Un solo colpevole

3,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Alessandra Ponticelli Conti

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-187-7 Categoria: Tag:

Descrizione

Adele torna, dopo vent’anni trascorsi a Parigi, nella casa della  natia Solaria, in terra di Romagna, dove, bimba di sette anni, ha assistito all’assassinio di entrambi i genitori. Per vent’anni ha sempre avuto la sensazione di conoscere l’identità del colpevole, ma non è mai riuscita a ricordare.

Anche a distanza di tempo, fare i conti col passato non è facile e, per ragioni che la ragazza non riesce a mettere a fuoco, in qualche modo lei stessa si ritiene colpevole di quanto è successo.

La presenza di Adele a Solaria turba molte persone che ben ricordano quei terribili avvenimenti e che certo sanno molto più di quanto non vogliano ammettere e ben presto la ragazza si sente in pericolo ma avverte anche, sia pure in modo confuso e non senza angoscia, che il passato e il presente sono strettamente interconnessi, che la morte dei genitori non è semplicemente un evento lontano, ma un dramma che continua ad accadere. Per se stessa, per poter progettare il suo futuro, è indispensabile che il mistero si sciolga, che tutto si chiarisca.

E i misteri da chiarire, con l’aiuto del Maresciallo Caputo e di Giuliano Belli, un giovane giornalista con il quale stringe amicizia, sono davvero tanti e vanno oltre l’episodio del delitto, rimettono in gioco tutta la visione del mondo della ragazza, i suoi ricordi infantili, l’affetto per il padre e per la madre, la bella, tanto chiacchierata Teresa.

La storia, ambientata in una Romagna d’atmosfere felliniane,  “amata e odiata terra, non sempre solare”, si snoda tra presente e passato, ricostruendo una vicenda, ma anche delineando un ambiente provinciale pieno di ombre, omertà, colpevoli silenzi.

INCIPIT

Un sonno agitato l’aveva tormentata per tutta la notte. Una folla impazzita la spingeva con forza in avanti, verso un’uscita che lei cercava di raggiungere e di colpo si dileguava, per poi ricomparire e svanire di nuovo. Ogni tanto apriva gli occhi, terrorizzata dalla porta che si spalancava, sulla quale, in piedi, immobile, vedeva lui, senza volto, armato di coltello, esplodere in una risata agghiacciante. In quell’inferno aveva incontrato tante facce conosciute: espressioni deformate di vecchi compagni di scuola; il viso ingigantito della zia che, con la forchetta in mano, la invitava a mangiare, mentre lei, disperata, gridava di lasciarla in pace; gli occhi gonfi di pianto di sua madre, mentre chinata, cercava di risollevarla da terra dove era caduta durante la sua corsa verso l’unica via di fuga.

Il treno continuava la sua marcia, veloce. Le verdastre pianure tutte uguali, ricoperte da un velo di brina, si rincorrevano, lasciando ogni tanto intravedere minuscoli gruppi di case, ai quali si alternavano cascinali abbandonati, grandi e piccoli acquitrini, incroci di sentieri che scomparivano all’orizzonte, infilandosi in ampie distese d’erba. Di tanto in tanto entrava in scena qualche albero che ingaggiava con il vento una litigata feroce. Si disperava, disorientato, come se si fosse accorto solo allora che quello era il suo posto, la terra maledetta dove aveva affondato le sue radici e dove era sempre vissuto.

Adele non sapeva se avesse fatto bene a partire. A lasciarsi alle spalle quel lungo pezzo di vita trascorso a Parigi. Il lavoro di bouquiniste in una bancarella del Quartier Latin, allo sbocco del Pont au Double, lungo il Quai Montebello, non lontano dalla bella chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre. Tante volte c’era entrata, trattenendo le lacrime fino al portone, per poi scoppiare in un pianto dirotto. E tante si era seduta su una panca, di prima mattina, quando i rumori della notte si sono appena spenti, per pregare, per chiedere a quel Santo così particolare di aiutarla; di dire a Dio di perdonarla per non essere stata capace di evitare quella tragedia. Forse se avesse ricordato prima…

In fondo era per causa sua se quel verme era riuscito a fare quel che aveva fatto. D’altra parte chi, meglio di Julien, avrebbe potuto capirla?

Sì, aveva fatto bene. L’ultimo mese era stato terribile. La rottura con Gilles, con il quale si era illusa di costruirsi una vita, superando la perdita improvvisa degli zii, l’aveva fatta sprofondare in un grave stato di depressione. Il loro rapporto era sempre stato conflittuale e se, fino all’anno prima, entrambi avevano sperato di poter vincere le incompatibilità che li separavano, alla fine la situazione era divenuta irrecuperabile. All’inizio Gilles le era piaciuto, a differenza degli altri, per la sua disponibilità a condividere le angosce, le piccole e grandi fobie che la perseguitavano fin dall’infanzia. Col tempo, però, lui si era rivelato sempre più insofferente, fino a quel giovedì di due settimane prima nel quale lei, arrivando in ritardo di qualche minuto, lo aveva sorpreso a fare il cretino, all’entrata del cinema Pagode, con Annie, un’amica comune. No, ora, davvero, non avrebbe più avuto alcun motivo per restare anche perché conosceva benissimo il vero motivo per il quale si trovava su quel treno. Il comune di Solaria la obbligava a provvedere in tempi rapidissimi alla rimozione della tettoia di eternit che ricopriva il capanno degli attrezzi e, per farlo, erano necessarie un sacco di pratiche con su apposta la sua firma.

Davanti a lei, seduta, una bambina la guardava, mentre altri viaggiatori si affacciavano dentro lo scompartimento in cerca di un posto. Alzò un attimo la testa per dare un’occhiata al suo bagaglio e, agitata, continuò a riflettere. La vita di Julien l’aveva scoperta sfogliando, a casa di un amico, La légende de Saint Julien l’Hospitalier di Flaubert. Quel giovane che, in un atto d’ira, uccide i genitori, e poi, assalito dai sensi di colpa, si pente, in qualche modo le assomigliava. Lei, suo padre e sua madre non li aveva ammazzati, ma era come se lo avesse fatto. Si rivide immobile, paralizzata dalla paura, che, piangente, urlava tutta la sua disperazione, mentre la mamma, a terra, in un lago di sangue, le porgeva, per l’ultima volta, la mano. Non aveva nemmeno trovato il coraggio di andarle incontro; di rispondere a quel suo estremo atto d’amore con un gesto, uno sguardo. L’aveva lasciata partire per il suo ultimo viaggio senza neppure farle capire quanto l’amasse. L’immagine di Julien che, per punirsi, aveva deciso di essere il traghettatore di poveri diavoli da una riva all’altra di un fiume perennemente in piena, l’affascinava e insieme la turbava. Lui, almeno, in qualche modo, si era riscattato. Era riuscito a dimostrare che il peccato grave che aveva commesso non aveva niente a che fare con la malvagità: il suo era stato un atto di rabbia, un istante di follia incontrollata.

Il paesaggio scomparve di colpo. Il treno stava percorrendo una lunga galleria; le luci artificiali, basse, avvolgevano di un chiarore velato le espressioni assonnate degli altri passeggeri. All’uscita del tunnel, un paesino, appollaiato su una collina, risplendeva illuminato da fasci di luce abbagliante.

Tra non molto sarebbe stata, dopo tanti anni, di nuovo a casa, in quel luogo di Romagna chiamato Solaria, a cavallo tra la montagna e il mare, dove d’inverno si avverte frizzare l’aria che arriva dall’Appennino, e d’estate fermarsi il vento caldo che risale dalla costa, mentre un sole alto e rovente riverbera i suoi strali su spianate abitate da gente laboriosa e cordiale che, sotto il peso della calura, sembra improvvisamente tramutarsi in pigra e silenziosa.

Era quasi arrivata. Guardò il suo grande borsone comprato alla Samaritaine insieme a zia Mathilde, in una bella mattinata parigina passata allegramente a fare acquisti tra rue de Rivoli e gli Champs Elysées, per festeggiare il Bacpreso a pieni voti. Era uno dei ricordi più belli che aveva: si erano divertite un casino e si erano dimenticate perfino di avvisare lo zio Jean-Luc che sarebbero rimaste a mangiare Chez mamie nei pressi dell’Opéra. Povero zio! Era veramente un buon uomo. Un vecchio comunista francese, sempre incazzato e chiacchierone, che ti riempiva di baci ogni volta che tornava a casa dal lavoro. Non c’era stata occasione, in tutti quegli anni vissuti con loro, che non fosse rientrato con una lunga baguette sotto il braccio, comprata all’ultimo tuffo, involtata tra le pagine dell’Humanité. Le risuonava ancora nella testa la voce di sua zia che, immancabilmente, ogni sera, in un francese orrendo, dall’accento vagamente romagnolo, lo chiamava al telefono in ufficio per dirgli:

“Mon chou, mon chou! Il n’y a pas de pain. Il faut que tu l’achètes. Fais-le sans faute! Bisous, bisous!”

Adele sorrise.

“Certo che donna, zia Mathi!” pensò. “Formidable, unica! Una bella ‘pollastra’ romagnola (come lei stessa si definiva), energica, che, sotto il solleone, conosce un francese a Cesenatico, lo sposa e se ne va a vivere a Parigi come se stesse andando a vendere uova e pesche al mercato di Castrocaro.” Se la vide di nuovo davanti, riderci su, vivace e spumeggiante come un bicchiere di lambrusco nel quale qualcuno, per sbaglio, abbia versato del Dom Pérignon.

Adesso che anche loro se ne erano andati, era rimasta sola. Ebbe la stessa sensazione di quando, sotto choc, la portarono via di forza da quel teatro di morte. Le mani, come le accadeva spesso, si gelarono e diventarono violacee. Adele le guardò. Preoccupata provò a muoverle, sfregandole l’una con l’altra. Non le sentiva; intirizzite, non rispondevano a nessuna sollecitazione. Come pezzi di marmo rosso, venato di striature bluastre, impietrite e insensibili, sembravano voler vivere di vita propria. E mentre anche il corpo s’irrigidiva, credette di essere una statua greca che qualcuno, per spregio e crudeltà, aveva deciso di mutilare. Conosceva a menadito ciascuna sequenza di quegli attacchi; aveva imparato a seguirli, attimo dopo attimo, in ogni loro sempre identica manifestazione. Purtroppo ogni volta era come la prima.

“Speriamo che passi” rimuginò due o tre volte fissando il suo borsone. “Tra poco dovrò scendere e quello? Chi lo tirerà giù quello?” Cosa avrebbe detto agli altri viaggiatori? “Ehi, sentite, ascoltate; visto che di colpo mi si sono paralizzate le mani, potreste per favore…?” Che figura! Neanche a pensarci.

Guardò fuori. Forlì era già passata da un pezzo; qualche minuto e sarebbe arrivata. La bambina di fronte riprese a fissarla e per la prima volta, in tutto il viaggio, le sorrise, mostrando qua e là piccole fessure di qualche dentino caduto. Sorrise anche lei e in quella faccina innocente rivide se stessa.

Mammina, mammina, eccone un altro, è il terzo in una settimana, ormai sono grande.”

“Vin quà bela burdèla cat faz pureta pureta!”

La voce allarmata di sua madre che la rincorreva, tentando di aprirle la bocca per ripulirla dal sangue, stemperò, fino a dissolverla, ogni paura e le dita improvvisamente ripresero a muoversi.

1 recensione per Un solo colpevole

  1. Andrea L

    Un solo colpevole

    Il libro di Alessandra Ponticelli dipinge un’intricata storia che si dipana fra passato e presente. La storia di un efferato omicidio commesso venti anni prima nella ridente campagna romagnola e che ritorna a tormentare la nostra protagonista nel momento in cui la burocrazia la richiama al suo paese d’origine. Molti misteri si scioglieranno quando un maresciallo dei carabinieri decide di riaprire il caso legato all’uccisione dei suoi genitori nel momento in cui si presentano indizi che rivelano che qualcuno sapeva, e all’epoca come anche oggi, si è rifiutato di parlare. Un giornalista, nel frattempo, si avvicina ad Adele (questo il nome della ragazza) interessato alla sua storia, ma anche una parte del passato di Giuliano si dimostrerà intrecciato a quello della giovane. Attorno a questi personaggi principali un paese di provincia che agirà come fosse un solo colpevole.
    Un giallo davvero intricato che tiene il lettore incollato alle pagine. Un poliziesco classico, investigativo, con caratteristiche davvero interessanti. Molto ben scritto e scorrevole, con personaggi ben costruiti, è sicuramente una lettura consigliata.

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