Testimoni privilegiati. Una Saint-Étienne per l’ispettore Corsini

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Formato: Libro cartaceo pag.268

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Autore:Vito Montrone

Note sull’autore

 

 

COD: ISBN: 978-88-5539-321-8 Categoria: Tag:

Descrizione

In una città che non ha mai dimenticato gli orrori dell’occupazione nazifascista, all’inizio degli anni ’80 uno storico vercellese, Aristide Cernusi, avvia una ricerca il cui scopo è dimostrare che alla fine della guerra di liberazione non tutti i partigiani avevano consegnato le proprie armi. A sostegno della sua versione dei fatti, un vecchio partigiano gli consegna un revolver Saint-Étienne 1892, avuto in dono durante la Resistenza da un partigiano francese, e una scatola di proiettili, raccomandandogli di non rivelarne l’esistenza, perché collegato a un segreto inviolabile.
Molti anni più tardi, nel mese di settembre del 2016, in una palazzina di via Marco Polo, la vedova di Aristide Cernusi viene massacrata da un individuo che ruba la Saint-Étienne 1892. L’ispettore Corsini e i suoi collaboratori mettono a soqquadro Vercelli, indagando dagli ambienti malavitosi della città fino al mondo accademico. Un’indagine a tutto campo, per acquisire gli elementi utili ad individuare il responsabile dell’efferato omicidio e i suoi possibili complici, che svelerà anche il segreto collegato al misterioso revolver.

INCIPIT

All’inizio degli anni ’80, il numero di testimoni privilegiati della Guerra di Liberazione si era ridotto, tanto da far temere agli studiosi di storia contemporanea la perdita di importanti fonti. Presto sarebbero rimasti solo i fortunati che avevano potuto av-vicinare qualche vecchio partigiano, che ne avevano registrato i racconti, per poi tramandarli, in quel caso, solo come testimo-nianze indirette. Così, per i ricercatori, il lavoro si ampliava per-ché era necessario individuare nuovi contatti che, di prima o di seconda mano, fornissero riscontri o incroci tali da assegnare un timbro di validità ai fatti menzionati. Come avevano agito le formazioni partigiane? Quando si era verificato il fatto citato e che corrispondenza vi era con il fatidico giorno della Liberazio-ne? Una ricerca minuziosa, affinché la storia non fosse dimenti-cata.
Alla periferia sud di Vercelli, in una vecchia palazzina di via Marco Polo, un partigiano, il cui nome di battaglia era stato Ro-ma, fronteggiava lo scorrere del tempo con la mente rivolta all’azione. Suo dirimpettaio era il ricercatore di un importante Centro Studi, Aristide Cernusi, il quale, per non perdere l’opportunità di una fonte a portata di mano, aveva concentrato il suo lavoro su alcuni avvenimenti accaduti proprio nella zona in cui aveva agito la squadra d’azione del partigiano Roma.
Uno degli argomenti sui quali stava scrivendo Aristide Cernu-si riguardava la questione, molto dibattuta, secondo la quale alla fine della Guerra di Liberazione i partigiani non avevano conse-gnato tutte le armi. Una versione dei fatti avvalorata dagli avve-nimenti che si erano verificati dopo il ferimento di Palmiro To-gliatti, il 14 luglio 1948, per mano di un certo Pallante, uno stu-dente esaltato, che gli aveva sparato quattro colpi di pistola. Si pensò a un ritorno dei fascisti e rispuntarono le armi, soprattutto nell’Italia del nord. Una reazione che fece temere lo scivolamen-to del Paese verso l’abisso della guerra civile. Seguirono tre giorni di tensione, poi Palmiro Togliatti, il capo del Partito Co-munista, si riprese, fece appello alla calma e il rischio del conflit-to fu superato. Il Paese ritornò alla normalità, e le armi riapparse furono riconsegnate. Ma proprio tutte?
Nonostante la guerra ai fascisti e agli occupanti tedeschi fosse cessata da ben quattro decenni, il partigiano Roma aveva mante-nuto il suo stato d’allerta. Così, quando suonavano alla porta di casa, si avvicinava con circospezione impugnando un revolver che gli era stato donato da un combattente francese con il quale aveva instaurato un granitico rapporto nel corso di un’azione, e intimava a chiunque avesse suonato di dichiarare la propria iden-tità. Poi, solo dopo aver ricevuto opportune rassicurazioni, ripo-neva la sua Saint-Etienne 1892 e apriva la porta, mantenendo comunque un atteggiamento scontroso.
In più di un’occasione, per non contrariare il suo dirimpettaio, Aristide Cernusi, che insisteva con l’uomo per avere una sua versione dei fatti, aveva dovuto adattarsi al rituale senza tuttavia aver mai immaginato il vai e vieni del revolver. Fino a quando, un pomeriggio del mese di dicembre del 1985, deciso a non rin-viare oltre la questione delle armi non riconsegnate, il partigiano Roma lo sorprese documentando, a suo modo, quel tassello di verità storica.
Erano seduti di fronte, intorno al tavolo del soggiorno dove Roma, ormai vedovo da molti anni, consumava la sua razione quotidiana di minestra scaldata e riscaldata. Sulla tovaglia a qua-dretti, due bicchieri di vino rosso a sostenere il coraggio della ve-rità.
«A chi può importare quel particolare, Aristide?» chiese Ro-ma. «La storia delle armi è sepolta sotto la polvere della storia. Può solo dare spunto a qualcuno smanioso di spargere fango sull’epica ribellione al fascismo da parte di una larga parte della popolazione. Crede davvero che vincitori e vinti si siano rasse-gnati all’epilogo di quel conflitto?»
Il professore, che tra una domanda e un sorso di vino prende-va appunti su un vecchio quaderno a righe bordato di rosso, alzò lo sguardo e fissò Roma, deciso a non mollare la presa.
«Ma che storia è quella che trascura un aspetto così importan-te?» replicò il ricercatore, per superare lo steccato che aveva al-zato l’altro. «Se fosse così si dimostrerebbe che nel movimento partigiano, malgrado il fascismo fosse stato vinto, alcuni non avevano creduto al superamento delle ragioni del conflitto. Lo stato d’animo di quelli che avevano nascosto le armi era di totale diffidenza nei confronti di chi pensava che tutto fosse finito. Per-ché il rancore e l’odio non erano affatto sopiti. Mi sorprende, Roma, che nonostante l’ardore che continui a tirar fuori, tu non abbia tenuto una qualsiasi arma da tirar fuori alla necessità. Credi che non mi sia accorto del tuo atteggiamento guardingo tutte le volte che ti busso alla porta? Sento i tuoi passi arrivare, ti fermi ad almeno un metro dalla soglia, per chiedere poi con un tono che non lascia spazio a equivoci, chi si permette di presentarsi. Chi sta osando così tanto?»
Ascoltata l’arringa di Aristide, per tutta risposta, Roma si alzò stancamente, fece strisciare la sedia sul pavimento di piastrelle consunte e raggiunse l’ingresso. Sparì alla vista del professore per qualche istante poi, curvo sotto il peso degli anni, si riaffac-ciò sulla soglia del soggiorno reggendo tra le mani un involucro di stoffa ingiallita.
«Gliela regalo» disse, svolgendo il malloppo, e mostrandogli un vecchio revolver brunito che mandava l’odore forte dell’olio di pulitura. «È una Saint-Etienne 1892» spiegò. «Un cimelio del-la seconda guerra mondiale. Mi è stata donata da un combattente francese, al termine di uno scontro a fuoco, come ricompensa per avergli salvato la vita. E questa» aggiunse consegnandola «è una scatola con i suoi proiettili calibro 8. La pistola è sua. È tutto suo. È il suo documento. Però, c’è un segreto. Inviolabile» che gli confidò. «Se non vuole ritrovarsi nei guai, le consiglio di ri-spettare il patto.»

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