Pronto: risponde l’assassino

15,00

Formato: Libro cartaceo, pag. 224

Autore: Maria Fazio

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-5539-039-2 Categoria: Tag:

Descrizione

Erica, una trentenne laureata in sociologia, svolge un lavoro che non la soddisfa, in un call center siciliano in cui sono impiegati circa settecento operatori. Un giorno, uno dei dirigenti viene trovato brutalmente assassinato, e l’indagine è affidata al commissario Farina, da poco trasferito in Sicilia e alla sua prima esperienza con un omicidio. Il call center è un microcosmo complesso, il poliziotto si rende ben presto conto di non avere in mano elementi utili alla soluzione del caso e chiede aiuto a Erica, dato che la ragazza gli pare sveglia e conosce bene il contesto, ma gli rimane il dubbio che la colpevole possa essere proprio lei. Durante le indagini l’assassino (o l’assassina), tra paure, debolezze e sensi di colpa, rivela il suo delitto a una cliente che ha chiamato il call center per ricevere assistenza, ma che si mostra piuttosto arrogante, e la minaccia di morte, destabilizzando il suo equilibrio emotivo…

Zero

 

«Io ho ucciso.»

La voce all’altro capo del telefono improvvisamente si zittì.

«Ho ucciso un uomo. Potrei uccidere anche te. Ho il tuo nome, ho il tuo indirizzo, il tuo numero di telefono. Posso trovarti ovunque, seguire i tuoi movimenti, aspettare di trovarti da sola, quando non te lo aspetti, e ucciderti

La donna balbettò: «Sta… sta scherzando?»

«No!»

 

 

Uno

 

Essere in ritardo non è un caso, né una conseguenza. È una scelta talvolta consapevole, per allontanare il più possibile un evento o un incontro sgradevole. Il ritardo sistematico è una fuga da se stessi.

La giovane donna fissò per l’ennesima volta l’orologio posto sul cruscotto, poi il suo sguardo nocciola si sollevò di nuovo sulla strada asfaltata che correva sotto gli pneumatici.

Detestava quel suo essere in costante in ritardo, ma non riusciva a farci nulla. Ogni volta si riprometteva di partire con il giusto anticipo ma i buoni propositi facevano a pugni con la sua insofferenza nei confronti di un lavoro in cui si era ritrovata per caso e di cui non riusciva più a liberarsi.

Scostò con una mano i capelli castani, un po’ mossi, che le ricadevano sulle spalle, poi rimise la mano sul volante, e accelerò. Guidare avrebbe dovuto rilassarla, di solito era così. L’abitacolo si trasformava in una bolla attraverso la quale poteva osservare il mondo, senza farne parte. Ricordò che quando a diciotto anni aveva preso la patente, l’auto era stata per lei una sorta di luogo sicuro in cui rifugiarsi ogni volta che aveva bisogno di silenzio. Adesso non sentiva più il bisogno di silenzio ma si sentiva ancora confortata dalla solitudine del posto di guida e dalla possibilità di tenere il volante tra le mani, come se fosse padrona di scegliere dove andare.

Sul sedile vuoto del passeggero qualcosa cinguettò. Non era proprio un cinguettio, anzi, forse era una sorta di monotono gracchiare. Il suo smartphone. Lei riconobbe la persona che la stava chiamando dalla suoneria personalizzata.

Raccolse l’apparecchio dal sedile e rispose senza distogliere l’attenzione dalla guida:

«Ciao Paola. Sono in macchina, sto andando al lavoro, ci sentiamo dopo».

La voce squillante all’altro capo era un tantino ansiosa e materna: «Erica, sei di nuovo in ritardo». L’affermazione non aveva dubbi.

«È tutta colpa di questi turni sballati.»

«Tesoro, devi trovare il modo per mettere un po’ di ordine nei tuoi ritmi, altrimenti ti ammalerai.»

Come se fosse facile!

I pensieri di Erica non si tramutarono in parole. Lei e la sua migliore amica avevano affrontato troppe volte l’argomento, ma Paola non era in grado di comprendere le difficoltà di un lavoro che si svolgesse su turnazioni miste.

Paola era una di quelle poche persone fortunate che avevano alle spalle un genitore con un’attività professionale avviata. Subito dopo la laurea aveva subito cominciato a praticare nello studio privato di suo padre, oculista. Nessun curriculum da inviare, nessun sito di agenzie interinali su cui iscriversi, nessuna ricerca spulciando la Gazzetta Ufficiale.

Erica provò a ricordare l’ultima volta che aveva inviato un curriculum ma lo aveva dimenticato. A un certo punto aveva finito per arrendersi.

Come tutti. No?

Viveva in Sicilia, una regione in cui il lavoro sembrava un miraggio raggiungibile solo grazie alle giuste conoscenze.

Aveva cominciato al lavorare al call center in attesa di trovare qualcosa di meglio ma poco alla volta aveva smesso di aspettare.

Il traffico era intenso e le automobili avanzavano con lentezza forzata, alcune scattando in avanti in un singhiozzo nervoso. Sulla Cinquecento beige, la giovane donna tamburellava con le dita sul volante. Si aggiustò lo smartphone che stava scivolando e disse, attraverso il microfono: «Detesto questo turno. Becco sempre un traffico micidiale».

La voce all’altro capo rispose con prontezza: «La settimana scorsa ti lamentavi del turno serale, perché rincasavi tardi e dormivi male. Non ti va bene nulla».

Erica si sentì abbattuta: «Non mi va bene cambiare ogni tre giorni perché così… lascia stare. Comunque sono quasi arrivata. Ci sentiamo dopo».

«Vabbè! A che ora mi richiami?»

«Se non mi revocano lo strao, esco alle 22.00.»

«Pensi che riuscirai a raggiungermi? Avrei voglia di andare in qualche pub.»

«Domani lavoro di mattina, dovrò alzarmi presto. Non credo di farcela.»

«Mmm… ho capito. Allora aspetto un tuo messaggio su Whats-App.»

«Ok!»

Non appena chiuse la conversazione, Erica azionò la freccia per immettersi in una via secondaria e cominciò a cercare parcheggio. Intanto si mordicchiava le labbra.

Il turno delle 16.00 era uno di quelli per cui era necessario un maggior numero di persone al call center, per cui era impossibile trovare un posteggio a meno di un chilometro di distanza.

Quando infine riuscì a scendere dall’auto, inserì l’allarme e si guardò i piedi sorridendo soddisfatta per aver indossato un paio di scarpe comode. L’aspettava un quarto d’ora di strada da percorrere a piedi. Forse di più.

I jeans che indossava erano chiari, un po’ larghi e la maglia con la manica a tre quarti perché, nonostante il caldo di quell’ora centrale, temeva che in serata le temperature si sarebbero abbassate. Inoltre in fondo alla borsa c’era un foulard ampio e colorato, per tutte le evenienze.

Camminò a passo svelto, in parte sul marciapiedi, in parte sul ciglio della strada, e intanto controllava sullo smartphone qualche eventuale notifica sui social network.

Le venne in mente che, fino a un paio di anni prima, il cellulare era per lei una sorta di soprammobile, da utilizzare solo in caso di emergenza, ma ultimamente non riusciva a farne a meno. Le esigenze di connessione erano diventate improrogabili.

Un po’ alla volta si era resa conto che tutte le informazioni ormai viaggiavano tramite i canali chat e social, per cui una mancata visua-lizzazione di notifiche su Google o su Facebook finiva per diventare una perdita di notizie definitiva. Non soltanto le sue amicizie comunicavano tramite gruppi virtuali ma anche i colleghi di lavoro, per aggiornamenti di servizio o per trovare cambi turno.

Arricciò il naso.

Non le piaceva, ma faceva parte del sistema, per cui vi si era dovuta adattare.

Il sistema. Ma perché bisogna essere così ingabbiati? Aveva ragione Carmelo Bene: noi non siamo persone, siamo semplici meccanismi di una catena di montaggio. Siamo una folla senza identità.

Ora basta con i filosofi e la filosofia! Meglio pensare a che cosa preparare per cena.