Quando gli dei torneranno

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Formato: Epub, Kindle

Autore: Massimo Licari

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-186-0 Categoria: Tag:

Descrizione

Quando gli dei torneranno si ispira agli scritti di Sitchin e alle sue teorie sull’origine della civiltà sumera e la storia si dipana su un doppio piano temporale: trentamila anni fa ed oggi.

Trentamila anni fa, il mitico popolo degli Anunnaki, abitante del pianeta Nibiru, arriva sulla Terra alla ricerca di oro, indispensabile per stabilizzare l’atmosfera del loro pianeta. Uno di loro, Enki, rivela in un diario le motivazioni che li hanno spinti a stimolare l’evoluzione di scimmie terrestri, e ad agire quasi come “Dei”, creando l’Homo Erectus prima e l’Homo Sapiens poi.

A causa dell’indole violenta dell’uomo, gli Anunnaki decidono però di eliminare la razza che hanno creato, inondando il bacino naturale in cui vive, corrispondente all’odierno Mar Nero.

Enki, convinto che nell’uomo ci sia comunque del buono, salva l’umanità dall’inondazione spiegando a Noè che cosa deve fare.

Il suo obiettivo è aiutare l’umanità perché riesca a vivere pacificamente e in armonia con il pianeta fino al prossimo passaggio di Nibiru all’interno del sistema solare.

Quando gli Dei torneranno, secondo Enki, troveranno una società umana giusta e armonica.

Nel presente, un finanziere italiano appassionato di archeologia, Luca Terenzi, è entrato in possesso di un antico manoscritto, proprio  il diario di Enki.

Terenzi è convinto che, quando gli Anunnaki torneranno nei pressi della Terra, tra circa duecento anni, completeranno la distruzione dell’uomo. Decide così di dare una “speranza” all’umanità costringendola a un nuovo inizio e, con la collaborazione di una setta religiosa, i “Servi di Cristo”, progetta la distruzione della quasi totalità degli esseri umani.

A contrastarlo, soltanto un giovane giornalista freelance, con l’aiuto dell’amica e compagna Elisabetta. Poche forze, di fronte alla determinazione (e ai fiumi di denaro) di cui dispone la setta.

Ma l’umanità merita davvero di essere salvata?

Che cosa accadrà se gli “Dei” Anunnaki torneranno davvero?

INCIPIT

Il sole trasforma la sabbia in oro e mi scalda la pelle. Disteso a pancia in giù su un lettino da spiaggia, ho l’unica preoccupazione di godere del massaggio che mi sta facendo una splendida vichinga in topless.

Sul tavolino accanto a me, un bicchiere con ghiaccio e un liquido rosso che sembra molto invitante riposa all’ombra di un ombrellino per cocktail.

La ragazza bionda si dedica con impegno alla mia schiena, e sembra incurante di qualsiasi cosa non sia io. Le sue mani sono fantastiche, ancora di più le sue tette che ogni tanto si appoggiano sulla schiena mentre massaggia. Non so che posto sia questo e come ci sia arrivato, ma non me ne curo più di tanto. Altre persone dividono con me questo angolo di paradiso. A debita distanza alcuni prendono il sole, altri chiacchierano tra loro. Non potrei desiderare di meglio in questo momento.

Il trillo della suoneria di un telefono si intrufola improvviso tra il suono della risacca, il caldo del sole e i riflessi d’oro della spiaggia. Sembra lontano anche se lo sento distintamente. Decido che non devo essere io a preoccuparmene. Chiudo gli occhi e cerco di eliminare quel trillo insistente dalla mente.

La ragazza prosegue col massaggio e lo struscio, aumentando la mia eccitazione e provocando un risultato davvero apprezzabile. Mi sistemo meglio sul lettino, in modo da non comprimere eccessivamente l’oggetto del piacere e per godere ancora di più delle sensazioni che la vichinga mi sta regalando.

Il trillo continua. Mi guardo intorno un po’ infastidito. Possibile che nessuno si decida a rispondere a quel cellulare?

Il suono però è familiare e soprattutto non sembra arrivare da così lontano.

Apro gli occhi e vedo appoggiato accanto al mio lettino un piccolo marsupio nero. Il fastidioso suono arriva da lì dentro. Non ricordo di avere un marsupio. Magari l’ha dimenticato qualcuno.

La tentazione di fregarmene è forte, ma quel suono non riesce a farmi rilassare.

Allungo la mano e afferro il marsupio, cercando di spostarmi il meno possibile per non interrompere il massaggio celestiale.

Apro la zip e tiro fuori l’oggetto fastidioso. Lo guardo un po’ incredulo: è il mio cellulare! È diventato caldo per lo sforzo di farsi sentire.

Divento rosso per l’imbarazzo e mi guardo intorno. Per fortuna nessuno sembra far caso a me e al mio fastidioso cellulare.

Premo il tasto verde e lo accosto all’orecchio. Chiunque sia, non avrà più di dieci secondi del mio tempo. Ho cose ben più importanti da fare in questo momento.

Dico un “pronto” piuttosto scocciato e, invece di ricevere una risposta, un trillo prepotente mi esplode nell’orecchio.

Avevo schiacciato il tasto verde! Forse ho sbagliato. Schiaccio ancora guardando il cellulare, ma quello continua a suonare.

Non funziona più, accidenti! Lo premo ancora, sempre più rabbiosamente, ma il trillo non cessa. Forse dovrei gettarlo in acqua.

Lo penso e decido di farlo. Sono costretto a chiedere alla fata massaggiante di fermarsi un attimo per potermi alzare e fare il mio lancio. Dalla sdraio all’acqua saranno almeno trenta metri, ma non penso di far cilecca. Le chiedo una pausa alzando una mano, e mi scosto per alzarmi, cercando di non mettere troppo in mostra il ben di Dio che in questo momento è presente e sveglio sotto il mio costume. Lui sembra felice di uscire dalla compressione che ha sofferto fino ad ora, io un po’ meno: mi vergogno. Che faccio?

Il cellulare continua a suonare.

Mi giro leggermente su un lato, cercando di nascondere il mio tesoro, e stendo il braccio per lanciare via quel brutto affare rumoroso.

Invece di prendere il volo verso l’acqua, quello rimane attaccato al palmo della mano senza smettere di squillare.

Mi sento il protagonista di una comica: tento di staccarlo ma non ci riesco. Comincio a sbatacchiare la mano come un ossesso. Nulla. Temo che presto mi coglierà una crisi isterica.

Comincio a sbatterlo sull’intelaiatura di legno del lettino, furente per quell’aggeggio che non ne vuol sapere di staccarsi dalla mano.

Lui suona, suona.

Il paesaggio da sogno nel quale sono stato immerso fino ad ora comincia a sbiadire. La sdraio, il sole caldo, la sabbia, la vichinga!

Qualche istante di confusione e le ultime immagini del mio sogno svaniscono lasciando posto alla mia stanza in penombra e al mio cellulare che sul comodino continua a squillare.

Guardo l’ora: le due del mattino.

Era un sogno, solo un sogno!

“Fanculo!” urlo in direzione del cellulare che squilla.

Mi pento di non averlo spento o di non aver attivato la segreteria telefonica: almeno dopo qualche squillo si sarebbe zittito.

Chi si permette di disturbare a quest’ora e con così tanta insistenza?

Guardo il display del telefonino, ma c’è solo un numero che non riconosco.

“Pronto!” bofonchio con la bocca impastata dal sonno.

“Signor Tancredi?” chiede la voce di uomo.

“Sì, chi parla?” chiedo seccamente.

“È il Tancredi giornalista?” insiste quello.

“Si, sono io. Lei chi è?”

“Preferirei sorvolare su questo punto adesso. Ho bisogno di incontrarla. C’è una storia che voglio raccontarle.”

“Sono le due del mattino e io stavo dormendo. Stavo facendo un sogno di quelli che ti capitano una o due volte all’anno. Cosa c’è di così importante che non può aspettare domattina? E poi, chi le ha dato il mio numero di telefono?”

“Mi spiace averla disturbata a quest’ora. Il suo numero me lo ha dato Padre Romeo. Mi ha detto che lei avrebbe potuto aiutarmi.”

“Padre Romeo?”

“Sì, esatto. Ho bisogno di vederla prima possibile.”

Padre Romeo. Non è uno che mi farebbe chiamare senza un motivo più che valido.

Sospiro.

“Di cosa si tratta?” chiedo al tipo dall’altra parte della linea.

“Non ne voglio parlare al telefono. Preferisco incontrarla di persona.”

“Facciamo domani mattina allora, così posso cercare di riprendere il sogno che stavo facendo nel punto in cui l’ho lasciato.”

“Preferirei vederci subito.”

“Adesso?” chiedo scandalizzato.

“Sì. Ho urgenza di vederla perché non so se domani sarò ancora in città. Non so nemmeno se sarò in Italia o se sarò vivo. Ho bisogno di vederla adesso.”

“Adesso…”

“Padre Romeo mi ha detto che lei è una persona disponibile.”

“Dovrò ricordare a Padre Romeo che la parola disponibilità funziona dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.”

“La prego, non so a chi altri potrei rivolgermi.”

Potrei sbattere giù il telefono mandandolo a quel paese, ma ho una sensazione indefinita che mi spinge a non farlo. Sono arrabbiato per essere stato svegliato a quest’ora della notte, ma c’è anche della curiosità.

“E va bene! Ho bisogno di mezz’ora per prepararmi. Dove ci vediamo?”

“La richiamerò tra mezz’ora e le spiegherò come raggiungermi.”

“D’accordo. Ci sentiamo dopo.”

Chi mi ha chiamato chiude immediatamente la comunicazione.

Rimango con il cellulare in mano a fissare il vuoto, tentando di afferrare i pochi residui del sogno che stavo facendo. Avrei voluto che la bionda massaggiatrice fosse rimasta, perché avevo in mente qualche tocco da artista da sperimentare, ma così va la vita.

Meglio farmi una doccia. In mezz’ora posso farcela. Anni e anni di risvegli all’ultimo minuto mi hanno reso piuttosto veloce.

Faccio il giornalista da vent’anni e negli ultimi quindici mi sono occupato di reportage. La vita di redazione non fa per me. Preferisco prendere lo zaino e partire per qualche improbabile destinazione, vivendo situazioni al limite, che amo raccontare con dovizia di particolari ai miei lettori.

Il tizio mi ha detto di essere stato indirizzato a me da Romeo. Padre Romeo. È un prete di una zona a sud di Milano, piena di casermoni popolari e di tanta gente che sbarca il lunario come meglio può.

L’ho conosciuto due anni fa, quando stavo facendo un reportage sul disagio nelle periferie delle grandi città. Emarginazione, criminalità, droga, prostituzione: ingredienti micidiali presenti anche a Milano in abbondanza, come in tutte le grandi metropoli che si rispettino.

Sono arrivato a lui grazie a tanti giovani che mi avevano fatto il suo nome. “Romeo”, come lo chiamano tutti nella sua zona, “potrà raccontarti le storie dei ragazzi che ha salvato” mi dicevano. E così andai a trovare Romeo.

Mi parlò della tratta delle bianche e dello sfruttamento di ragazze che spesso non hanno nemmeno diciassette anni. Mi raccontò anche di come sia difficile correggere la visione distorta di tanti ragazzi, i cui eroi da imitare sono criminali che vanno in giro con macchine di lusso.

Parlai con alcune ragazze, che mi raccontarono la loro storia terribile. Ed ebbi alcuni incontri non proprio piacevoli con piccoli malavitosi locali.

Padre Romeo, o semplicemente Romeo per me, è prima di tutto un brav’uomo, appassionato e leale. In breve siamo diventati amici, e spesso passiamo del tempo assieme solo per il gusto della nostra reciproca compagnia.

E adesso questa telefonata.

Se Romeo ha dato a quel tizio il mio numero, significa che qualcosa potrebbe interessare il mio lavoro.

Devo solo aspettare che richiami per dirmi dove ci vedremo.

Con tutti questi pensieri in testa, nel frattempo ho fatto una doccia, mi sono vestito e sono pronto per uscire.

Guardo l’ora: quasi le tre del mattino. Convinto di farmi un piacere, evidentemente, mi ha concesso del tempo in più.

Non finisco il pensiero che arriva una telefonata. Guardo il display e il numero che appare è sicuramente diverso da quello di prima.

Ho imparato a prestare attenzione ai particolari, ed è stato molto utile in più di una occasione. Il numero di prima cominciava per 338 mentre questo comincia per 340. Chi potrebbe essere? Non mi resta che rispondere.

“Pronto?” chiedo.

“Tra venti minuti in Piazzale Baracca, a Milano. C’è un chiosco che fa panini ed è aperto tutta la notte. Ordinerò un panino wurstel e crauti con una Coca Cola” dice velocemente la voce dall’altra parte. Si tratta sicuramente della stessa persona di prima, l’ho riconosciuto. Ha usato un altro telefono. Se prende tutte queste precauzioni, la questione è davvero seria.

“Tra venti minuti sarò lì” rispondo.

La comunicazione viene chiusa senza aggiungere altro.

Prendo le chiavi della macchina ed esco dalla porta di casa.

Da qui ci vorranno quindici minuti. A quest’ora forse meno. Posso prendermela con comodo.

Raggiungo l’automobile e mi avvio senza correre.

Alle tre del mattino ci sono poche macchine in giro per Milano e spesso viaggiano come se fossero gli unici esseri viventi a girare in auto. Ho imparato che di notte è meglio dare una controllata a destra e a sinistra prima di attraversare un incrocio, anche se il semaforo è verde.

A quest’ora la città è silenziosa, quasi piacevole.

Arrivo in piazzale Baracca con qualche minuto di anticipo. Non so che faccia abbia il mio interlocutore, ma non credo sia un problema: lui sicuramente conosce la mia. Parcheggio, scendo e mi avvio verso il chiosco di panini.

Ci saranno cinque o sei persone che stazionano lì vicino. Qualcuno mangia, altri bevono una birra.

Il chiosco è rivolto verso la strada e alle spalle ha il giardino della piazza, con qualche panchina e alcuni alberi un po’ spelacchiati.

Passeggio un po’ con noncuranza, guardandomi intorno. Non vedo nessuno venirmi incontro. O il tizio è in ritardo, oppure è già qui da qualche parte che mi osserva.

A questo punto credo che mangiare qualcosa non sia una cattiva idea. Mi avvicino al chiosco e aspetto che si volti verso di me il tizio al bancone.

“Un hamburger e una Ceres” gli chiedo.

Mentre aspetto il mio panino, si avvicina un ragazzo sui trentacinque anni, che forse era seduto su una panchina del giardino, perché non ho sentito nessun’auto fermarsi. Potrebbe essere lui quello che sono venuto a incontrare, anche se mi sembra un po’ troppo dimesso. Una parte mi dice che non è lui, ma decido comunque di osservarlo attentamente.

Indossa dei jeans scoloriti, un maglione blu a coste piccole e un giubbotto di cotone, sempre blu. Il viso è piuttosto abbronzato. A fine maggio una abbronzatura così ce l’hai se lavori all’aperto o se ti puoi permettere un paio di settimane ai tropici. Da come si muove e dal suo aspetto, penso che non sia uno da vacanza al mare.

I capelli sono tagliati a spazzola, castani, come gli occhi che, a dispetto di quell’aria quasi noncurante, osservano attentamente ogni cosa intorno a lui. Faccio caso alle spalle leggermente incurvate e al suo modo di muoversi, silenzioso, sfuggente. Tutto in lui sembra inviare un messaggio preciso: non sono io quello che cerchi, non perdere tempo con me.

Se non mi fossi imposto di osservarlo attentamente, avrei già spostato altrove la mia attenzione. La mia curiosità innata mi permette di notare un particolare impercettibile: per un istante, solo un batter di ciglia, ho avuto la netta sensazione che mi fissasse con interesse. È stato un movimento del sopracciglio, o forse un leggero bagliore negli occhi. Non saprei dire, ma c’è stato.

Si avvicina al bancone e fa la sua ordinazione:

“Vorrei un panino wurstel e crauti e una Coca Cola.”

È lui. È bravo, accidenti. Si mimetizza in modo sorprendente. Non ha bisogno di nascondersi: riesce a passare inosservato stando in mezzo alla gente. Se non fossi stato attento, mi avrebbe sorpreso con la sua ordinazione. Mi sarei chiesto se si trattava di una coincidenza.

Lo guardo e gli sorrido. Ricambia con un occhiolino impercettibile, che mi conferma quanto sia bravo. Solitamente si tratta di un modo di fare tipico della persona sicura di sé. Lui appare in tutto e per tutto uno di serie B. Uno di quelli che sembrano avere una mozzarella al posto della mano quando gliela stringi, che non hanno una propria idea su nulla e si lasciano trasportare dalla corrente della vita, incapaci di governare la loro imbarcazione.

“Ecco l’hamburger” mi dice il tipo del chiosco. “Con la Ceres fanno cinque euro.”

Pago, raccolgo il panino dal piatto di plastica dove l’ha appoggiato, afferro la birra e mi sposto verso una panchina del giardino, qualche metro dietro il chiosco.

Mi siedo e comincio a mangiare lentamente, mentre tento di vedere cosa fa il mio uomo.

Dopo qualche minuto anche il suo panino viene appoggiato sul piatto di plastica del bancone. Paga, prende panino e Coca e si avvicina a me.

Con noncuranza si siede nella stessa mia panchina guardando da un’altra parte.

“Ciao Paolo” mi dice mentre si guarda intorno. Il tono della voce è caldo e il ritmo lento, denotando ancora una volta grande sicurezza di sé. “Il mio nome è Giuseppe. Scusami se ti do del tu, ma è molto più semplice.”

Ha parlato sottovoce, riuscendo a muovere impercettibilmente le labbra. Se qualcuno, distante anche solo dieci metri, lo avesse osservato senza dedicargli particolare attenzione, non si sarebbe accorto che è stato lui a parlare.

E per come si è seduto, sembra non abbia nulla a che fare con me.

“Bene, Giuseppe, eccomi qua come mi hai chiesto. Spero che tu mi abbia fatto alzare a quest’ora per un buon motivo. Diamoci pure del tu.”

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