Descrizione
Personaggi strani si aggirano per Ancona: un traffichino turco, un ingegnere molto creativo ma poco accorto, un poliziotto dai metodi per nulla ortodossi, una psicologa sui generis.
E poi Costanza, donna dalle mille contraddizioni: intuitiva e ingenua, candida e maledetta, generosa e ostile. Il suo disturbo di personalità di tipo paranoide non l’aiuta a restare in contatto con la realtà, ma le permette di vedere dettagli che sfuggono ad altri. Tra terroristi dell’ISIS, giudici corrotti, servizi sociali deviati, mercanti d’armi senza scrupoli e vicini di casa spacciatori, Costanza vive con la sensazione di pericolo cucita addosso. Dotata di un profondo senso della giustizia, persegue senza cedimenti il suo obiettivo di chiarire le misteriose circostanze in cui il suo titolare è scomparso. Lo fa andando fino in fondo, anche a costo di farsi molto male.
Un romanzo dalle tinte thriller e noir, un colpo di scena via l’altro, un finale inaspettato. E un personaggio, Costanza, che lascia il segno per la sua ingegnosa follia e la sua inflessibile cocciutaggine.
Costanza e la giustizia
La dirittura morale richiede impegno, sacrificio e una buona dose di coraggio. Si paga un prezzo alto, spesso, ma è più forte di me e non ho mai pensato di sottrarmi.
Si è detto di tutto sul mio conto, compreso che sono pazza. Oppure rigida in modo ossessivo. Come se fosse un po’ la stessa cosa. Ma non lo è. I principi morali pretendono rigidità per loro stessa natura. Il fatto di scendere a patti, li rende vani.
Ne sono convintissima, mentre seguendo il mio intuito e il mio istinto, mi apposto dietro un cespuglio della Cittadella. Il parco di Ancona si trova in cima al colle Astagno, in quella che fu un’area militare. Forse ho scelto questo posto per sentirmi al sicuro, all’ombra di bastioni e mura fortificate. Sono in grande anticipo. Per forza: avrei rischiato di essere preceduta e intercettata se fossi arrivata giusto in tempo.
Mi aggiusto per garantirmi una posizione comoda, per quanto possibile. Il terreno per fortuna è abbastanza asciutto, anche se è freddo. Nella mia postazione non arriva il vento, perché è dietro un montirozzo che mi ripara, mentre il fogliame del cespuglio si muove più in alto, per azione di un venticello invernale pacifico quanto gelido. L’attesa sarà di non meno di due ore, ma non mi pesa. È il prezzo da pagare affinché la Giustizia proceda laddove la legge zoppica e inciampa.
Mia madre mi ha chiamato Costanza, con la seguente motivazione idealistica: con la tenacia, non c’è obiettivo che non si possa raggiungere. Guarda solo avanti, mi diceva, mai indietro, e combatti senza mollare mai. Non so perché per lei fosse così importante questo aspetto, ma immagino che avesse a che fare con le sue personali battaglie. È morta troppo presto per poterle chiedere di che battaglie si trattasse, anche se posso immaginarlo. Comunque, a cinque anni, è già tanto se mi ricordo la sua spiegazione sulla scelta del mio nome, che memorizzai senza averla capita bene, sul momento. Solo questo mi rimane di lei: il mio nome e la raccomandazione a esso associata.
Io credo di aver fatto onore al mio nome. Non mi ricordo di battaglie lasciate a mezzo, a costo di passare per matta agli occhi di chi la mia persistenza cocciuta non ce l’ha. Se vai a guardare, nemmeno ora, alle sei di una sera di febbraio, al freddo e in procinto di espormi a un pericolo serio, sono disponibile a considerare delle alternative a quello che sto per fare. Nossignore. La cosa giusta da fare è una e una soltanto.
Tanto per cominciare, non sarei qui se la polizia avesse fatto il proprio dovere. Gli avevo fornito tutti gli elementi, con tanto di foto nitidissima che ritraeva il farabutto. Sarebbe stata una passeggiata per loro. Invece, pur di non ammazzarsi di fatica, hanno scelto di trovare tutta una serie di scuse, tra cui la motivazione, molto deludente, che non potevano muoversi senza una querela della parte lesa. Non hanno voluto sentire ragioni, nemmeno quando ho provato a spiegare che la povera signora aveva paura a querelare, ma questo non vuol dire che non vi sia un reato da perseguire. Ma niente da fare. E così, subodorando il loro menefreghismo, ho deciso di non far menzione del video incriminante che avevo nel cellulare che tenevo in tasca.
Il tempo fatica a passare e le gambe cominciano a risentire della postura forzata e dell’umidità che ha iniziato a penetrarle. Sono piuttosto tollerante al freddo, dopotutto sono cresciuta in una casa senza termosifoni, ma il non poter fare spostamenti degli arti inferiori per riattivare la circolazione mi sta mettendo parecchio alla prova. Il momento dell’appuntamento si avvicina e posso permettermi sempre meno di fare movimenti che rischierebbero di tradire la mia presenza. Non posso escludere che il delinquente arrivi prima del previsto, anzi devo dare per scontato che lo farà. Gli ho dato istruzioni precise, nella lettera che gli ho lasciato nella buca della posta. Dovrà arrivare alle 19 in punto e andare dritto alla panchina di legno che si trova in una parte seminascosta del parco a cui si giunge attraverso un brevissimo sentierino tra gli alberi. Gli ho descritto con precisione il punto, con tanto di mappa disegnata.
La panchina è la mia preferita, all’interno della Cittadella, perché è scostata dalle vie più battute dai passeggiatori e dagli amanti del jogging. Nei periodi dell’anno in cui le fronde sono meno fitte, si riesce ad avere una certa visuale sul vecchio faro, in lontananza, al margine di un triangolo di mare, che per quanto mi riguarda è una delle poche cose capaci di darmi un po’ di pace. Quando ho dovuto individuare un luogo di incontro in cui mi sarei sentita al sicuro, ho subito pensato a questo, perché la panchina dà le spalle al sentiero, che è l’unica via d’accesso e questo mi dà modo di arrivare alle spalle di chi sta seduto senza essere vista. Ho dato istruzioni al mio pollo di andarsi a sedere senza mai voltarsi, qualunque cosa accada. Io gli arriverò da dietro e l’ho avvisato, di non avere reazioni inconsulte, perché sarò armata.
Mi appartiene, oltre alla tenacia, anche la bravura nel dire bugie. Ero una bambina piuttosto piccola, quando divenni consapevole della mia abilità e non mi ci volle molto per apprezzare appieno tutti i vantaggi del presentare una versione non completamente conforme al vero. Devo dire in tutta onestà che questa facoltà l’ho sempre utilizzata a fin di bene, come in questo caso. Che sono armata, infatti, è una balla.
Mi ribolle il sangue quando vedo le ingiustizie ai danni dei deboli e non posso non mettermi in mezzo. Sarà perché la vita mi ha molto maltrattato e so come ci si sente. Per fortuna che sono Costanza, perché chiunque altra al mio posto non sarebbe sopravvissuta. Sono fatta di un materiale speciale, io, sono più resistente della media e quindi più difficile da abbattere. Ci hanno provato e stanno continuando a provarci, ma io non mi piego e non mi spezzo, anche se sono stata vicina alla rottura più di una volta.
Il segreto sta in tre paroline magiche: attenzione, prudenza, riflessione. Ci sono piccoli dettagli che, se invece di lasciarli passare inosservati come fa la maggior parte della gente, vengono trattenuti, correttamente letti e interpretati, sono chiavi che aprono porte impensabili. L’importante è non fidarsi totalmente dell’impressione superficiale né dell’interpretazione che ne dà l’individuo medio. Bisogna diffidare sempre, andare oltre ed essere capaci di quella forma di coraggio che ci vuole per guardare la verità negli occhi, benché scomoda, dolorosa o amara. Nella vita ne ho incontrate poche di persone così. Se ci penso bene, non ne ho mai conosciuta nessuna. Ecco perché sono così sola.
Se vai a vedere, in quanti abitiamo in quel tratto di strada? Ci sono nove appartamenti nel mio palazzo e poi ci sono quelli che abitano dall’altra parte della strada. Una quarantina di persone almeno, facendo una stima grossolana. Forse di più. In quanti si sono accorti di quello che accadeva sotto i loro occhi? Solo io. Eppure lui non sembra essersi preoccupato troppo di non essere visto, talmente è sicuro di sé. Forse si sente protetto dall’indifferenza della gente, un fattore che senza ombra di dubbio gioca a suo favore. Appena l’ho visto, ho capito che aveva male intenzioni. Io ho il radar per certe cose. È rimasto appostato per diversi giorni non consecutivi ed era chiaro che stava studiando qualcosa o qualcuno. Che ci fosse un piano dietro questo comportamento non l’ho mai messo in dubbio. Per non sapere né leggere né scrivere, come si dice, gli ho fatto qualche foto già dal primo giorno che l’ho notato dalla mia finestra del bagno. Poi l’ho rivisto il giorno dopo e dopo ancora due giorni. All’inizio ho pensato che ce l’avesse con me, che mi stesse spiando per un qualche motivo collegato con Azzurra (dopo quella storia delle microspie non posso più essere sicura nemmeno in casa mia), finché un giorno non l’ho visto arrivare al seguito della signora Buratti, lei davanti e lui dietro di una ventina di metri. La stava seguendo e probabilmente lei non se n’era accorta.
La signora Buratti abita al piano di sotto rispetto a me. È una vedova di una settantina d’anni e la famiglia che le rimane è costituita da un figlio che non la viene a trovare quasi mai, una nuora che la odia e due nipoti che vengono periodicamente per scucirle una percentuale della pensione, benché ampiamente nell’età da lavoro, le bamboccione. È una donna minuta e dolcissima, che non ho mai visto perdere la pazienza, nemmeno quando il figlio le si rivolge senza alcun rispetto. Piangeva come una bambina quando, non più tardi di un mese fa, si è accorta che le avevano rubato la pensione. È accaduto che un uomo l’ha avvicinata mentre era nel supermercato vicino casa e, come se l’avesse incontrata per puro caso, l’aveva salutata presentandosi come un vecchio compagno di scuola di suo figlio.
«Ma come, non si ricorda? Andavo alle medie con Andrea!» le disse.
Lei non ricordava chi fosse, ma sentendo nominare suo figlio fu, poverina, portata ad abbassare la guardia. Lui continuò a parlarle, rievocando episodi di scuola mai avvenuti ma in modo così vago che la signora Buratti non poteva smentire. Sicché, quando lui si offrì di riaccompagnarla a casa portandole la spesa, lei oppose solo una debole resistenza, dicendo che erano poche cose e sarebbe riuscita anche da sola, tanto era abituata a cavarsela da sé da quando era vedova e con un figlio così preso dalle sue cose che veniva sempre meno a farle visita.
«Eh, signora» disse la canaglia sentendosi sempre di più sulla buona strada «Andrea è un po’ così, che ci vuole fare. Era così anche da ragazzino».
«Davvero? Veramente a me pare che fosse un bravo ragazzo. È dopo che si è sposato con quella, che è cambiato.»
L’uomo aveva esitato un po’, prima di imbroccare la risposta giusta. «Ma è proprio quello che intendevo, signora, Andrea è sempre stato in po’ influenzabile, debole. Un bravo ragazzo, e proprio per questo facile da mettere sotto.»
A queste parole, la signora Buratti non ebbe più dubbi. L’uomo che aveva davanti aveva descritto suo figlio con precisione. Non ci pensò proprio, di essere stata lei a indirizzarlo.
«Mi permetta di aiutarla, mi farebbe davvero piacere» insistette lui. «Se non mi ricordo male abita da queste parti, vero? Così magari mi lascia anche il numero di telefono di Andrea che ho perso di vista da tanto.»
La signora Buratti non riuscì a dire di no e nemmeno voleva. Anzi era contenta che in una delle sue giornate tutte uguali e solitarie accadesse qualcosa di inatteso e piacevole da raccontare al figlio. Rimase prima stupita, quando, dopo averlo lasciato solo per andare a prendere l’occorrente per scrivergli il telefono del figlio e fargli un caffè, tornò in salotto e lo trovò vuoto. La disperazione invece giunse quando, iniziando ad avere un vago sospetto, fece un giro ispettivo della casa e trovò il primo cassetto del comò aperto.
Era stata proprio lei a raccontarmi la sua storia, vincendo le naturali reticenze che aveva nei miei confronti, come la raccontò più e più volte, piangendo, a tutti gli abitanti del condominio. Tutti tranne Salvo, il mio dirimpettaio bastardo, ma questa è un’altra faccenda. Chi più chi meno, tutti le consigliammo di denunciare l’accaduto, ma lei si rifiutò e anzi implorò di mantenere il segreto, temendo la reazione di rabbia del figlio, che di sicuro avrebbe infierito su di lei per la sua stupidità, cosa che già faceva abbondantemente da sola. Ripeteva che non sapeva come fare ad arrivare al mese successivo, ma che questo era il minore dei mali. Preferiva stringere la cinghia piuttosto che affrontare Andrea.
Non ci ho visto dalla rabbia per tanta spietatezza. Noi persone sensibili soffriamo di queste cose in modo particolare e così ho deciso che dovevo fare qualcosa per lei. Avevo delle foto dell’uomo appostato e non solo. Il giorno che l’ho visto seguire la mia povera vicina, prima che si verificasse il misfatto, ma già sicura dentro di me che c’era del marcio in Danimarca, sono scesa e ho seguito a mia volta l’uomo misterioso, che si è incamminato nella direzione da cui era venuto. L’ho pedinato fino a un bar dove si è fermato a ingollare un bicchierino di un liquore scuro e a giocare nelle macchinette mangiasoldi per una mezzora buona. Poi è andato a riprendersi la macchina nel parcheggio di Vallemiano dove l’aveva lasciata, credo apposta non troppo vicino a dove aveva fatto i suoi appostamenti. Prima però aveva indugiato per un po’ davanti a un portone di via Vallemiano e ne aveva studiato il citofono. Una volta partito in auto, l’ho perso.
Quando ho sentito la signora Buratti parlare del furto a casa sua, non ho avuto dubbi che fosse proprio lui il colpevole. Purtroppo però la polizia non l’ha ritenuto un caso di cui occuparsi. Io ci ho provato, a fare una segnalazione.
«In assenza di una denuncia, noi non possiamo procedere.» Mi è sembrata una risposta strana, così come strano era lo sguardo del poliziotto mentre gli riferivo tutto per filo e per segno. Quasi come se fossi io ad avere cose losche da nascondere. Ho capito che era inutile insistere. Il mio dovere civico l’avevo fatto. E se devo dirla tutta, pure il poliziotto mi è sembrato sospetto, al punto che mi ha fatto ipotizzare di essere in combutta col malvivente, dal momento che sembrava quasi volerlo proteggere. Le mie esperienze con la Questura di Ancona, devo precisare, non sono mai state idilliache.
Ho sempre pensato che le forze di polizia servono a mantenere uno status quo più che a fare giustizia; evidentemente il loro mandato è quello di preservare lo schema delle cose senza modificarlo troppo, accettando quindi anche una quota di devianza considerata fisiologica. Contrastano gli sconvolgimenti più che le ingiustizie. A volte capita che l’ideale di giustizia inteso in senso puro sia percepito come sovversivo e pericoloso, e quindi da contrastare, perché la gente ha paura degli sconvolgimenti del proprio mondo, fatto anche di piccole anormalità e innocue disfunzioni. Se ne lamentano, ma in fondo gli va bene così.
Se alla polizia andava bene così, io avrei proceduto secondo coscienza. La mia. E io, come ho già avuto modo di dire, non sono molto flessibile su certe cose. Sono sovversiva.
Come si fa a restare neutri di fronte a una signora Buratti con gli occhi lucidi e lo sguardo perso, mentre ti racconta di come un bellimbusto ha carpito subdolamente la sua fiducia per derubarla di quel poco che le serve per vivere? Mi ero fatta convinta che la breve sosta dell’uomo davanti a un citofono di via Vallemiano non fosse per nulla casuale. Così i giorni successivi mi sono fatta trovare lì, dopo il lavoro. La mia convinzione è cresciuta quando ho visto che da quel portone transitava una signora anziana, più o meno della stessa età della signora Buratti. E poi, al terzo giorno di appostamenti, rieccolo lì, il delinquente. Bingo. Era evidente che stava tramando un altro colpo. Stando attenta a non farmi notare, riparandomi dietro un pilastro del cavalcavia di Vallemiano, ho realizzato dei video dei movimenti sospetti dell’uomo.
L’ho osservato meglio, stando attenta a non essere scoperta. Era alto e robusto, di quelle costituzioni che si sviluppano facendo lavori pesanti fin da molto giovani, più che per eredità genetica. Aveva i capelli abbastanza corti, castani e scomposti e la barba non troppo curata. Una cinquantina d’anni. Nell’insieme però belloccio, con degli occhi a cui era capace di dare un aspetto innocuo e pacifico, quasi triste. Credo che facesse leva su questo, per i suoi agguati.
Neanche a dirlo, la vecchina di Vallemiano subì lo stesso trattamento della signora Buratti un paio di settimane più tardi. Credo di essere stata la prima a saperlo, perché ero lì sotto quando accadde, col mio cellulare che riprendeva alcune delle fasi della trappola, compreso il momento in cui l’uomo accompagnava la signora dentro il portone e il momento dopo, quando lui ne usciva da solo e risaliva rapido nella sua auto.
Ce n’era abbastanza per incastrarlo, compresa la sua targa impressa nella memoria del mio cellulare. Non avrei perso tempo con la polizia, decisi. Ho cercato su Google “targa auto come risalire al proprietario”. Io non ho mai avuto un’auto, non sono pratica. Il risultato della ricerca mi ha suggerito di andare all’ACI, cosa che ho fatto senza perdere tempo. Viene fuori che avevo a che fare con un certo Giuseppe Massari, residente a Osimo.
Con in mano l’indirizzo di casa sua, ho preso il pullman per Osimo e dopo vari giri a vuoto finalmente ho trovato il posto. Ho preso a seguire Massari per quanto potevo, dal momento che non disponevo di un mezzo proprio e lo perdevo ogni volta che partiva in macchina. Facevo attenzione a far passare parecchi giorni tra un pedinamento e l’altro, così da non dargli modo di notarmi e ricordarsi di me. Ho scoperto così altre cosette sul suo conto.
Ero e sono incerta sull’esito dell’impresa, essendo la prima volta che mi do al ricatto, ma incrollabile nella volontà di fare la cosa giusta. È buio. È quasi l’ora convenuta e mi accorgo che il cuore mi batte più forte. Vorrei non averla questa reazione fisiologica, per poter risultare perfettamente controllata e non dare modo al mio avversario di percepire cedimenti.
Mi sporgo un po’ dal cespuglio trattenendo il respiro. La panchina è ancora vuota. Guardo l’orologio: mancano tre minuti alle 19. Mi devo calmare. Le gambe sono intirizzite e non so cosa darei per poterle sgranchire un pochino. Ormai ci siamo e non posso permettermi errori, perciò mi sforzo di restare immobile. Stai calma, Costanza.