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2° Puntata

Un metro. Doveva decidersi o avrebbe perso l’opportunità. Lucio continuò a camminare, preparandosi a scattare. Valutò di prendere a sinistra, dove gli alberi erano più fitti.

Al diavolo! Ci provo!

Ancora due passi e lo scarpone toccò il filo collegato con la spoletta della granata fumogena. Il dispositivo di sicurezza scivolò via dall’asola e, immediatamente, una striscia di fumo bianco iniziò a uscire accompagnata da un sibilo. Tutti furono colti di sorpresa e Lucio ne approfittò per scattare a sinistra. L’uomo con la barba inquadrò la schiena del fuggitivo nella tacca di mira della propria pistola.

«No, Marco!» lo fermò Leone. «Vai a prenderlo!».

Lucio correva a perdifiato muovendosi a zig zag in mezzo agli alberi, senza mai voltarsi per non rallentare la propria disperata fuga. Si aspettava da un momento all’altro di sentire dei colpi di pistola e il dolore, improvviso e lancinante, di un proiettile nella schiena, ma per qualche ragione tutto ciò non accadeva ancora. Il rumore di passi alle sue spalle gli faceva capire che qualcuno lo stava inseguendo. Il fatto che non gli avessero ancora sparato gli diede un po’ di speranza e una scarica di rinnovata energia: probabilmente lo volevano prendere vivo.

«Fermo o sparo!» intimò l’inseguitore.

Col cavolo!, pensò Lucio continuando a correre. Dopo pochi secondi, raggiunse un punto in cui gli alberi si diradavano. Non aveva una direzione precisa su cui puntare, l’importante era seminare l’inseguitore. D’un tratto, la punta rinforzata del suo scarpone agganciò una radice sporgente e in un attimo si ritrovò a ruzzolare per terra, senza la possibilità di proteggersi per via delle mani legate dietro la schiena. Finì la sua corsa in mezzo a un mucchio di foglie marce. Marco lo raggiunse poco dopo, con un lieve accenno di fiatone. Gli sferrò un violento calcio allo stomaco che gli tolse il fiato.

«Dove credevi di andare, eh?»

L’aguzzino fece rialzare il prigioniero senza troppe cerimonie, poi gli spinse con rabbia la canna della pistola sotto il mento. «Vedi di non fare altri scherzi o ti faccio un buco in faccia!»

Una decina di minuti più tardi, il gruppo raggiunse la meta.

La piccola Las Vegas, pensò Lucio, mentre trascinava gli scarponi lungo una strada dissestata. Così era stata soprannominata Consonno negli anni Settanta, prima che una enorme frana sull’unica via di accesso segnasse la fine del suo breve periodo di fama e gloria. Mezzo secolo dopo, tuttavia, le rovine di quell’epoca d’oro erano ancora visibili, tra il degrado degli edifici principali, le macerie, la triste vegetazione che si riprendeva il suo spazio e la natura che s’infiltrava in ogni costruzione artificiale. Preoccupato dalla piega presa dagli eventi, Lucio alzò gli occhi dall’asfalto e batté nervosamente le palpebre. Tra tutte le strutture, quella che spiccava di più era l’edificio noto come “il Minareto”. La sua guglia bulbosa si stagliava ancora, alta e fiera, contro le nuvole di un cielo livido come un brutto ematoma. Nonostante la pioggia, l’aria nelle strade vuote di Consonno odorava di polvere e decadenza. Il contrasto con il profumo fresco del sottobosco era netto: era come uscire il pomeriggio dall’asilo e tornare a casa la sera dai nonni.

Le cupe riflessioni di Lucio vennero bruscamente spezzate da una voce secca e autoritaria che riecheggiò tra le mura scrostate, i vicoli ombrosi e le finestre rotte della cittadina abbandonata. Dopo alcuni minuti, trascorsi in una specie di alienata rassegnazione, Lucio tornò improvvisamente lucido e concentrato sul presente.

«Muovete quei cazzo di piedi!» tuonò Leone, fermandosi proprio sotto lo svettante Minareto. Teneva i pollici agganciati alla cintura, in una aggressiva posa militare. Guardò verso la porta sventrata che conduceva nelle viscere della grande costruzione, dove un tempo erano ospitati diversi negozi. «Marco, Franco! Portate lì dentro questi cazzari con le pistole finte. Voglio interrogarli al coperto, senza il rischio di prendermi un malanno». Poi si rivolse agli altri due scagnozzi. «Voialtri state qui fuori di guardia, casomai si facesse vivo qualche altro giocatore di softair o, peggio, uno di quei coglioni a caccia di fantasmi».

Spingendo sgarbatamente i prigionieri con le canne delle loro armi, Marco e Franco eseguirono l’ordine.

«Ehi!» protestò Dino, quando il mirino gli pungolò la schiena. «Cosa volete farci?».

Giulio tentò di ribellarsi e piantò i piedi per terra come un mulo. «Non potete trattarci così!».

L’uomo alle sue spalle, quello di nome Franco, gli piazzò una forte manata sul collo, facendolo piegare per il colpo. «Finiscila di rompere le palle! Non è più un gioco. L’hai capito o no?» ringhiò.

«Bastardi!».

Seppur con le mani legate dietro la schiena, Lucio scattò nella sua direzione dell’amico per soccorrerlo. Gli altri due sgherri di Leone gli si piazzarono davanti. Bastò la loro imponente mole da marcantoni per farlo desistere. Si fermò all’istante, scivolando con le suole sullo strato di foglie marce e limo che ricopriva l’asfalto. Demoralizzato, rivolse uno sguardo rabbioso verso il loro comandante.

Sorridendo, Leone sfilò i pollici dalla cintura e sollevò il mento squadrato. «Credi di impressionarmi?» disse. «Ho sepolto gentaglia ben più pericolosa di te».

Udendo quelle parole, i quattro prigionieri ammutolirono. Tra tutti, quello più terrorizzato era sempre il giovane Gioele: il suo sguardo ricordava quello di un bambino dentro la casa degli orrori del Luna Park.

«Dentro, adesso!» abbaiò Leone, avviandosi. «Voi quattro stronzi mi avete fatto perdere già troppo tempo»,

Mentre un vento ghiacciato iniziava a soffiare tra le vestigia di Consonno, il silenzioso gruppo entrò in fila indiana nell’ombra dell’edificio puzzolente di muffa e, dopo un paio di svolte, attraversò le porte di un vecchio negozio di abbigliamento femminile. La coppia di gorilla era rimasta fuori, di guardia, sotto la pensilina.

Nonostante gli effetti dell’abbandono, all’interno del negozio il tempo sembrava essersi fermato. Proprio davanti all’ingresso c’era il bancone delle casse, ridotto ormai a un ammasso di legno infestato dalle tarme; a sinistra alcune vetrate, oscurate dalla sporcizia accumulata nei decenni e da ragnatele di crepe intorno ai buchi frastagliati prodotti dai sassi lanciati dai ragazzini annoiati. Quelle pietre giacevano ancora sul pavimento ricoperto di fango secco, lattine di birra e involucri di merendine. Sul lato destro si apriva un vasto locale, basso e scuro come una caverna, da cui emergevano le inquietanti sagome di alcuni manichini nudi. Congelate in pose innaturali, quelle calve e grigie figure spettrali, assomigliavano a cadaveri congelati.

«Molto bene!» esclamò Leone, sfregandosi le mani. «L’atmosfera qui dentro è quella giusta!».

Udendo quella voce tonante, i nugoli di topi nascosti nel controsoffitto fuggirono, lasciandosi dietro una pioggerellina di polvere e il rumore delle unghie che grattavano freneticamente il cartongesso. Gioele rabbrividì.

«Franco, prendi un paio di sedie dietro il bancone e portale qui. Facciamo accomodare i nostri ospiti» ordinò Leone, strizzando gli occhi nella penombra. Fuori dal negozio, la pioggia scivolava leggera sulle finestre, producendo un suono simile a quello dei topi in fuga.

Muovendosi con rapidità, Franco fece come gli era stato ordinato, trascinando due sedie e piazzandole una di fronte all’altra. Nel frattempo, con la pistola minacciosa di Marco puntata addosso, i prigionieri si guardarono intorno con espressione tesa e preoccupata. Il negozio era stato razziato e vandalizzato e tuttavia, oltre ai pallidi manichini, nei cubicoli degli spogliatoi e tra le scaffalature vuote c’erano accumuli di spazzatura non identificabile. Con un paio di falcate decise Leone si avvicinò a quello più vicino, si piegò sul ginocchio e vi frugò dentro con energia. Dopo qualche secondo, trovò qualcosa che lo fece rialzare con una smorfia soddisfatta.

Intanto che l’uomo si riavvicinava, Lucio notò che teneva nella mano destra un lungo pezzo di cordino lercio.

Un legaccio per degli stivali da donna, ipotizzò, deglutendo a fatica.

Nella sinistra, invece, stringeva lo stilo vuoto di una penna a sfera.

Che intenzioni ha? pensò, lanciando un’occhiata ai suoi compagni di disavventura. Dino pareva voler cercare di rassicurare con lo sguardo Gioele, Giulio ostentava invece un atteggiamento di sfida.

Per nulla intimidito, Leone si diresse proprio verso i due fratelli. Indicò le sedie di plastica sbiadita. «Sedetevi!» ordinò.

«Vi prego, lasciateci andare» supplicò Dino.

«Liberateci! Questa pagliacciata è durata già troppo!» aggiunse Giulio, di nuovo sprezzante.

Rigirando il cordino e la penna tra le dita pelose, Leone ridacchiò. «Ah, sì?».

Poi fece un cenno con il mento ai suoi aiutanti. Senza esitare un attimo, quegli energumeni iniziarono a tempestare di calci e pugni gli inermi Gioele e Lucio. L’improvvisa gragnuola di colpi scatenò un concerto di lamenti di dolore. Lucio, ritrovatosi steso sul pavimento lercio, si rannicchiò in posizione fetale nel tentativo di proteggere gli organi vitali, seppur limitato nei movimenti dai polsi bloccati dietro la schiena. Franco e Marco infierirono su lui e Gioele con le punte rinforzate degli scarponi. I tonfi sordi dei colpi inferti riecheggiarono tra le lunghe corsie marcescenti del negozio.

«Basta! Basta!» urlò Dino, sputando saliva. «Falli smettere!».

Leone si grattò il mento. «Smetteranno quando voi metterete il culo su quelle sedie» replicò.

«Va bene, va bene!» sbottò Giulio, correndo a sedersi. La plastica logora scricchiolò sotto il suo peso. Il fratello lo imitò pochi istanti dopo, con gli occhi che bruciavano di rabbia e lacrime.

«Soddisfatto ora?» domandò il fratello maggiore.

«Abbastanza» disse Leone, alzando una mano per fermare la furia dei suoi uomini.

Tra gemiti e lamenti, pieni di lividi, Gioele e Lucio si contorcevano sulle mattonelle come vermi infilzati su un amo. La coppia di aguzzini, come se niente fosse, li osservò rintanarsi contro il bancone per leccarsi le ferite.

«Per un po’ questi scemi non romperanno più le scatole» osservò Marco.

«Meglio così» commentò Leone, annodando insieme le due estremità del laccio. «Ultima possibilità: voglio solo sapere dove avete nascosto Bassich. Non ce l’ho con voi, credetemi, ma vi farò molto male se non vi decidete a parlare. Quando mi ci metto, so essere davvero un sadico figlio di puttana».

Nella penombra del negozio, Dino e Giulio si scambiarono un rapido sguardo d’intesa.

Il dettaglio non sfuggì all’attento Leone. «D’accordo…» disse, dopo un breve sospiro di rassegnazione. «L’avete voluto voi». Poi, si rivolse al più silenzioso dei suoi scagnozzi. «Franco, sai cosa fare».

L’uomo annuì, fece un paio di passi e colpì Gioele alla testa con il pesante calcio della pistola. Urlando per il dolore, il ragazzo rotolò di nuovo sul pavimento, scalciando la sporcizia.

Impassibile, Franco gli restò addosso e gli premette la canna della pistola dritta sulla nuca.

«No!» strillò Dino. «Loro non c’entrano! Lasciateli stare!».

A quell’uscita, Lucio restò sbalordito. Che cosa significa? Allora sanno davvero qualcosa?

Rimanendo in silenzio, Leone camminò lentamente intorno ai due fratelli. «Va bene, mi sembra giusto» disse a un certo punto, annuendo. «Siete voi a dovermi rispondere, però non mi sembrate molto collaborativi. Temo che ci sia bisogno di metodi più persuasivi e a questo proposito mi è appena venuta in mente un’idea simpatica. La volete sapere?».

La domanda non ricevette risposta. Leone mostrò un’espressione dispiaciuta. «Ok, non lo volete sapere, ma ve lo dico lo stesso. Farò decidere al vostro amico con chi dovrò cominciare tra voi due».

La fronte coperta dai radi capelli fradici di pioggia e sudore, Lucio sgranò gli occhi e smise di contorcersi. «Cosa?» domandò, con voce tremante.

Franco gli spinse con forza la canna della pistola contro il retro del collo, costringendolo ad abbassare il capo.

«Hai capito benissimo, coglionazzo» sentenziò Leone, alzando il polso sinistro. Fissò le lancette del suo orologio, un costoso Traser H3 Pathfinder. «Voglio che decidi con chi devo prendermela. Se non mi dai un nome entro dieci secondi, ti farò male, così tanto male che mi pregherai di ucciderti. Che te ne pare? Non ti sembra un gioco più intrigante di quelli che fate solitamente?».

Con le lacrime che gli scorrevano sulle guance, scavando solchi rosa sulla pelle sporca, Lucio spostò lo sguardo attonito prima su Gioele e poi sui due fratelli, ora ammutoliti. Nascondevano qualcosa, ormai era chiaro.

Tuttavia, scegliere chi di loro dovesse essere torturato non era affatto facile.

«Cinque secondi» annunciò Leone.

Lucio deglutì a secco. Una cosa era certa: quel tizio non stava bluffando.

Scelta 1: Lucio non prende nessuna decisione.

Scelta 2: Lucio indica uno dei suoi amici.

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