Un gaio cecap

14,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Iano Lanz

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-116-7 Categoria: Tag:

Descrizione

C’è un’età per l’amore? Il ben noto aforisma dice di no. Però, a volte, l’amore va rattizzato, come un fuocherello soffocato dalle ceneri dell’inerzia. È quanto accade a Pigi, un vedovo settantacinquenne sano e sportivo, a dispetto dell’età, che un suo ex allievo di atletica, Fosco, divenuto medico geriatra, convince a sottoporsi a un check-up completo. A volte impacciato di fronte a esami che suscitano un certo imbarazzo, come un’ecografia transrettale effettuata da una bella dottoressa, Pigi si guarda intorno, e non gli sfugge l’ancor piacente Calinca, una volontaria che accompagna i pazienti alle varie visite in ospedale. Tra ritrosie e pudori quasi adolescenziali e adulte voglie di “andare al sodo” per prendersi ciò che la vita può ancora offrire, tra i due si sviluppa anche un sentimento. Sarà troppo chiamarlo amore?
Un romanzo divertente e malinconico al tempo stesso, e un protagonista inconsueto e simpatico.

INCIPIT

Il sintomo

Erano appena le otto di mattina e già da qualche ora Pigi era in ginocchio sulla pista di atletica a incollare il labbro di uno dei tappetini in gomma scollato dal manto di resina poliuretanica.

– ‘Sti rammolliti strusciano i piedi invece di correre.

Il sole d’inizio settembre era esploso all’improvviso sull’area dilatata del campo, lui lo aveva avvertito come una spallata di calore e aveva deciso di assecondare il colpo e accasciarsi di lato per far respirare le ginocchia indolenzite. Allungò le gambe e entrò in stretching per distendere i tricipiti femorali, solo così riusciva a diluire il dolore dei crampi in arrivo e ammorbidire l’inchiavardatura delle anche. La messa in verticale della sua struttura di settantacinquenne, uno e ottantadue di stazza, non rappresentava un’impresa impossibile, ma aveva comunque i suoi tempi. Si pose prima sulle ginocchia, appoggiò a terra le braccia distese e, orientando il culo bello alto, allungò le gambe facilitando la traslazione in verticale del corpo. Il movimento era una imitazione scricchiolante della tecnica che il cucciolo di homo sapiens adotta d’istinto per riguadagnare la posizione eretta quando cade. Comunque, malgrado l’età, Pigi gareggiava ancora ad armi pari con i manichini quarantenni che venivano a macinare straccamente giri di pista nel pomeriggio inoltrato, dopo le ore d’ufficio.

Volse la testa verso il sole e ricevette a occhi chiusi la prima spalmata di UV-A e UV-B che prepararono il terreno a una manciata di rughe in più sul viso regolare, tuttavia percorso in verticale e orizzontale da solchi significativi. Armonizzati con il cranio dolicocefalo, i capelli color bianco latte, spruzzati di microfili di caffè, si adagiavano lunghi e soffici sulla struttura oblunga ed erano stretti da un elastico alla base della nuca.

Pigi guardò il lavoro appena compiuto, allungò lo sguardo sul manto erboso del campo, risalì le tribune sulla destra, ridiscese le gradinate e tornò a fissare il tappetino ai suoi piedi, ormai ricompattato al resto del manto della pista: per ora può bastare, concluse, è il momento del cappuccino.

– Maestro!

Si volse a guardare il giovane, capelli biondi corti, occhi chiari, indossava un camice bianco aperto; restò a puntarlo per un po’mentre mulinava il cucchiaino dentro la tazza del cappuccio.

– Non mi riconosci? Ma se sono passati appena quindici anni! – disse Fosco ridendo – tu invece sei rimasto lo stesso!

Pigi portò il bordo della tazza alle labbra mentre continuava a scrutare gli occhi chiari, grandi e acquosi, del suo dirimpettaio e scavò ancora qualche palata nella miniera derelitta della sua memoria. Finalmente un luccichio di polvere dorata e la pepita emerse: Speedy!

Posò la tazza percuotendo il piattino per reggere l’urto dell’abbraccio che arrivava alla velocità di una partenza dai blocchi.

Fosco Cavede, detto Speedy,era stato l’unico dei suoi allievi dell’Atletica Città di Latina a partecipare a una finale nazionale degli 80 metri piani ai giuochi della gioventù 19… vattelappesca ed era arrivato al traguardo nel mucchio per una partenza dai blocchi al rallentatore.

– Alleni ancora al campo?

– Macché, ai settanta sono andato in pensione, ma sono rimasto nella mia residenza all’aperto, indovina un po’? Come aiuto custode.

– Ma chi?? Un glorioso maestro dello sport come te!

– Il Comune me lo ha concesso, il mio è un contributo volontario, mi permette di respirare la stessa aria che respiro da oltre mezzo secolo. Anche perché il custode attuale, che di atletica leggera non capisce un tubo, nei meeting è preso dal panico e non sa dove mettere i blocchi di partenza o gli ostacoli anche se tutto è scritto sul bordo pista.

– Praticamente è lui che ti fa da aiuto.

Pigi alzò le spalle e allargò le braccia. Non confessò a Fosco che il campo di atletica era per lui il rifugio dalla monotonia di una vita familiare inesistente, la moglie era scomparsa da anni, le due figlie sistemate vivevano fuori città.

– Tu Fosco che fai?

– Il medico.

Indicò il padiglione di oncologia dell’ospedale che s’intravvedeva dal bar tra gli alberi, l’ingresso si trovava appena attraversato la strada.

– Faccio un aggiornamento, ma lavoro al Nuovo Hospital a Roma, sono specializzato in geriatria, mi occupo di giovanotti come te.

Gli mollò una pacca sulla spalla e lo osservò con un ghigno affettuoso.

– Come va la salute?

– Bene, salvo qualche doloretto alle articolazioni, per il resto funziona.

– La pressione, il cuore?

Pigi scuoteva la testa come per rassicurarlo che per il momento tutto andava per il verso giusto, i medici li incrociava di rado, il suo medico di base lo aveva cancellato dalla lista. Fosco continuò:

– Senti, mi ha fatto piacere rivederti, ho passato con te un bel periodo.

Diceva questo, mentre pensava ad altro. Pigi disse:

– Vieni qualche volta a fare un giro di campo, lo facciamo insieme, come ai vecchi tempi.

– Magari! Avrei bisogno di una buona sgroppata ogni tanto, ma il lavoro in ospedale non mi dà tregua.

Studiava il vecchio come se un’idea lo trattenesse per la manica. Finalmente la concretizzò:

– Perché invece non vieni tu a Roma? Programmiamo un check–up completo. Basta l’impegnativa del tuo medico e poi mi telefoni. Penserò io al resto, tu devi solo venire a Roma.

Frugò nella tasca dei pantaloni e allungò a Pigi un biglietto da visita. Lui lo prese per fargli piacere, ma ciondolava la testa su cui rimbalzavano tutti i buoni propositi e i vantaggi che l’ex allievo gli andava sciorinando, mi raccomando, ti aspetto! Si salutarono con un altro abbraccio e la presa forte dell’ex allievo gli rimase stampata sulle spalle, una traccia affettuosa, un nodo al fazzoletto che prima o poi, forse, avrebbe sciolto.

La pioggia di fine ottobre cadeva sull’erba del prato e affogava subito risucchiata dal drenaggio. Pigi fissava dagli spogliatoi il paesaggio grigio e piagnucoloso, cominciano i giorni rompiballe, sospirò, e a mani aperte frizionò avanti e dietro i quadricipiti per scaldare il tessuto muscolare attanagliato dall’umidità.

Fino a Natale avrebbe bighellonato da una parte all’altra del campo in cerca di niente: rimuovere un mucchio di foglie qui, liberare qualche scolatoio intasato là, riattare qualche attrezzo malandato. Ovviamente non dimenticava ogni mattina di percorrere a marcia i suoi dieci giri di pista, quando pioveva avvolto come una caramella nell’impermeabile giallo elettrico o affogato nella tuta multistrato nei giorni di maestrale e di tramontana.

Sul campo di atletica provava lo stesso piacere di un volatile che taglia l’aria e plana a piacimento, o come quello di un pesce che guizza tra le onde o indugia immobile controcorrente. Così lui, bipede in marcia, riceveva le medesime emozioni dal suolo quando lanciava la gamba che gravava prima con il tallone e poi ruotava sull’avampiede, ammortizzando l’appoggio con un movimento morbido del bacino e rilanciando la falcata con la spinta energica delle braccia.

Da qualche tempo, ancora non aveva fatto bene mente locale, a metà sforzo, circa al quinto giro di pista, cominciavano quei maledetti colpi al cuore che parevano sparati dal petto verso il fuori, per ricollocarsi dopo pochi secondi nel torace e consentire al miocardio di ripartire con la frequenza abituale.

– Extrasistole– rifletteva– è il cattivo tempo e questa maledetta umidità.

Ogni volta, curiosamente, associava il fenomeno alla partenza del treno a vapore della sua gioventù, che strepitava all’inizio della corsa scarrocciando a vuoto sui binari per poi procedere con assetto regolare e al ritmo giusto.

Dopo la doccia, si massaggiava a lungo con l’olio di mandorle amare per facilitare lo scorrimento degli ingranaggi delle articolazioni, unico lenimento che si concedeva a fronte di scricchiolii persistenti e a scanso di blocchi improvvisi. Infine si dirigeva verso il solito bar per il cappuccino e ogni volta tornava a Fosco e alla storia del cecap. Ci ragionava, ma al solo pensiero di partire in treno per Roma, lui che dopo la pensione si era spinto al massimo fino a Pontinia a trovare la figlia minore, sentiva uno strano prurito in corpo che associava al chiuso, al baccano del traffico, allo scarrozzare in terra straniera a respirare l’aria confezionata dai tubi di scappamento.

Questo fino a quella mattina di metà novembre, quando la tramontana spianava l’erba del campo con il suo soffio affilato e la temperatura indurita sprizzava lacrime dagli occhi. All’altezza del terzo giro di pista, mentre sculettava in scioltezza allungando le gambe e spingendo con i gomiti, un colpo improvviso al centro petto, un’implosione con spostamento d’aria, gli bloccò i riflessi e lasciò il corpo procedere per qualche metro senza direzione e con precario equilibrio, un barcollamento simile a quello di Dorando Petri mentre si avvicinava al traguardo della maratona di Londra. Infine si bloccò e girò lo sguardo impaurito nello spazio piatto e solitario del campo in cerca di un appoggio per restare in piedi. Poi convenne di sedere a bordo pista e così accosciato strinse in grembo il cuore che tentava di sfuggirgli via. Il sintomo nuovo, violento e sconosciuto, doveva avere una spiegazione e c’era solo una persona di cui si fidava che poteva dargliela. Telefonò a Fosco che non perse tempo e lo convocò per una visita, prima possibile.

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