Una volta ancora

16,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Paolo Galimberti

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-364-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Paolo vuole solo lasciarsi alle spalle l’errore che l’ha condotto a una situazione famigliare complessa, tuttavia non è possibile cancellare gli sbagli con un colpo di spugna, perché questi il più delle volte celano insidie. Ci vuole forza, coraggio e pazienza. Ma è l’amore di Hellen, sua moglie, a dargli fiducia, che pur amareggiata lascia aperta una porticina nel suo cuore dalla quale Paolo dovrà cercare di rientrare. Gli eventi e la perfidia di Lin fanno precipitare la situazione proprio quando pare stia tornando alla normalità. Il timore di Paolo di perdere la fiducia di tutta la famiglia diventa grande e accresce ogni giorno che passa. Nel momento più cupo e doloroso della sua vita, già segnata da gravi perdite, quando ogni speranza pare inesorabilmente crollare dando persino un dolce volto alla morte, accade ciò che mai avrebbe osato immaginare. C’è però ancora tanta strada da percorrere per sentirsi di nuovo un uomo libero e amato, ma ora il tempo, lo scandire delle ore nelle giornate, a Paolo non fanno più paura.

INCIPIT

Stava seduto in veranda con la tazzina del caffè ancora fumante e osservava Hellen attraversare il giardino, oltrepassare il gazebo in ferro battuto e scomparire nel declivio che portava ai vigneti. L’ordito in seersucker celeste a corte maniche, cappello di paglia a larghe tese per ripararsi dai caldi raggi del sole e piedi infilati in stivali in gomma verdi e bassi. Il movimento sinuoso del corpo e il lieve rollio delle anche. Anche adesso che era scomparsa ormai da qualche minuto, l’immagine di sua moglie era vivida più che mai. Proprio quella camminata lieve ed elegante di lei, insieme alla bellezza dirompente che l’aveva conquistato ai tempi dell’università, a Siena. Gli tornò alla memoria quella fredda e piovosa giornata di venticinque anni prima, e si stupì di non averla ricordata altre volte in tutto quel tempo. Non c’era motivo per non aver riavvolto il nastro; non l’aveva semplicemente mai fatto.

Il sei novembre, un giorno uggioso e freddo. Pioveva ormai da tre giorni di continuo, e in alcune zone della Toscana e della Liguria l’acqua aveva causato allagamenti. Hellen era sua compagna di corso alla facoltà d’ingegneria, e di tanto in tanto Paolo, si sorprendeva a osservarla mentre prendeva appunti con il capo ricurvo e i lunghi capelli biondi raccolti in una coda adagiati morbidi sopra una spalla. Erano usciti nel pomeriggio, quando la pioggia aveva aumentato l’intensità. Gli ultimi, l’ateneo si era già svuotato. Hellen aveva temporeggiato dentro l’aula, e quando era uscita si era accorta che il suo ombrello era sparito. Purtroppo per lei non ce n’erano altri da poter prendere così come qualcuno aveva fatto col suo. Aveva aperto la borsa dove abitualmente ne teneva uno piccolo col manico a scomparsa ma non c’era. Probabilmente l’aveva tolto e si era scordata di rimetterlo all’interno. Si sarebbe presa una bella lavata nei quindici minuti per arrivare a casa ma non aveva alternative: tutte le sue amiche erano già andate.

“Be’, non fa niente, vorrà dire che mi farò una doccia fredda per strada e una calda quando arriverò a casa” aveva pensato.

Era uscita in fretta cercando di ripararsi la testa con la borsa.

La pioggia scrosciava rimbalzando in zampilli fluorescenti per la luce che filtrava dalle nubi un po’ meno minacciose, ma ancora non esauste. Si era avviata a passo spedito quando Paolo l’aveva scorta. Era intento a parlare con un loro compagno sulla teoria della relatività generale. Lui già non stava ascoltando e nemmeno gli interessava ciò che aveva teorizzato Albert Einstein. Un saluto veloce al veneratore del Genio e poi via per cercare di raggiungerla in fretta, prima che s’inzuppasse completamente. Non era stato facile agguantarla, aveva gambe lunghe e veloci; con la mano destra teneva sempre la borsa sopra la testa: Paolo correva per arrivarle al fianco raggiungendola a piazza del Campo, oltre la torre del Mangia.

«Vuoi un passaggio?»

Lei lo aveva guardato qualche istante prima di rispondere. Si era chiesta perché non si fosse mai avvicinato prima. I loro sguardi si erano incrociati decine di volte parlandosi con gli occhi. L’assenza di una risposta immediata l’aveva fatto intimorire, ma continuava a camminarle al fianco riparandola dalla pioggia scrosciante.

«Non è una cattiva idea… grazie!»

Aveva tolto la borsa fradicia dal capo mettendola a tracolla: almeno i capelli erano stati risparmiati dalla furia dall’acqua.

«Come ti è sembrata oggi la lezione?» aveva chiesto Hellen.

«Pesante. Credo che sia stata una delle più impegnative di quest’anno, però sono riuscito a comprenderla.»

«Io non molto, a dire il vero.»

«Se ti fa piacere posso spiegartela» aveva buttato lì, il cuore che accelerò un tantino.

«Va bene, nel tardo pomeriggio. Se ti va possiamo fare a casa mia, altrimenti potremmo andare in qualche bar poco chiassoso.»

Avrebbe preferito a casa, sarebbe sicuramente stato meglio e più tranquillo. In un posto pubblico, anche se poco affollato, le distrazioni non sarebbero mancate. Tuttavia, gli era sembrato opportuno non dover decidere lui il posto.

«Lascio a te la scelta!»

«Allora facciamo a casa, saremo più tranquilli senza nessun rumore.»

Erano arrivati sotto il portone di una bella ed elegante palazzina di tre piani, mentre la borsa gocciolava ancora e il cappottino corto di cardigan era tutto zuppo. Paolo la stava guardando rendendosi conto di quanto fosse bella. Appariva incerta e risoluta, fragile e forte, delicata e rocciosa nello stesso tempo. Aveva voglia di stringerla per darle un poco del suo calore, quando la vide agitare leggermente le labbra per il freddo che le era penetrato addosso.

«Sarà tutto fradicio… lì dentro» aveva detto lui indicando la borsa.

Hellen aveva scrollato il capo facendo una risatina breve, specificando: «Non contiene nulla che non si possa asciugare. Cose che noi donne teniamo solitamente ma di poco conto. Gli appunti di oggi li ho salvati in una busta di plastica.»

«Allora, a più tardi.»

Era scomparsa oltre il portone ringraziandolo di nuovo, mentre lui si era incamminato con l’immagine di lei, bagnata e infreddolita.

Diede l’ultimo sorso di caffè ormai freddo e appoggiò la tazzina sul tavolo della veranda, poi si diresse al SUV parcheggiato nel retro della loro tenuta per tornare al lavoro. Prima di salire in macchina, cercò di scorgere Hellen nella parte pianeggiante di vigneto, quella che si estendeva a lungo oltre il declivio, ma probabilmente si era fermata prima e non la vide.

Era già passata una settimana da quando le aveva confessato d’averla tradita. E da quel giorno Hellen aveva deciso di rimanere in silenzio, ma allo stesso tempo gli aveva permesso di restare in quella casa, per i loro figli, e per quello che nonostante tutto provava ancora per suo marito.

A Parigi era successo quello che non avrebbe mai dovuto far accadere. La sua ditta, la LEM INCORPORATE ELECTRONICS Inc con sede centrale a New York e filiali sparse nel mondo, aveva organizzato l’ultimo congresso all’Hotel Four Seasons di Parigi. Come sempre i vertici non badavano a spese per i loro collaboratori, quindi la scelta cadeva sempre in città importanti e hotel lussuosi.

Paolo aveva preparato la relazione con molto anticipo. Era consapevole che la LEM considerava la sede italiana di Montevarchi il fiore all’occhiello fra tutte quelle sparpagliate nel globo. LEM, stava per Lincoln, Emilton, Ming Zen Chu, i tre fondatori. L’unico ancora in vita era Lincoln Evangelis Trevis, i due soci erano periti in un incidente aereo avvenuto venticinque anni prima. Il piccolo monoelica privato, partito dall’hub di Detroit, si era schiantato a terra subito dopo il decollo. Dall’ammasso di rottami erano stati estratti i corpi dei due soci e del pilota. Mai furono stabilite le vere cause dell’incidente, oltretutto l’aereo aveva da poco effettuato la manutenzione. Le voci che da sempre circolavano, erano che Lincoln Evangelis Trevis avesse eliminato i suoi soci in affari proprio quando la LEM era entrata in borsa, e le sue azioni erano schizzate alle stelle portando moltissimo denaro nelle tasche dei tre soci. Paolo, come la maggior parte dei dipendenti della multinazionale, non ci aveva mai creduto e, d’altronde, nessuna prova, nemmeno la più piccola, era mai stata trovata.

Quella mattina, nella sala breakfast dell’hotel, Paolo aveva fatto una colazione leggera insieme ai suoi due colleghi ingegneri, Sebastiano Cancellieri, suo braccio destro da sempre, e Lin Anastasi, una stupenda collaboratrice italo-coreana arrivata da sei mesi in Italia, dopo una gavetta durata anni nella sede di Giacarta.

Seduti al tavolo dove al centro era posizionato un cartoncino stampato a lettere ben visibili: LEM INCORPORATE ELECTRONICS Inc ITALY, avevano ordinato cappuccino, croissant ripieni di marmellata d’albicocche, spremuta d’arance e una fetta di crostata alle mele. Paolo si era chiesto se i due avessero ordinato le sue stesse cose semplicemente perché avevano gli stessi gusti o per un’altra forma di strano rispetto. Lin stava raccontando la sua esperienza dei sei anni trascorsi a Giacarta, mentre Paolo non l’ascoltava. Era intento a ripassare mentalmente la relazione che da lì a poco avrebbe letto davanti a una cinquantina di persone, compreso Lincoln Evangelis Trevis. C’era un solo punto che non lo convinceva, e non riusciva a modificare quelle poche righe nonostante ci avesse provato più volte.

«Ci sono dei mesi durante l’anno che il caldo, sommato all’umidità, non dà tregua nemmeno la notte. L’Indonesia è molto bella, a tratti selvaggia, tuttavia non l’ho mai sentita come la terra dove mettere le radici. Nei laboratori dove lavoravo ovviamente c’era l’aria condizionata, ma nel capannone gli operai avevano a disposizione solamente dei grossi ventilatori appesi sopra le loro teste: non facevano una gran vita» raccontava la ragazza.

«Deve essere una città molto affascinante Giacarta» aveva osservato Sebastiano.

«È una città ipocrita. Si vede la ricchezza eccessiva e, spostandosi di pochi chilometri, la povertà assoluta. Intere famiglie che vivono in baracche e bambini che frugano tra i rifiuti nelle discariche a cielo aperto. È cresciuta così in fretta che quasi un terzo della popolazione non ha di che sfamarsi.»

«Be’ sono le contraddizioni del nostro tempo, chi troppo e chi nulla» aveva continuato lui, mentre Paolo sembrava assorbire meno di una sillaba. «Concordi?» aveva terminato Sebastiano, rivolgendosi proprio a lui.

Lo aveva guardato per qualche istante senza rispondere, poi: «Scusa! Non vi stavo seguendo, ero intento a ripassare mentalmente la relazione.»

«Giacarta… Lin stava raccontando di quando viveva là.»

«Sono d’accordo con lei. Dev’essere terribile il caldo subtropicale.»

Lin stava giochicchiando, girando nelle dita della mano l’elegante cucchiaino d’argento e per poco non gli aveva riso in faccia. Avevano parlato di ricchezza e povertà, di bambini che passavano la giornata a frugare tra i rifiuti delle discariche di una metropoli dalle mille facce e lui era riuscito a fare un commento soltanto sul clima!

«Sì, il clima spesso è veramente terribile.»

Avevano ordinato anche tre caffè prima di avviarsi verso la sala congressi con largo anticipo. All’interno della sala c’erano sì e no una decina di persone a gruppi che stavano chiacchierando. Paolo aveva estratto la mappa che gli era stata consegnata la sera precedente con l’indicazione dei posti a sedere. Ricordava che la fila era la seconda, ma non ricordava l’ordine: i tre nella fila di destra spostati di due verso l’esterno. Guardando la mappa aveva sorriso e pensato che nel congresso precedente erano stati messi nelle ultime file. I posti venivano assegnati casualmente ogni volta. Si era seduto con la relazione tra le mani per leggerla di nuovo e cercare quella modifica difficile da trovare. La sala via via si riempiva di persone fino a completarsi. Anche Lin e Sebastiano si erano seduti. Per ultimi erano arrivati i vertici a sedere nel palchetto rialzato, mentre alle loro spalle lentamente scendeva uno schermo candido. Salutando tutti, come di consueto aveva iniziato Lincoln Evangelis Trevis Junior, primogenito del padrone nonché primo azionista. Mostrava sempre un certo impaccio nelle fasi iniziali del discorso. Le sue guance diventavano color cremisi e poi tornavano naturali durante l’intervento, quando prendeva confidenza con le parole. La sua relazione non era stata null’altro che una breve sintesi delle ultime novità elettroniche e dei componenti aggiunti, oltre ai complimenti a tutti per il lavoro svolto. Non aveva mancato di mettere una parentesi sulla filiale italiana che si occupava di fornire alta tecnologia alla NASA.

«È sempre un piacere poter contare sulla competenza di tutti voi e di quelli che sono a casa, il cui contributo è ugualmente prezioso. Da quando la Lincoln, Emilton, Ming Zen Chu INCORPORATE ELECTRONICS Inc è nata, nel lontano millenovecentosessantadue, sono stati fatti passi da gigante. Uno degli uomini che l’hanno fondata, come ben sapete, è qui seduto alla mia destra.» “Adesso arriva la parte patetica” aveva pensato Paolo. «Gli altri due purtroppo non sono più tra noi da molto tempo, ma noi, noi tutti, li ricordiamo con infinito affetto, perché hanno contribuito a rendere grande la nostra azienda. Nonostante la crisi che sta mordendo l’America, l’Europa, l’intero globo, la nostra azienda ha portato a casa un utile di 150 milioni di dollari in più rispetto all’anno precedente. Questo grazie a voi, a tutte le filiali che lavorano con estrema competenza e professionalità. D’altronde, siamo andati nel corso degli anni a scegliere le teste migliori del nostro settore.» Si era alzato un lieve mormorio di approvazione da parte delle cinquanta persone presenti: dodici donne e trentotto uomini. «Concludo ringraziandovi e lascio la parola ai rappresentanti di ogni filiale, iniziando da quella di Hong Kong.»

Le relazioni venivano lette in lingua inglese, senza ausilio di traduttori. Questa era un’altra prescrizione dei vertici, perciò il direttore della filiale, se voleva rimanere tale, aveva l’obbligo d’imparare la lingua. Anche Paolo, che non aveva una buona conoscenza dell’inglese, si era dovuto arrangiare: corsi in Italia e per tre anni ferie a Londra. Ora era padrone della lingua anglosassone e si esprimeva bene.

Dopo un leggero brunch consumato verso mezzogiorno, era arrivato il momento di leggere la relazione. Quando si era alzato per portarsi al centro del palchetto, Lin gli aveva dato due colpetti alla gamba per incoraggiarlo, mentre il suo braccio destro Sebastiano col pollice alzato sorrideva. Era un po’ teso, ancora stava pensando al punto dello scritto che non lo convinceva, ma ormai non c’era più tempo per modifiche. Parlava, mentre alle sue spalle, sul grande schermo, scorrevano le immagini fisse che un ragazzo in fondo alla sala cambiava a un suo cenno del capo. Si era sentito un lieve mormorio quando allo schermo era comparso il primo piano di Lin, che teneva tra l’indice e il pollice, vicino al viso, la loro ultima creazione: una piccola scheda elettronica fatta con materiali innovativi, capace di resistere alle basse e alte temperature. I tratti somatici di Lin: un mix tra l’oriente e l’occidente mediterraneo; una rara bellezza, oltreché dotata di un cervello notevole.

Mentre leggeva, consapevole dell’immagine alle sue spalle e dopo aver sentito il lieve brusio, l’aveva guardata, ricambiato da un bel sorriso di lei.

«Quella che tiene in mano la nostra preziosa collaboratrice, Lin, è l’ultimo ritrovato del nostro staff. La chiamiamo affettuosamente la mamma. Essa è in grado di far funzionare e controllare nel suo complesso un intero sistema operativo. Oltre alla grande resistenza al caldo, al freddo e alle sollecitazioni meccaniche, è stata migliorata anche nelle componenti principali che sono più affidabili e resistenti delle precedenti.» Una brevissima pausa perché adesso arrivava il punto che tanto poco lo aveva convinto. «Dopo averla perfezionata, l’abbiamo testata per tre mesi in condizioni estreme. Appena smontato, ogni singolo pezzo ha subito un’analisi minuziosa per verificarne l’usura. Nessuna delle schede precedenti aveva resistito a un trattamento così violento. Questa, che abbiamo denominato 3pN-plus, ha passato indenne i tre mesi di test oltre il limite e, dalle analisi fatte, nessun componente risulta aver subito danni: sembrano tutti esattamente come nuovi.» Un’altra breve pausa per bere un po’ d’acqua da un bicchiere in cristallo posato su un piattino d’argento, mentre in sala si era levato un nuovo borbottio. «Ovviamente, per raggiungere questo risultato ci sono voluti anni di duro lavoro e di insuccessi frustranti, ma il mio meraviglioso gruppo, composto da dieci ingegneri incredibilmente testardi, è riuscito a portare a compimento l’ambizioso progetto. Tuttavia, lavorando quasi esclusivamente per la NASA, non possiamo che dare il meglio, ed è per questo che ci sentiamo una grande e operosa famiglia.» Aveva finito, ma prima di lasciare il palco aveva bevuto ancora. La tensione gli seccava la gola.

L’applauso partiva lecito per tutti gli interventi, mentre Lincoln Evangelis Trevis dava luogo a un cenno affermativo continuato.

Il congresso era stato più lungo di quelli precedenti, finendo alle quattro del pomeriggio, e sui volti di molte persone si poteva notare un principio di stanchezza. La chiusura come sempre spettava a lui: Lincoln Evangelis Trevis, che aveva ringraziato e puntualizzato che il successo dell’azienda era merito di tutti.

Erano usciti dalla sala congressi per andare in un locale più piccolo ma estremamente elegante. Appesi alle pareti decorate a stucco veneziano quadri antichi finemente incorniciati, tende e tendoni in elegante velluto e lastroni in marmo di Carrara posati a terra. Poi i colori e l’allegria dei fiori messi dappertutto, una colorata distinzione dell’hotel. Un lungo tavolo ricoperto da una tovaglia rosa era stato allestito per l’aperitivo e due camerieri li attendevano. Paolo parlava con Lincoln Evangelis Trevis Junior, suo padre e un paio di soci azionisti ricchi sfondati, che però capivano poco o nulla dei discorsi. Sperava di liberarsi in fretta, voleva sentire Hellen, lo faceva sempre al termine di ogni congresso, ma non poteva abbandonare i discorsi. Stufo, con una scusa ingegnosa era riuscito a liberarsi e uscire dall’hotel per fare quattro passi all’aria calda di luglio e finalmente chiamare. Al quinto squillo la moglie aveva risposto. Paolo le aveva raccontato brevemente com’era andata e chiesto se tutto andava bene e come stava Luke, il loro terzogenito. Il giorno prima, quand’era partito per Parigi, il bambino aveva un po’ di febbre. Non molta, a dire il vero, ma Paolo era apprensivo come non lo era mai stato con le figlie più grandi, Sandra, di vent’anni, ed Eleonora di quindici. Lei gli aveva riferito che tutto andava bene e che il bambino si stava sfebbrando, non aveva motivo di preoccuparsi.

«Il volo parte domani in mattinata, dovrei essere a casa nel primo pomeriggio. Ti amo, Hellen.»

1 recensione per Una volta ancora

  1. Claudio O

    La forza di una vera famiglia

    Cerco di capire quale sia il protagonista di questo romanzo ma non riesco a levare a tale ruolo alcuno dei personaggi. Ecco, è la famiglia a primeggiare, l’unione, il matrimonio, quello vero. Non quello che si svolge in chiesa o in comune di fronte ai parenti, ma quello che matura giorno dopo giorno tra due anime che nonostante errori e vicissitudini sono e rimangono due calamite che si attraggono. E se vi venisse l’idea di tradire il vostro partner, beh, questo esempio vi farà sicuramente passare la voglia di compiere questo passo

Aggiungi una recensione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *