzioni. In gioventù si era occupato di archeologia come il nostro defunto sovrano. Quando venivano i tedeschi in visita o per qualche ragione particolare, però, ovviamente suo nonno non scendeva. La situazione era molto delicata, non solo qui, ma anche nel mio Paese, era neutrale, ma i tedeschi avrebbero potuto occuparlo da un momento all’altro, allora avremmo dovuto chiudere la sede di Roma e partire. Suo nonno era stato cercato dappertutto, non bisognava scoprire che si era rifugiato qui, paradossalmente la sua stessa fama tra gli epigrafisti tedeschi era un pericolo per lui.»

«E mia nonna e i bambini cosa facevano mentre lui lavorava?»

«La signora insegnava ai bambini, nel tempo libero aiutava suo marito. Mi hanno detto che sembravano sereni, scherzavano, pareva loro un prodigio essere sfuggiti alla cattura ed essere ancora insieme.»

Athina si era guardata intorno, conosceva a memoria ogni suppellettile, ogni oggetto, ma si sentiva commossa come il primo giorno in cui era entrata in quella mansarda.

Aveva accarezzato la coperta gialla del letto e si era avviata alla scrivania dov’erano i vocabolari di greco e latino di suo nonno, uguali a quelli che erano serviti a lei, il Rocci, il Georges, il Badellino.

Accanto c’era anche un foglio ingiallito con un’annotazione:

«Il trattato di Kos recita…»

Non c’era scritto altro: suo nonno pensava di proseguire il lavoro al suo ritorno, Athina poteva immaginarsi come in un film lo svolgersi degli avvenimenti. Si era alzato, aveva guardato fuori dalla finestra, constatato che era una splendida giornata e deposto ogni prudenza. Sapeva che gli Alleati stavano arrivando, forse erano a pochi chilometri e così aveva deciso di uscire con sua moglie e suo figlio, sua figlia Miriam era rimasta a casa.

Poi tutti e tre erano stati inghiottiti dal nulla, erano seguiti il dubbio, l’incertezza, la paura, le frenetiche telefonate. L’ambasciatore si era rivolto a tutti i suoi colleghi, forse il professore, resosi improvvisamente conto che era in pericolo, si era rifugiato in una sede diplomatica?

Era il 3 giugno del 1944, i tedeschi stavano abbandonando la città, sembrava impossibile che, proprio nelle ultime ore, volessero caricarsi di una famiglia di ebrei.

E invece era successo proprio questo: Miriam ricordava di aver sentito rumori di camion che si allontanavano. Su uno di questi c’era la sua famiglia, ma lei non lo sapeva.

Il giorno dopo, finalmente, gli americani erano a Roma e Miriam era stata libera di uscire e di andare dove voleva, ma non aveva più né padre, né madre, né fratello.

Aveva ricordato infinite volte quell’ultimo giorno, aveva ripetuto con sua figlia ogni minimo particolare.

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