Sei voci per due delitti e mezzo

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Mario Scaglianti

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-201-0 Categoria: Tag:

Descrizione

Sara, una bellissima studentessa universitaria precipita dal quinto piano della palazzina in cui abita e, da subito, la caduta non pare accidentale e il principale indiziato sembra essere Fabio, il suo ragazzo. Dal diario della vittima, rinvenuto dalla sua coinquilina Carla, con l’aiuto di Giulia, una ragazza un po’ imbranata e innamorata di Fabio, emerge la vita complicata di Sara. Ma la bella studentessa non è l’unica vittima in questa storia ambientata a Padova e raccontata a più voci dai protagonisti, avvincente per i colpi di scena e con un finale inatteso che rende questo giallo-rosa molto piacevole.

INCIPIT

Era il 5 settembre del 1974 e alle quattro del pomeriggio arrancavo accaldata per il peso di due sacchetti di plastica, pieni all’inverosimile di provviste appena acquistate al piccolo supermercato di Via Marin. Il clima di Padova era umido e lo era particolarmente in settembre quando, la mattina presto, si alzava una nebbiolina leggera che in poche ore si dissolveva, lasciando nell’aria un’afa innaturale. Non vedevo l’ora di finire gli studi e tornarmene a casa dove la nebbia non si era mai vista, ma ero rassegnata a boccheggiare in quell’atmosfera lattiginosa ancora due anni. Tanto mi mancava, infatti, per arrivare alla laurea.

Si era liberata una stanza in un appartamento nel quartiere di San Carlo ed entro una settimana avrei traslocato, ma Sara, la ragazza con cui abitavo fin dall’inizio dell’università, non ne sapeva ancora niente e non avrebbe accolto con entusiasmo la novità di doversi accollare da sola l’affitto, almeno fino a quando non fosse riuscita a trovare un’altra compagna di appartamento. Mi avrebbe chiesto il motivo dell’improvviso trasloco e avrei dovuto risponderle che ne avevo le scatole piene di abitare con lei. Non sopportavo più che saccheggiasse il mio ripiano del frigorifero, né che saltasse ogni volta il turno delle pulizie. Non ero la sua serva e non ne potevo più nemmeno dei ragazzi che andavano e venivano a tutte le ore. Quando il campanello o il telefono suonavano, non si muoveva mai dalla sua stanza e toccava sempre a me rispondere, facendole da filtro quando c’era qualcuno che non aveva voglia di vedere o sentire. Dovevo studiare, non farle da usciere e da segretaria, senza contare gli sguardi di disapprovazione dei condomini che dovevo affrontare quando li incontravo per le scale. Non ero io la puttana del palazzo!

Tutte queste cose avrei dovuto dirle fuori dai denti, ma non ci sarei mai riuscita, perché in fondo erano solo scuse. Nella mia decisione di andarmene, infatti, c’erano ben altri motivi che non avrei mai avuto il coraggio di confessarle. Sara era spudoratamente bella; io, invece, diciamo la verità, io ero decisamente bruttina e, a parte l’invidia per la popolarità di cui godeva tra i ragazzi, da un po’ di tempo mi ero resa conto di provare per lei un’insolita e inquietante attrazione. L’unico modo per non lasciarmi coinvolgere in quella che ritenevo solo un’insana curiosità, era togliermi dai piedi e cambiare aria.

Svoltando in Via Riello notai subito un’insolita animazione che si concentrava davanti alla nostra palazzina. C’erano diverse macchine della polizia e, un po’ discosta, ce n’era una dei carabinieri il cui equipaggio osservava l’agitarsi dei colleghi della questura con ironico e professionale distacco. C’era perfino un camion dei vigili del fuoco che se ne stava andando e un’ambulanza era ferma davanti al cancelletto. Un gruppo di condomini sostava di fronte all’ingresso e uno di loro mi indicò a un tizio di mezza età in borghese, basso e tarchiato.

— Ecola, la xè ela… — sentii che dicevano. Tutto quello spiegamento di forze mi sembrò esagerato per un barattolo di pelati e un vasetto di olive che avevo fatto scivolare nella borsa prima di arrivare alla cassa del supermercato. Il resto della spesa, in fondo, l’avevo regolarmente pagato. Doveva trattarsi di qualcosa di più grosso, ma avevo la coscienza pulita, a parte il mio ridicolo esproprio proletario. Cos’era successo? L’uomo basso e tarchiato uscì dal cancelletto e mi venne incontro.

— Sono il commissario Locurto — si presentò porgendomi la mano. — È lei la compagna d’appartamento di Sara Mancuso?

— Sì, sono io, perché? — chiesi perplessa, appoggiando a terra uno dei sacchetti e stringendogli la mano.

— Una disgrazia. Un suicidio o un omicidio, non lo sappiamo ancora. La sua amica è precipitata giù dal quinto piano.

Sentii improvvisamente che le gambe non mi tenevano e lasciai andare a terra anche l’altro sacchetto.

— È… è morta? — chiesi, appoggiandomi alla rete che delimitava il giardino attorno alla palazzina.

— Impossibile sopravvivere a una caduta da quell’altezza, signorina… — sospirò Locurto. — Mi dispiace. Se la sentirebbe di riconoscere il… sì, capisce, prima di avvisare la famiglia vorremmo essere sicuri…

Non capivo più niente. La mia insana curiosità aveva fatto una drammatica fine e non c’era più.

— Andiamo… — sussurrai con il cuore che sembrava impazzito. Il commissario mi condusse sul retro della palazzina e mi indicò una sagoma ricoperta da un telo, circondata da una pozza di sangue che aveva già cominciato a rapprendersi. Mi sentii mancare e dovetti appoggiarmi a lui.

— È sicura di sentirsela? — mi chiese, ma non risposi.

Non me la sentivo proprio ma, contro ogni evidenza, speravo ancora che si fosse sbagliato e non si trattasse di Sara. Continuai ad avanzare con le gambe che mi sostenevano a fatica e quando fui davanti al telo, a un cenno del commissario un agente ne scoprì un lembo. Era proprio lei.

Credo che difficilmente potrò scordarmi il suo bellissimo volto così come mi apparve in quel momento, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta a inseguire l’eco silenzioso di un urlo che il violento impatto con il suolo aveva spento. Le gambe mi mancarono del tutto e caddi letteralmente addosso a Locurto. Dovetti aver perso i sensi per qualche istante, perché mi ritrovai distesa sopra una barella nel tratto di giardinetto tra il cancello e l’ingresso della palazzina. Un infermiere mi stava passando sotto al naso una boccetta dalla quale fluiva un odore penetrante.

— Si è ripresa — disse l’uomo.

— L’ha riconosciuta? Era proprio la Mancuso? — mi chiese il commissario accucciato accanto a me.

— Sì, era lei — risposi, mettendomi seduta sulla lettiga.

— Crede che la sua amica avesse qualche motivo per suicidarsi?

— No, non era proprio il tipo — risposi, anche se negli ultimi tempi avevo scoperto in lei qualche insospettabile fragilità.

— Commissario, la signora Brombìn sta un po’ meglio — annunciò un agente. Mi accorsi che accanto a me c’era un’altra barella sulla quale stava stesa l’anziana signora che abitava nell’appartamento sotto il nostro. Il commissario si sollevò in piedi e tornò ad accucciarsi accanto alla donna.

— Signora, se la sente di rispondere alle mie domande? — le chiese e lei annuì.

— Lei abita sotto all’appartamento delle ragazze?

— Sì…

— Ha sentito qualcosa prima che la Mancuso precipitasse?

— Sì, un gran fracasso… e delle voci.

— In quanti erano?

— Due. Sentivo la voce della ragazza e quella di un uomo che urlava come un matto: “Ti ammazzo, ti ammazzo!”

— E la Mancuso?

— Lei rispondeva… “no, no, posso spiegarti, non farmi male!”

— E poi?

— E poi gliel’ho già detto: un gran fracasso, come se buttassero all’aria l’appartamento.

— L’ha vista cadere la ragazza, signora Brombìn?

— Sì, sono uscita sul terrazzo per vedere cosa stava succedendo. Ho guardato in alto e l’ho vista seduta sul parapetto. “Mariasanta” mi sono detta. “Xè pericoloso, ‘desso la casca”. E infatti… la xè cascà…

— Secondo lei l’hanno spinta?

— Non saprei. Io l’ho solo vista cadere. Ha appena fatto a tempo a lanciare un urlo che se ci penso mi viene ancora la pelle d’oca. Mi ha guardato negli occhi mentre mi passava davanti. “Elide, aiutami!” pareva dicesse. Che spavento, commissario! Sono ancora qui che tremo!

— Lei la conosceva bene, signora Elide?

— Buongiorno e buonasera quando la incontravo per le scale e niente di più. Però era gentile. Più di una volta quando l’ascensore era guasto mi ha aiutato a portare le borse della spesa. Gentile e bella, signor commissario. Anche troppo bella! Attirava i ragazzi come il miele attira le mosche. C’era un gran via vai e tutti ci andavano per lei, non per l’altra. A dire la verità, l’altra è proprio bruttina e vicino alla povera Sara sembrava ancora più brutta.

La signora Brombìn non s’era accorta che me ne stavo a due passi da lei e sentivo tutto. L’altra ero io e la signora aveva ragione. Vicino a me Sara sembrava ancora più bella e io ancora più uno scorfano, ma sicuramente il mio aspetto non sarebbe migliorato ora che lei non c’era più. Sarei rimasta ugualmente uno scorfano. Mi venne da piangere, e non solo per la drammatica fine di Sara. Se anche una vecchia megera mi vedeva brutta, non c’era rimedio. Ero orribile e tale sarei rimasta anche cambiando alloggio.

— Commissario, questi due signori vorrebbero parlarle — annunciò un agente in divisa avvicinandosi. Dietro a lui apparvero i Camporese, una coppia di mezza età che abitava al primo piano.

— Stavamo rincasando, quando è venuto giù di corsa dalle scale un giovanotto — raccontò lui. — Ci è passato davanti senza salutare; se non stiamo attenti a scansarci, quasi ci viene addosso!

— Quando è successo? — chiese Locurto. — Prima o dopo che la Mancuso cadesse?

— Dopo, dopo — intervenne lei. — Non sapevamo ancora della ragazza, ma appena entrati in casa abbiamo sentito gridare e siamo corsi sul terrazzo a vedere cos’era successo.

— Abbiamo capito subito che quel toso aveva a che fare con la disgrazia. Sembrava sconvolto — la interruppe il marito.

— Lo conoscevate?

— Di nome no, ma non era la prima volta che lo vedevamo salire al quinto piano e spesso lo abbiamo visto andar via o rientrare proprio in compagnia della tosa che è morta.

— Lei sa chi poteva essere? — chiese Locurto rivolto a me che me ne stavo ancora seduta sulla lettiga.

— Sara aveva molti amici… — sospirai. In quel momento uscì dal portoncino un agente che reggeva in mano la tracolla di una borsa di cuoio grezzo molto in voga tra gli studenti, specialmente tra quelli che militavano nei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare.

— Nell’appartamento delle ragazze ho trovato questa — annunciò.

— È sua o della sua amica? — mi chiese Locurto. La riconobbi, era di Fabio, l’ultima fiamma fissa di Sara. A quanto ne sapevo lei a luglio l’aveva definitivamente scaricato. Che ci faceva quella borsa su da noi? Dovevo dirlo di chi era?

— No, non è nostra — mi limitai a rispondere. Locurto l’afferrò con la punta delle dita. Sbirciò dentro e ne estrasse un libretto universitario che si affrettò ad aprire.

— Zampieri Fabio — scandì, leggendo il nome sul frontespizio del documento. — Le dice qualcosa?

Prima o poi Locurto avrebbe scoperto cosa c’era stato tra Fabio e Sara. Tanto valeva che glielo dicessi.

— È l’ex ragazzo della Mancuso — risposi.

— Lo riconoscete? — chiese Locurto ai coniugi Camporese, mostrando la foto sul libretto.

— È lui che ci ha quasi travolti sulle scale — dichiarò sicuro il marito e la moglie confermò.

— Caso risolto in un quarto d’ora? Non mi sembra vero… — mormorò Locurto.

Non potevo credere che Fabio avesse scaraventato davvero Sara giù dal quinto piano. Era un bravo ragazzo, molto diverso dai figli di buona donna con i quali lei era solita accompagnarsi. E poi era anche carino, bruno e con gli occhi scuri, alto e ben fatto. Un tipo che avrebbe potuto far girare la testa alle donne, anche se aveva l’aria di non esserne del tutto consapevole. Di sicuro Sara non lo meritava. Me lo sentivo che una volta o l’altra si sarebbe messa nei guai, ma mi sembrava incredibile che potesse finire a quel modo, e proprio per mano di Fabio. Eppure tutto sembrava contro di lui.

— Riesce a stare in piedi, signorina? — mi chiese uno degli infermieri. — Se sta meglio ce ne andremmo.

Provai ad alzarmi e ci riuscii, anche se mi sentivo pesante come il piombo. I barellieri aiutarono a rimettersi in piedi anche la signora Brombìn, recuperarono le lettighe e se ne andarono con l’ambulanza vuota. Il corpo di Sara sarebbe stato portato via dalla polizia mortuaria più tardi, dopo i rilievi della scientifica e il permesso del magistrato di rimuovere il cadavere. Fu allora che intravidi Fabio Zampieri avvicinarsi sulla sua scoppiettante Lambretta bianca e rossa, osservando incuriosito la gran confusione davanti alla palazzina. Ma perché era tornato, pensai, se era lui il colpevole?

— Eccolo. È lui. È lui il ragazzo che scappava per le scale — sussurrò Camporese rivolto al commissario. Fabio era arrivato davanti alla palazzina e, come se tutto quel movimento non lo riguardasse, era sceso dalla Lambretta e l’aveva issata sul cavalletto. A un cenno di Locurto due agenti in divisa gli si avvicinarono, lo presero sottobraccio e glielo trascinarono davanti.

— Sei tu Zampieri Fabio? — gli chiese il commissario.

— Sì, ma cos’è successo? — replicò lui guardandosi attorno incredulo e sbalordito.

— Non fare il finto tonto, ragazzo, lo sai benissimo! — rispose Locurto.

— Ma io… io non so niente! Sono tornato a prendere la borsa che ho dimenticato da un’amica! — si giustificò Fabio con aria smarrita.

— È questa? — gli chiese Locurto mostrandogliela.

— Sì, è quella… ma…

— E allora ti dichiaro in arresto per l’omicidio di Sara Mancuso.

— L’omicidio di… Cos’è, uno scherzo?

— No, ragazzo. È una faccenda dannatamente seria — rispose il commissario facendo cenno ai suoi uomini di portarlo via. Un attimo dopo Fabio venne caricato di peso sui sedili posteriori di una volante color verde oliva. Due agenti gli si piazzarono ai fianchi e la macchina sgommò via a tutta velocità.

Ero giù di corda e stanca come se avessi fatto trenta chilometri a piedi. Mi sarei stesa volentieri sul letto, se mai avessi trovato il coraggio di rientrare in casa.

— Signorina, il vostro appartamento è sotto sequestro — mi annunciò Locurto come se mi avesse letto nel pensiero. — Mi dispiace, ma per qualche giorno dovrà cercarsi un’altra sistemazione. Non ha dei parenti qui a Padova, o degli amici che possano ospitarla?

Sì, un posto dove andare ce l’avevo: la stanza che avrei dovuto occupare la settimana seguente era già libera e tanto valeva andarci subito. In ogni caso, anche se me l’avessero permesso, non avrei avuto l’animo di restare a dormire da sola  in quell’appartamento.

— Posso almeno prendere le mie cose? — gli chiesi.

— D’accordo, può farlo, ma l’accompagnerà un agente. Non vorrei che inavvertitamente potesse alterare qualche elemento di prova.

Fu così che tornai a mettere piede per l’ultima volta nel nostro alloggio. Il soggiorno era tutto sottosopra. Il tavolo era stato rovesciato sul pavimento, una piccola scaffalatura era a terra con tutti i suoi libri e una sedia era stata scaraventata contro la porta a vetri del terrazzo che era andata in frantumi. Rimasi sconvolta e mi chiesi come fosse possibile che un tipo tranquillo come Fabio potesse trasformarsi all’improvviso in una furia talmente scatenata da provocare tutto quello sconquasso. Feci l’atto di addentrarmi nel locale, ma fui prontamente fermata dall’agente che Locurto mi aveva messo alle costole.

— No, signorina, meglio di no — mi disse. — Ho l’ordine di accompagnarla nella sua stanza e solo lì lei può entrare.

L’agente mi scortò in camera mia e cercai di riempire alla meno peggio borse e sacchetti di plastica di emergenza con tutte le mie cose. Ero tornata a Padova solo il giorno prima e non avevo ancora svuotato le mie due valigie, così le richiusi e presi tutto il resto, perché non avevo alcuna intenzione di rimettere piede là dentro. Vedendomi scendere con tutta quella roba, Locurto si impietosì e mi mise a disposizione una vecchia Millecento nera con targa civile, guidata da un tizio vestito con un completo dello stesso colore che anche in borghese aveva tutta l’aria di essere un questurino. In un quarto d’ora arrivai a destinazione, con grande sorpresa delle mie nuove coinquiline, che mi aspettavano solo per la settimana dopo. Mi ero presa qualche giorno per parlare con Sara e regolare con lei tutte le pendenze in sospeso, ma purtroppo non ce n’era più bisogno.

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