Il grande (fallimento) Gatsby

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Formato: Epub,?Kindle

Autore: Claudia Scavo

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-141-9 Categoria: Tag:

Descrizione

Il Grande Gatsby , tratto dal celebre romanzo omonimo di F. Scott Fitzgerald, è stato recentemente (2013) riproposto sul grande schermo, per la regia di Baz Luhrman, interpretato da Leonardo DiCaprio. Quest’ultima, com’è noto, non è l’unica rielaborazione filmica dell’opera: una prima pellicola muta, andata perduta, vide la luce già nel 1926 (un anno dopo la pubblicazione del romanzo), la seconda nel 1949, e la terza uscì nel 1974, con Robert Redford e Mia Farrow nel ruolo dei protagonisti.

Nonostante la versione del 1974 si ricordi come la più famosa, non ebbe un gran successo, infatti la critica bocciò quasi all’unanimità quella pellicola.

Attraverso il testo qui proposto ci si interroga non solo sul motivo per il quale un romanzo degli anni Venti fu riproposto negli anni Settanta, dopo già ben due fallimenti cinematografici, ma anche sui motivi per cui anche questo terzo tentativo, che la Paramount aveva già preventivamente annoverato fra i  suoi grandi successi, fu inesorabilmente un flop, nonostante la presenza di un affermato sceneggiatore quale Francis Ford Coppola.

Attraverso uno studio sociologico vengono ripercorsi gli “umori” della Storia degli anni in cui videro la luce sia l’opera che la sua trasposizione filmica.  Vengono inoltre analizzate le scelte tecniche operate dal regista, dovute alla sua interpretazione della trama e dei personaggi.

Questa analisi può rappresentare lo spunto di partenza per un’eventuale critica relativa al successo o al fallimento del nuovo film.

INCIPIT

1.1 Fitzgerald e il sogno americano

Prima di poter affermare con certezza di aver compreso l’essenza stigmatizzante e stigmatizzata di Gatsby, di aver vissuto e sofferto con lui alla mercé di una forza anelante ardente e distruttrice, di aver addentato con lui la vita, per un breve istante prima del tuffo nel nulla, bisogna almeno in parte aver conosciuto l’odore dell’atmosfera che impregnava le sue costose camicie: un odore acre di gin distillato clandestinamente, simbolo di presunta giovinezza, di presunta libertà, di presunta felicità. Questo stesso odore ristagnava e rifluiva costantemente nelle narici del padre-creatore di Gatsby, nonché il suo alter ego, Francis Scott Fitzgerald.

Il nome di costui è stato per lungo tempo associato a quello del “poeta della giovinezza e della sua caducità”[1]: egli ha vissuto la sua vita come un’adolescenza senza fine, ballando al ritmo sincopato del jazz, sperperando la sua fortuna in cerca di una felicità innocente e di un credo, ruggendo di fronte ai limiti impostigli da una società obsoleta, e facendosi portavoce e catalizzatore di tutte le delusioni dei “giovani tristi”.

Per quanto frivola la sua vita potesse apparire, e in parte lo è stata davvero, i suoi “ruggiti”, presenti in tutti i suoi scritti, sono solo un’eco dei ‘Roaring Twenties’, e suggeriscono una più profonda critica sociale.

La critica di Fitzgerald si rivolge infatti a ciò che rimase dell’America, in particolare degli Stati Uniti, dopo la devastante esperienza della Prima Guerra Mondiale, ma si radica su idee già espresse in precedenza con il nascere dell’ottica modernista[2]; sin da Emerson (1803-1882), gli americani cercavano di darsi una nuova identità distaccandosi dal materialismo, dalla formalità e dal purismo obsoleti imposti dalla società.

Nel 1910 la nuova organizzazione sociale portò in misura sempre maggiore ad un indebolimento delle costrizioni sociali che avevano fino ad allora impedito ogni rinnovamento culturale e collettivo.

La “parola amuleto” degli anni immediatamente successivi fu ‘nuovo’: si faceva parte di una ‘nuova storia’ alla quale partecipava attivamente anche una ‘nuova donna’; in cui si praticava un ‘nuovo teatro’ e si dava vita ad una ‘nuova poesia’, e ci si rivolgeva a tutti coloro cui era stata negata da troppo tempo, secondo i fautori del ‘nuovo’, ogni promessa di partecipazione alla vita americana. Si inseguiva quindi un’utopia umanitaria che nel 1917 sarebbe diventata l’utopia di una democrazia universale. Quell’epoca fu però anche quella dell’America degli isterismi, dovuti proprio alla paura di quegli stessi soggetti a cui le nuove istituzioni avevano dato una più forte e indipendente autorità: in primo luogo si manifestò la “grande Paura Rossa”, quando centinaia di scioperi gettarono l’America nel panico. Qualsiasi atto rivoluzionario venne identificato con il bolscevismo, così il sindaco di New York proibì l’uso delle bandiere rosse, i soldati e i marinai — anche se non autorizzati dal governo — si assunsero il compito di disperdere le riunioni socialiste – dette ‘rosse’ — e presto la diffidenza verso gli stranieri, di qualsiasi nazionalità fossero, portò ad identificare questi ultimi con i bolscevichi. All’inizio del 1920, quando ormai la gente cominciava ad esser stanca delle sfilate del proletariato contro il perenne rialzo dei prezzi, i motivi di distrazione erano l’alcolismo[3] e la rivoluzione del mondo femminile[4]. Questo portò alla nascita di due nuove figure: il contrabbandiere e la “flapper”[5] – trad. maschietta –.

Questa nuova figura femminile sovvertiva l’ideale estetico femminile dominante, presentando una donna totalmente moderna: una donna con i capelli e le gonne corte, che guida l’automobile e gioca a tennis, che beve e balla, e il cui io è completamente assorbito in se stesso. Attraente, di gusti sofisticati, giovane per definizione, la maschietta incarnava allo stesso tempo gli ideali e le limitazioni della vita moderna. Come la più famosa tra tutte loro, Daisy Buchanan, afferma in The Great Gatsby (1925): «È la miglior cosa che una donna possa essere in questo mondo, un’affascinante sciocchina.».

Quel 1920 fu inoltre “una battaglia condotta dalla gioventù in nome della gioventù in tutte le classi sociali”.

Era nata la moda delle “feste per pomiciare”: quando un ragazzo di quella ‘Generazione Perduta'[6], uno dei cosiddetti “pomicioni”, descrisse questo nuovo stile di vita in This Side of Paradise, scoppiò l’isterismo del sesso. Ormai pareva che tutti appartenessero alla “generazione giovane”[7], e che la generazione giovane fosse dappertutto: lo spirito moderno aveva finito col trionfare.

Mentre in Europa la guerra era finita in un impoverimento e in un esaurimento generale, per milioni di americani, invece, il mondo del 1920 era più ricco e più comodo; la nuova èra, allegra e ricca, stabilì su salde basi la liberazione e la conquista della nuova letteratura. Se era stata l’America a vincere la guerra dell’Europa, come diceva la voce popolare, fu la nuova letteratura che rese più americana la vittoria: la letteratura della critica e della ribellione. Come disse Edmund Wilson, mai in tutto il corso della storia, una generazione letteraria aveva detto tanto male del proprio paese, e soprattutto, come affermò Mencken, in un modo così innocente e spassoso. Fondamentalmente, tutti gli esponenti di questa nuova generazione letteraria erano, ciascuno a modo suo, nemici dell’ordine borghese riconosciuto, delle convenzioni e del puritanesimo, e si ribellavano contro tutto ciò che ritenevano cospirasse a mantener bassi i valori dell’arte e del pensiero. Ma essi stessi erano figli del boom economico e allegri sfruttatori d’un privilegio nuovo, riscuotendo importanti quanto paradossali consensi da quello stesso pubblico che denunciavano.

Pertanto, sebbene la denuncia del denaro rappresentato come un veleno contro la libertà umana è uno dei temi ricorrenti nella Generazione Perduta, lo stile di vita di quella generazione non ha respinto il denaro, ma si è illusa di metterlo sotto una nuova luce proponendo nuovi moduli di comportamento. Fitzgerald non si limitò ad essere il maggior esponente di questa nuova èra, ma ne creò il costume: la sua vita stessa, nella parabola di miseria-successo-rovina, rifletté la vita economica e sociale degli Stati Uniti nel decennio 1920-30.

Il successo economico era ormai il metro di giudizio: poeti, pittori, romanzieri, critici, giornalisti e produttori, valevano soltanto se erano in grado di procurarsi un cospicuo guadagno; non c’era posto per i poveri, i deboli e i falliti. Chi non aveva quattrini non aveva credito, e chi non aveva credito non aveva quattrini: era nato l’isterismo del guadagno.

In un paese dove il tema dominante era la frenesia del guadagnare, non poteva non succedere che la ricchezza venisse identificata col simbolo della libertà e della felicità.

Fitzgerald disprezzava e insieme invidiava i ricchi — come il suo personaggio Nick Carraway in The Great Gatsby –: li disprezzava per la volgarità e la vacuità dei costumi, ma li invidiava per le possibilità che si spalancavano loro al solo passaggio.Egli stesso afferma: «Non sono mai stato capace di perdonare ai ricchi di essere ricchi e questo ha dato una piega alla mia vita e al mio lavoro.».

Fitzgerald si sentì quindi sempre perseguitato dallo spettro della mediocrità, e ancor più quando incontrò Zelda.

Zelda era la ragazza che “vuole quello che vuole quando lo vuole”, che non vuole “pensare alle pentole, alla cucina e alle scope”, ma preoccuparsi soltanto di avere “gambe lisce e abbronzate per andare a nuotare d’estate”. Poteva permettersi tale atteggiamento perché era ricca, e non c’era uomo che non s’innamorasse di lei; anche Fitzgerald se ne innamorò, ma non poté coronare il suo sogno finché non fu anch’egli abbastanza ricco, perché “un ragazzo povero non può sposare una ragazza ricca”.

Questo tema è appunto affrontato con spirito melanconico e allo stesso tempo disilluso nel The Great Gatsby.

Quando il suo This Side of Paradise si rivelò un trionfo e le vendite gli procurarono i quattrini necessari ad essere stimato un grande artista, Zelda poté aprirgli la porta del suo cuore, così come aveva fatto il successo. Si sposarono, e il resto appartiene alla leggenda, erano divenuti il simbolo stesso dell’Età del Jazz: giovani sofisticati e pieni di fascino che cercano di vivere il sogno americano del denaro, del successo e della felicità, e che alla fine si scontrano con la tristezza e perfino la tragedia. Con l’entusiasmo di un bambino, Fitzgerald, improvvisamente ricco, poteva permettersi qualsiasi follia — fece smodato uso di alcool e droghe — e distribuiva le sue ricchezze come un bambino distribuisce caramelle ai bambini rimasti più poveri. Pensava di aver ormai realizzato il ‘Grande Sogno Americano’, quello secondo cui ogni cittadino può ottenere ciò che desidera, e invece ebbe il suo crollo, trovandosi stritolato da quello stesso sistema economico che denunciava e allo stesso tempo di cui abusava, stritolato dalle inesorabili leggi della domanda-offerta.

Di tutti gli amici a cui elargì le sue ricchezze, nessuno gli tese la mano al momento del crollo: il re dell’Età del Jazz, dopo aver conosciuto tutte le glorie e tutte le umiliazioni di quest’epoca, morì e quasi nessuno partecipò al suo funerale[8].

Intanto era morta anche l’Età del Jazz; era stato un periodo di successo apparente che aveva provocato solo un’erosione di tutti i valori, rimaneva solo la ricchezza del paese, ma col crollo della borsa del 1929 anche quella cessò d’esistere.

Il sogno americano era morto.

[1] Fernanda Pivano, Mostri degli Anni Venti.

[2] Il termine “modernismo” fu usato per la prima volta in Germania nell’ultimo decennio dell’Ottocento, periodo in cui nacque il movimento omonimo.

[3] Non bisogna dimenticare che nel 1920 era entrato in vigore il proibizionismo.

[4] Negli stessi anni entrava in vigore anche il 19° Emendamento, il quale riconosceva alla donna il diritto di voto.

[5] Il caricaturista John Held Jr. divenne famoso per aver inventato sulle pagine della rivista Vanity Fair l’immagine della “flapper”.

[6] Gertrude Stein, alla guida di autoambulanze durante la guerra, aveva così battezzato i superstiti, i quali si abbandonarono ad un fenomeno di vittimizzazione.

[7] Come scrisse Gertrude Stein in The Autobiography of Alice B. Toklas, il 1922 fu un anno in cui tutti i giovanotti avevano ventitré anni.

[8] Dorothy Parker ripeté la frase del funerale quasi premonitore di Gatsby; «Povero bastardo.».

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