Piccole bugie bianche

17,00

Formato: Libro cartaceo pag. 236

Autore: Salvatore Buccellato

Note sull’autore

 

COD: ISBN: 978-88-5539-347-8 Categoria: Tag: ,

Descrizione

Piccole bugie bianche è una raccolta di dodici racconti che, a ben guardare, sono dei veri e propri romanzi brevi. Vi troverete delle storie che hanno sorprendenti risvolti fantascientifici, personaggi che da perdenti si trasformano (senza l’ausilio di cabine telefoniche alla Clark Kent) in supereroi; tempi e costruzioni narrative alla Tarantino e tante altre situazioni davvero particolari, inusitate.

I protagonisti così come noi, al di là di come possano sembrare, si dimostrano piccoli, fragili e umani e credo vi dispiacerà, arrivati alla fine, pensare di non sapere quello che gli succederà dopo. Perché Don Cosmo: un prete amante dei fumetti e delle donne procaci,  che è soprattutto una brava persona vicina a chi ha meno; così come la coppia di uomini che di fronte alla continua volontà degli “altri” di sottolineare il loro credersi “meglio” trova la maniera  di ribellarsi, o il racconto di una donna razzista che capirà sulla sua pelle che non ha alcun diritto in più solo per essere nata nella “parte  più opportuna” del mondo sono così vivi e interessanti da poter immaginare di creare degli altri racconti, cioè innescare una “serialità” (come va tanto di moda adesso).

Spero perciò che alla fine della lettura di queste pagine, anche il nostro carissimo lettore, possa avere il dubbio che talvolta la VERITA’ non ha solo una faccia e che potrebbe essere stata spesso sopravvalutata.

Bisognerebbe, per potere vivere meglio, cercare di capire le debolezze degli altri invece di criticare e di ergersi al ruolo di non richiesti giudici, e avere il coraggio di usare delle PICCOLE BUGIE BIANCHE.

LEONE

 Capitolo 1

Era d’estate, metà pomeriggio, ed era davvero caldo.

L’afa potevi sentirla addosso come una maglietta troppo stretta che ti segna il corpo. La pioggia cadeva, leggera ma incessante, già da alcune ore, ma questo non sembrava affatto dare certezze che almeno l’aria si sarebbe rinfrescata.

La giovane donna uscì dalla stazione della metro. Si era già pentita, confidando nella proverbiale imprecisione dei bollettini meteo che davano la giornata come piovosa, di aver scelto di indossare dei mocassini scamosciati, ma era comunque contenta.

Finalmente era tornata a Londra per le vacanze; lontana dall’università di Bristol dove, in barba alla Brexit, da sei mesi lavorava come ricercatrice. Anche se lei non era la classica italiana che ha paura di bagnarsi – soprattutto i capelli – cercò di ripararsi la testa con la sua inseparabile sacca toscana di cuoio e si incamminò decisa.

Al semaforo rosso, si trovò davanti un muro di altre persone che, come lei, dovevano attraversare.

Si rassegnò ad aspettare, quel pomeriggio non aveva fretta. Non aveva nessun ufficio da raggiungere o parenti da cui dover arrivare puntuale e nemmeno doveva tornare a casa per prepararsi una cena. Aveva parecchio tempo prima di incontrarsi con un collega – che non vedeva da Natale – nel pub di una coppia di amici dove, quando era a Londra, amava trascorrere i pomeriggi liberi per chiacchierare o cenare.

Come al solito era in largo anticipo, ma stavolta era perché, non avendo preso nota della data esatta del vernissage, aveva trovato ancora chiusa, per allestimento, la galleria d’arte che la sua amica Francesca le aveva caldamente raccomandata. Non ne fece un dramma e pensò che poteva benissimo utilizzare tutto quel tempo ordinando un bel boccale di sidro al pub dei suoi amici e cominciando l’ultimo libro che si era appena regalata.

Alla sua sinistra notò il gruppetto di uomini neri che stazionavano sotto un manifesto 3×6 con il logo di una nota catena di magazzini di elettronica. Alcuni parlavano tra loro, pronunciando frasi in lingue sconosciute, con fare concitato e con un tono di voce che lei riteneva fastidiosamente alto. Altri erano impegnati in conversazioni al telefono, spesso inserendo strani vocaboli inglesi, inventati o storpiati. Per lei non faceva differenza che fossero indiani, neri d’Africa o filippini, ma sentire la lingua che John Milton le aveva fatto amare martoriata in quel modo la scombussolava sempre, le faceva affiorare un sottile stato di malessere, una sensazione d’impotenza.

Era sempre più convinta che, grazie ai mezzi di informazione – dai quotidiani, alla TV, via via fino ai più popolari e stupidi tra gli influencer – la gente stesse subendo un vero e proprio lavaggio del cervello grazie al quale l’accettazione del diverso, del profugo, del perseguitato doveva essere la naturale evoluzione del pensiero umano; la filosofia del nuovo secolo alla quale bisognava adeguarsi.

Tutte queste non erano più solo sue supposizioni. Oramai ne aveva le prove perché tutte le volte che, parlando, l’argomento andava a finire sull’integrazione e l’accoglienza, nessuno aveva condiviso il suo pensiero, anzi i suoi colleghi l’avevano criticata aspramente. Finanche gli amici e il fidanzato, nell’ultimo week-end, dopo un’animata discussione su quei temi, probabilmente avevano pensato che lei fosse un’ipocrita e stronza razzista.

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