C’era una volta in Sardegna

5,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Giancarlo Ibba

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-236-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Qualcuno ha scritto: se il terrore potesse avere una voce, parlerebbe sardo. Ebbene, C’era una volta in Sardegnarisuona di accenti che trasportano il lettore all’interno dell’isola, direttamente nelle atmosfere sconcertanti che il libro propone. Cosa accade a Solus? E che significato ha la lettera che viene recapitata al protagonista, costringendolo a tornare al paese natio? Ogni episodio crea quel perfetto tassello che, come un puzzle, ricompone la storia, offrendo un quadro che nessuno avrebbe potuto immaginare, se non le vittime e i carnefici. Eppure, nemmeno le vittime, o gli stessi carnefici, avrebbero potuto organizzare una tragedia di così ampia portata. Solus non è quello che sembra e i suoi abitanti nascondono segreti che sarebbe meglio non scoprire. Il vero volto dell’orrore ha spesso connotazioni familiari, fattezze che potremmo riconoscere in chiunque. I morti parlano, la loro voce risuona fra le fronde degli eucalipti, strisciando fra l’erba, oppure intorno ai megaliti di Perdas Fittas. Il destino è sempre in agguato e sceglie le proprie prede con una cura quasi maniacale. E nessuno può considerarsi veramente al sicuro. Giancarlo Ibba tratteggia la storia con quelle pennellate noir che appartengono ai veri maestri dell’horror e lo fa con una tale naturalezza da costringere il lettore avivere la trama. Solus diventerà anche la vostra dimora… e anche voi sarete catapultati nel profondo Sulcis, arrivando a dire:
“C’è qualcosa che non va, qui”.

INCIPIT

Non ho mai amato il mio paese natale e non avevo nessun motivo valido per ritornarci. A parte quell’assurda, maledetta nostalgia, caratteristica dell’emigrato sardo. Dopo vent’anni di lontananza, stuzzicato da una misteriosa lettera, ho mollato tutto quanto e sono rientrato in quello che, fino alla tarda adolescenza, è stato il mio piccolissimo mondo.

Solus non è un bel posto dove nascere, vivere e morire.

La Storia Ufficiale ricorda che è sorto nel 1936, piena Era Fascista, sulle fondamenta di un piccolo raggruppamento di casupole e baracche abitate da pescatori, pastori e contadini. Nel Sulcis li chiamiamo “meraus”. A quei tempi le miniere di carbone attiravano e garantivano un lavoro a migliaia di minatori, impiegati e operai. Così questo sperduto e anonimo villaggio rurale crebbe e diventò un paese. Furono costruite abitazioni degne di tal nome, villette a schiera, case popolari, strade secondarie, scuole, negozi, il mercato, uffici pubblici e una chiesa enorme, degna di una piccola cittadina. Per chissà quale ragione, venne consacrata a San Giorgio, l’uccisore del drago. Quell’imponente edificio di trachite, granito e marmo, affiancato da una torre campanaria a pianta quadra, diventò ben presto l’orgoglio e il vanto dei bacchettoni compaesani.

In pochi anni, il numero degli abitanti superò le tre cifre, che per un paese sardo, in quel periodo, non era cosa da poco.

Fin dal principio sorse un problema: che nome dargli?

La risposta era a portata di mano.

A poche decine di metri dalla Piazza, in un campo incolto dietro la chiesa (non distante dal circolo megalitico diPerdas Fittas), da tempi remoti esisteva un antico pozzo a tunnel di ruvida pietra muschiosa. Un’antica leggenda locale la faceva addirittura risalire all’oscuro periodo prenuragico. Sul suo fondo ombroso, anche in piena siccità, gorgogliava una polla d’acqua salmastra e torbida. In tempi recenti, gli archeologi dell’Università di Cagliari l’avevano classificato come “sito religioso”, presso il quale venivano compiute innominabili cerimonie in memoria di una non meglio identificata divinità pagana. Da sempre, in ogni caso, era nota come “Sa funtana de is Solus”. Dopo un breve ma acceso dibattito, le autorità civili e le persone più ricche della zona, tra i quali spiccava l’architetto Massidda (il proprietario della villa omonima e responsabile del progetto urbanistico), decisero di abbreviare quell’antico toponimo. Così, con la sollecita benedizione del vescovo di Iglesias, il nuovo centro abitato venne battezzato.

Per qualche anno andò tutto bene.

I bambini nascevano con regolarità, i ragazzi studiavano, gli adulti lavoravano, si sposavano e mettevano su famiglia. I vecchi morivano in pace. Il paese sembrava operoso, sano, forte e stabile. Il futuro appariva felice e ricco di opportunità.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale (che da queste parti, come prevedibile, non apportò significativi mutamenti politici, storici o sociali) Solus iniziò a spegnersi. Le miniere di Carbonia e Iglesias, obsolete e antieconomiche, chiusero i loro pozzi uno dopo l’altro. Le fabbriche collegate all’attività estrattiva, e le relative aziende dell’indotto, licenziarono gran parte degli operai. Siccità e malattie flagellarono campagne e allevamenti, portando alla disgrazia braccianti e mezzadri.

A quel punto, la popolazione locale, indigente, affamata e scoraggiata, cominciò a emigrare “in Continente” (da queste parti la Penisola Italiana è sempre definita così) o addirittura in “America” (del Nord o del Sud, stessa cosa). Alla fine di questa diaspora, gli abitanti di Solus si stabilizzarono intorno alle novecento-mille unità. Una buona parte di questi erano: vedove, malati, invalidi civili, di guerra, disoccupati cronici. Il tasso di natalità cominciò a scendere, quello di mortalità a salire. L’unico fattore in costante aumento, oltre alla povertà, era la religiosità della cittadinanza. I ricchi avevano di meglio da fare che pregare. Per fortuna, la chiesa era molto grande.

Le cose non cambiarono molto nei decenni seguenti.

Il cosiddetto “Polo Industriale”, dopo il consueto iniziale entusiasmo elettorale, anziché una “boccata d’ossigeno” per l’economia della zona, rappresentò soprattutto inquinamento, Cassa Integrazione Straordinaria e carcinomi di vario genere.

Insomma, come è facile intuire, Solus non mi è mancato per nulla, in questi due decenni di assenza: è un luogo che mi sta stretto come la camicia di forza di un manicomio.

Infatti, adesso che sono a pochi chilometri dal bivio che separa il paese dal resto del Sulcis, dopo un’odissea di venti ore (tra macchina e traghetto), ho già voglia di andarmene…

È come un brutto presentimento. Lo sento dentro le ossa.

C’è qualcosa che non va, qui.

5 recensioni per C’era una volta in Sardegna

  1. Marina A

    La speranza è morta, l’incubo sorride con denti rossi di follia.

    La Sardegna vive e si nutre di mistero da sempre, e dire che pochi ne conoscono il lato oscuro è un’osservazione da ritenersi tutt’altro che banale, credetemi. Gli scenari e la desolazione di questa terra amata da molti solo all’apparenza, viene anzi, spesso sottovalutata da una moltitudine ben più misurabile di persone. Una regione che tenta di vivere intrappolata in una bolla, quella dei suoi luoghi ameni contrapposta alle crepe di case cantoniere abbandonate e ingoiate dal tempo, lungo le coste. Il silenzio e l’orgoglio valgono molto più del denaro da queste parti. I cartelli stradali segnano e parlano di ambientazioni ancora selvagge volute e non volute; raccontano i messaggi degli abitanti di minuscole nicchie nascoste tra vicoli stretti. I sardi conoscono il profumo della polvere da sparo forse meglio dei famigerati cow boy del Far West. Anche se non si è sardi lo si comprende: vivere in quest’isola non è per nulla cosa facile.“Esistono miriadi di luoghi difficili”, direte voi! Qui nella Sardegna raccontata da Ibba scopro un mondo ancora diverso, uno scrigno colmato dal terrore e dalla costante della paura. A SOLUS tutto si trasforma: lo stravolgimento dei fatti lascia il lettore di sasso, avvolto quasi a sua insaputa nella trappola di un arcano. Un paese stipato nel buio, illuminato dalla maledizione della polvere strana che annebbia la vista di Serena, una delle protagoniste di questa incredibile storia. L’autore d’altronde mette in guardia il lettore: “Solus non è un bel posto dove nascere, vivere, o morire”. E allora dove vuol portarci Giancarlo Ibba con questo monito? Ve lo dico io: vuole catapultarci in un’oscurità che non ha precedenti, ci invita a perdere l’orientamento nel grigiore che serpeggia sull’asfalto sardo; chi legge si sente sospinto dalla volontà incontrollata a continuare. Conoscerete l’audacia della scrittura, quella che possiede contenuti fuori dal comune. Le parole si insinuano infatti, tra corpi e anime assai differenti fra loro, galleggiano sotto la pelle di questo manoscritto, prendendo le sembianze di un ago che cammina indisturbato nel suo percorso, sino a cucirne e bucarne le pagine. Questo giallo promette un eco, ne sono convinta perché quando un libro è scritto così bene, per forza se ne deve parlare. Io credo che tra queste righe ci sia ben poco di intentato, nulla è lasciato al caso, il trasporto detiene una corrente mistificatrice, complice una dote descrittiva degna dei più grandi autori. Ibba parla di una misteriosa nostalgia che colpisce il protagonista, il quale si ritrova subito a pentirsi di essere approdato in quel luogo sperduto, che annega nell’emarginazione più profonda. Cito testualmente: “La mia mente è già in viaggio, in una sfavillante spirale di colori, che si impastano, risucchiati da un buco nero.” Il verbo tuona, scatenando lampi di emozioni forti, ansie recondite delle quali risulterà faticoso liberarsi. La perdita di conoscenza vi apparterrà, increduli proverete la sensazione di trovarvi in apnea, schiacciati da un lugubre e raccapricciante “Fato Bastardo”, lo stesso che attanaglia la figura di Angelo, nel percepire il gelido bacio della pistola sul collo. Una volta catturato dai rapitori, chiede con una freddezza che fa paura, di essere ammazzato. Già… perché a Solus non si ha neppure timore di affrontare il sentiero del non ritorno: la morte; Angelo non viene accontentato perché c’è ben altro dietro a quelle grate e a quella segregazione… ci sono segreti che nessuno vorrebbe svelare. “Nelle tenebre gli unici rumori furono i loro respiri e lo strofinio delle corde che raschiavano una sull’altra”. Ebbene, in conclusione, C’era una volta la Sardegna trascina con sé una serie di storie incastonate ad arte, sporcate se vogliamo dal passato misterioso dei protagonisti, racconti intrisi di violenza occulta e assurda allo stesso tempo, sconosciuta all’occhio umano. Questo thriller sfodera un ormai consolidato talento, è inutile girarci troppo attorno. Insomma, nulla da eccepire. Un’ultima cosa mi permetto di affermare nel concludere il mio umile parere: C’era una volta… un autore esordiente. Ibba, oggi, (presente indicativo) è diventato un ottimo scrittore.Per chi è amante del genere horror noir e per quei lettori che sentono la necessità di una dose di adrenalina pura.

  2. Claudio O

    Un libro da leggere sottovoce

    Siamo in Sardegna, nella Sardegna più vera, più profonda, dove le maledizioni delle streghe si incrociano con la religione e la modernità. L’autore ha miscelato in questi racconti tutti questi ingredienti, anzi, è riuscito ad aggiungere altri ingredienti che hanno insaporito il tutto e amalgamato i singoli racconti. La penna, per fortuna, non è risucita a trattenere dentro di sè alcune chicche, alcune frasi da poter ricordare ed evidenziare senza timore di errore. Un esempio: “Il sonno della ragione genera mostri e la persistenza della miseria produce la fede. Solus è uno di quei rari luoghi dove le cose coesistono.” Come spiega Ibba alla fine, al contrario di ragione ne ha utilizzata moltissima per poter domare e dirigere la sua incontenibile fantasia a chiudere il racconto con un grande finale a effetto.

  3. Stefano P

    Bravo Giancarlo!

    Ho iniziato a leggere questo libro mentre ero immerso nella lettura di “Per chi suona la campana” di Hemingway, uno di quei testi che non dovrebbero mancare nella vita di un lettore.
    Ebbene, Giancarlo ha fregato Ernesto. O, se preferite, il sottoscritto ha ceduto alle lusinghe letterarie di un autore italiano preferendolo a uno statunitense, pur assicurandovi che non c’è nulla di patriottico in tutto ciò, solo un gusto personale. Ho trovato lo stile di Giancarlo molto più accattivante di quello di uno dei sommi maestri della narrativa. A breve riprenderò a leggere Hemingway, ma questo viaggio nelle tenebre del Sulcis mi ha felicemente catturato. Apprezzo i noir, i thriller, gli horror, i fantasy. Nel libro di Giancarlo son tutti presenti e il suo discorrere lascia trasparire, in mezzo a tutto quel sangue e quel dolore, sprazzi di tagliente ironia e agghiacciante comicità. Come tutti gli scrittori intelligenti sanno fare.
    C’era una volta in Sardegna è un libro assurdo, infarcito di storie assurde. Nel senso buono del termine. E’ proprio la sua assurda irrealtà a sorreggerlo. E lo sorregge bene. Storie come quella di Cervello lasciano basiti e spaesati, così come molte altre all’interno del libro, ma è proprio questa la forza del romanzo, la sua imprevedibile e strisciante follia che gli dà un senso di insperata concretezza. Ben poco di tutto ciò che è descritto può essere considerato verosimile, eppure a Solus può esserlo, non tanto perchè nemmeno Solus esiste, ma semplicemente perchè in qualche buio e umido angolo della Terra certe cose hanno un senso compiuto, certi orrori hanno una loro coerenza, l’errore sarebbe una loro mancanza, ma Giancarlo non ci fa mancare nulla, la sua cupa e fervida fantasia ha creato un vero e proprio luna park per gli amanti del genere.
    Prendete un biglietto anche voi, fatevi un giro di giostra.
    Date un ultimo sguardo al cielo azzurro e lasciatevi trascinare giù nel buio, fuori dal blu dentro al nero.

  4. Elena G

    Un horror fuori dalle righe

    C’era una volta in Sardegna è una raccolta di racconti, uniti in modo originale da un filo conduttore che dà loro una logica e un senso globale. Può darsi che etichettarlo come semplice “horror” sia molto riduttivo, perché è molto di più, quello che vi si trova dentro.
    Veramente splatter sono solo alcuni momenti, in cui è evidente che l’autore si abbandona al macabro e al raccapriccio fin dove riesce a spingersi la sua immaginazione, per il semplice gusto di farlo e, forse, per sfida verso il lettore, del tipo: “vediamo se il tuo stomaco ti permette di starmi dietro fino in fondo”.
    Sono solo momenti, dicevo, perché le vere protagoniste del libro sono le atmosfere e i luoghi malati, insalubri, morbosi e tuttavia sensuali che caratterizzano la cittadina di Solus. Sensuali perché il linguaggio utilizzato è sensoriale, permette al lettore di toccare, odorare, sbirciare da vicino nei recessi di un mondo insano, che tuttavia attrae in modo irresistibile. In questo clima, che si può respirare a pieni polmoni attraverso le parole di Ibba, il dettaglio horror finisce per essere un fatto accessorio, nemmeno poi così rilevante e tuttavia necessario e inevitabile.
    Non è un mondo altro, Solus. È spaventosamente vero e presente. È il confine del nostro mondo. I racconti di Ibba sembrano nascere non solo dalla fantasia, ma da esperienze vissute e sentite di sradicamento, spaesamento, terrore reale, con cui si ha ormai preso confidenza per spirito di sopravvivenza. Sarà per questo che sembrano vissuti nella carne e nella carne del lettore entrano.
    A coinvolgere non è il dettaglio raccapricciante, quindi, bensì l’aria contaminata, come una mal-aria che sale dalle pagine e da cui non puoi fuggire. Non vuoi.
    Il libro finisce. Ritorni alla sanità mentale. E rimpiangi la febbre che ti scuoteva fino a poco prima.

  5. Oliviero Angelo F

    Ogni pagina è una gustosa ciliegia rosso sangue.

    “C’era una volta in Sardegna” è un romanzo e nel contempo anche una raccolta di racconti legati da un sottile filo rosso sangue che alla fine allaccerà ogni pagina in una rivelazione (“apocalisse”) finale che darà, appunto, una spiegazione ai molteplici incubi offerti sapientemente al lettore da un bravissimo Giancarlo Ibba.
    Questo romanzo è ambientato in un fantomatico paese del sulcitano, Solus, ed è la stessa ambientazione di un’altra opera dello stesso autore, “L’alba del sacrificio”, e ne è infatti sequel/spin off. Aver letto, o leggere, anche “L’alba del sacrificio” agevola la comprensione di alcuni passaggi ma questo non toglie che anche senza questa lettura il romanzo “C’era una volta in Sardegna” sa vivere benissimo di vita propria, in tutte le sue oscurità e in ogni brivido che vi verrà elargito alla lettura ed è godibilissimo fine a sé stesso. Ritrovarsi ogni volta con più domande che risposte è proprio la molla vincente e avvincente che vi farà fagocitare senza respiro ogni pagina del libro.
    La sinossi è nota: il protagonista riceve una misteriosa lettera anonima che lo esorta a tornare al suo vecchio paese. Solus più che un paese è uno stato mentale di alienazione e degrado, di ombre e striscianti sussurri. Il protagonista appena entra in Solus scopre che il paese è un paese abbandonato, fantasma. Cosa è davvero successo alla popolazione di Solus? Attraverso un riuscito “escamotage” di transizioni in universi paralleli vivrà episodi che hanno coinvolto molti degli abitanti di Solus in prima e terza persona. Episodi apparentemente slegati tra loro con in comune l’orrore, la morte e la follia. Ogni racconto/ viaggio mentale viene sapientemente legato al successivo dalla voce pensante e narrante del protagonista e tutti contribuiscono all’universo letterario e spaventoso di Solus.
    Solus come il “Derry” di “IT” di Stephen King e molte citazioni si rifanno proprio al “grande logorroico del Maine”. Un gioco nel gioco, per gli amanti del genere e dell’autore King. Ibba, per sua bravura e originale ed intensa capacità narrativa, non sfigura assolutamente nel paragone che può sorgere alla lettura, anzi, sa creare un clima oscuro altamente credibile in quest’angolo di Sardegna e più che i particolari horror e splatter delle varie storie rivissute tramite il protagonista, ad inquietare è proprio il clima e il male che incombe come una cappa su Solus togliendo ossigeno alla razionalità di chi incapperà in questo universo letterario.
    Ibba è un autore che come pochi altri riesce a non farmi smettere di leggere a cuore leggero e ogni sua pagina è come una gustosa ciliegia che ne chiama al seguito subito un’altra. Una ciliegia rosso sangue. E alla fine del libro il sollievo di ritornare in realtà più comode e addomesticate è sempre irrimediabilmente contaminato dal dispiacere di aver terminato il libro stesso. Va da sé che “c’era una volta in Sardegna” è un libro che consiglio fortemente agli amanti del genere horror e non solo, perché una storia scritta bene non ha prezzo. Al prossimo romanzo, allora, grande Giancarlo Ibba!

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