Descrizione
Il romanzo, che racconta gli eventi italiani del XX secolo, trattati servendosi del palcoscenico milanese, si divide in due sezioni. La prima, riguarda il periodo della salita al potere del Fascismo con tutte le conseguenze derivanti dal paternalismo greve della dittatura. Ne esce un quadro che dipinge le varie anime di un popolino laborioso, vittima del potere anche per propria incapacità e paura a contrastarlo. La seconda, parte dagli inizi della guerra ’40/’45, con il corollario di bombardamenti, morti, fame e disperazione e la rivalsa del artigianato. Fino alla costituzione della Repubblica Italiana. Racconto documentatissimo, scorrevole e reso interessante attraverso l’uso di modi di dire, anche in vernacolo e da figure meneghine, indigene o acquisite, di particolare vivacità. Su tutta la trama aleggia l’odore dell’arrosto, cibo di cui una giovane donna bellissima è golosa, e del quale avverte il profumo, ogniqualvolta sente nascere dentro di sé il desiderio sessuale.
INCIPIT
Capitolo I
Inverno 1938-39
La Giovanna, la portinâra si è alzata come al solito verso le sei anche se fa un freddo cane ed è ancora buio pesto.
Ha messo sul fornello il caffè, un miscuglio di surrogati vari, già infagottata nel vecchio paltò al quale ha accorciato le maniche e che le arriva alla caviglia.
Lo portava il marito defunto. Sotto, sbucano due scarpacce sfondate e un pezzetto di calzerotti fatti a mano. In testa si è messa una larga sciarpa di rayon, fermata sotto il mento. Dopo aver bevuto il caffè, accende la stufetta parigina che sfiata attraverso un lungo tubo sospeso al soffitto e che lei ha preparato per l’accensione fin dalla sera prima. Poi solleva l’asse sistemata davanti alla portafinestra e apre l’uscio. Il portico è illuminato fiocamente da una lampadina che pende dal soffitto senza paralume, mentre lei viene investita da una corrente d’aria fredda e umida. Rabbrividendo, richiude la porta e infila i guanti di lana, privi della punta delle dita, adatti al lavoro che svolgerà fra poco. Mani e piedi sono tormentati dai geloni. La crema che il fratello le regalava, capace di lenire il dolore, è finita da parecchio tempo e i soldi per comprarla non ci sono mai. Ne ricorda con nostalgia il nome: Apeina. Inutile pensarci: è troppo cara e se ne deve dare parecchia per ottenere un minimo di risultato. Afferra la scopa ed esce impettita dalla portineria, decisa a ramazzare con tutta la forza di cui è capace, per vincere il freddo e scaldare le povere ossa doloranti. Nell’atrio aleggia un tanfo d’umidore e d’urina. La portinaia arriccia il naso e si dirige verso una colonna alla cui base serpeggia una traccia lucente e grigiastra, terminante nella pozza giallina di una poderosa pipì.
Disgustata, borbotta fra sé e sé in meneghino: — Se el ciàpi quel lasàrôn che la nòtt el vên dênter a pisâ, ghe foo el coo gròss côme on bàlôn. — ( se prendo quel lazzarone che la notte viene a pisciare, gli faccio la testa grossa come un pallone).
Non può nemmeno immaginare che sia uno della casa a compiere un atto così deprecabile, nemmeno il Sergio, quel boione.
C’è sì, il Decimo, che sputacchia ovunque, ma pisciare no.
E poi nel cortile c’è il cesso alla turca.
Andiamo!
La casa si sta svegliando sull’ennesima mattinata di questo inverno milanese, caliginoso e squallido, e gli inquilini scenderanno, un po’ alla volta, diretti ai loro obblighi quotidiani. La Giovanna ferma la scopa un attimo per ascoltare i primi passi sulle scale: è il sciôr Pino, quello del terzo piano, il marito della Maestra. A lei viene il batticuore. Appena lui compare nell’atrio e prende la bicicletta dalla rastrelliera, la portinaia butta indietro la sciarpa e sistema un po’ i capelli, ricci e grigiastri, preparandosi a sorridere.
Ha un debole per il signor Pino; lo aspetta ogni mattina con ansia e quando lui arriva e la saluta con cortesia: — Buongiorno, sciôra Giovanna — lei si sdilinqua. Mentre le passa accanto sente il frusciare del giornale che lui ha infilato sotto la maglia per proteggere lo stomaco e il cuore dal freddo.
Poco più tardi viene giù, dall’ultimo piano, quel peso massimo della Teresa; scaracolla per le scale con la bimbetta in braccio e il maschietto attaccato all’ampia sottana.
— Giovanna — le fa — che giornâda schifosa! Povera Teresa!
Alle sette e un quarto deve già essere all’osteria dove lavora come cuoca e donna tuttofare, con quei due figlioli mezzi addormentati, appiccicati addosso. Fa questa vita da quando è rimasta vedova. Verso le otto la moglie dell’oste porterà il bimbo a scuola, mentre la piccola di quattro anni rimarrà con la mamma nella cucina dell’osteria a giocare con una vecchia bambola di pezza e i pentolini. La Teresa pesa novanta chili, possiede una tartaruga centenaria e, a parte il peso considerevole, la tartaruga e i figli, non ha praticamente nulla.
Il marito se n’è andato due anni innanzi, dopo un periodo di malattia che ha prosciugato i pochi risparmi della famiglia e lei si è dovuta adattare ad un lavoro qualunque che le permetta di sopravvivere con le sue creature. La Giovanna le vuole bene e cerca di aiutarla in tutti i modi possibili, soprattutto quando i bimbi sono malati e la madre è costretta a lasciarli a casa.
Passata la Teresa, arriva il Sergio.
È un ragazzo di diciassette anni e lavora in una ditta di biciclette. Corre fuori come un matto perché è in ritardo come al solito. La notte fa le ore piccole in giro per Milano con altri balordi, tanto che al mattino non s’alzerebbe mai.
— Bàlord! — gli borbotta dietro la Giovanna — fâcia de tôla — (faccia da pallottola).
Lui non la saluta né le parla da quel giorno della scorsa estate in cui ha dovuto pulire i muri delle scale dalle scritte che un buontempone ha ripetuto diverse volte col carbone e che si riferivano decisamente a lui: il Sergio ama la Cicci.
La Cicci è la figlia della Maestra e del signor Pino. Fra qualche mese avrà dodici anni. Una bella bambina coi capelli raccolti in due treccine castano rossicce e grandi occhi nel faccino minuto. È timida e gentile, mentre lui è un ragazzotto grosso e volgare che le corre dietro urlandole qualche apprezzamento non proprio civile.
Qualcuno, forse un amico burlone, ha imbrattato con quella scritta i muri della casa durante la notte, tanto il portone non chiude più da parecchi anni.
La portinaia, che già da tempo ha in antipatia il Sergio, si è precipitata da suo padre e gli ha detto di far pulire subito le pareti imbrattate altrimenti il padrone di casa l’avrebbe fatto fare a qualcuno, addebitandone a lui la spesa.
L’uomo ha preso il figlio per il collo e l’ha obbligato a pulire tutto con acqua e sapone, fra le risate dell’intero caseggiato.
— Sont mînga ‘sta mi! (non sono stato io!) — urlava il ragazzo, ma non c’era stato niente da fare.
Adesso il Sergio odia la portinaia e la strozzerebbe volentieri.
Lei è sicura che è stato lui ad organizzare lo scherzo della sveglia.
E sì, perché alla Giovanna, dopo quel fatto, hanno rubato la sveglia da sopra la credenza della cucina.
È andata così: si è presentato alla portineria un ragazzo con in mano una busta chiusa da recapitare al signor Colombo, il vecchio dell’ultimo piano che abita di fronte alla Teresa. — Sciôra portinâra — le ha detto educatamente — ciò una lettera da dare al signor Colombo. Dôe el sta? (dove sta?)
Lei ha risposto: — Al settimo piano, l’ultimo.
— Oh signôr! ho male ad una gamba e non posso fare le scale.
— Va bé — fa la Giovanna — da’ qua che gliel’allungo quando al ven giô. (viene giù)
— Ma no — rimbecca l’altro — ci vuole la risposta subito, che la devo portare all’ufficio che ha mandato la lettera. Mi han detto che è roba di soldi d’avere e il Colombo deve rispondere coi suoi dati. Una faccenda importânta e ürgênta, per lui.
La Giovanna sa, come del resto tutto il vicinato, che il Colombo, che ha fatto l’imbianchino da giovane, oggi, che è vecchio e malato, farebbe la fame se non avesse un aiuto dal figlio e allora, buona di cuore com’è, si mette sulle spalle lo scialle, prende la lettera e, borbottando, lascia il ragazzo in portineria e sale le scale fino all’ultimo piano dove consegna la missiva al destinatario.
Quello l’apre, legge e ride.
Sul biglietto c’è scritto: — Portinâra ven debàss che la sveglia la và a spàss (portinaia vieni giù che la sveglia va a spasso). Naturalmente il ragazzo se n’è andato e la sveglia pure.
— È stato quel porco del Sergio — nessuno glielo leva dalla testa alla Giovanna.
Adesso scende l’Isotta.
Risuona per le scale il tacchettio della scarpette, veloce e disinvolto, e la portinaia ferma la ramazzata e aspetta, appoggiata alla scopa. Si prepara a salutare e a sorridere. È forse l’unica donna, nel rione, che prova una forte simpatia per lei. Intanto si chiede: — Come farà ad attraversare i bastioni ghiacciati con quei tacchi?
Poi le viene in mente che una volta glielo ha chiesto e lei le ha spiegato che si toglie le scarpe all’inizio della traversata e indossa sui piedi un paio di calzette di lana, quelle che pizzicano ma sono robuste, per togliersele poi dall’altra parte e rimettersi le scarpe che ha tenuto in mano. — Un po’ laborioso — le ha detto — ma certamente più sicuro. In ogni caso — ha aggiunto — se cado finisco sul sedere e, visto che è bello grosso, è difficile che mi faccia male. — Ha buttato là una risata squillante con quella bocca a cuore e i denti bianchi e perfetti.
Com’è bella l’Isotta! Suscita l’invidia di tutte le altre donne.
Ha il corpo pieno di curve messe al posto giusto, i capelli fiammeggianti e un certo portamento da sembrare una regina. L’Isotta potrebbe fare l’attrice. Invece, poverina, è sposata al Giannetto, il facchino, ed è costretta a lavorare per arrotondare lo stipendio del marito. È una donna gentile e tanto seria, nonostante i mosconi che le ronzano intorno.
La Giovanna la saluta in meneghino: — Ciâo, bêla dôna.
E l’altra risponde. — Buona giornata Signora Giovanna.
Quel “signora” le scalda il cuore e le pare che, nonostante il freddo e i geloni che le torturano mani e piedi, la fatica di oggi sia più sopportabile.
L’Isotta si è appena allontanata, che arriva, a passettini brevi e guardinghi, l’Erminia, una compagna di partita a carte della portinaia. Si vede che oggi, in clinica, ha il turno del pomeriggio, cosa che accade di rado. Si accosta alla Giovanna e le mormora: — Te vist la Rossa, côme a l’è tüta in ghingheri? (hai visto la Rossa com’è tutta in ghingheri?).
L’altra la guarda di brutto e fa: — E àlôra? Côsa a ghé? (e allora cosa c’è?) — Nàgòta, nàgòta, (niente) ma io dico che quella lì ci ha uno che le compra la roba.
E si mette a recitare un proverbio meneghino: — El püsee bôn di rôss l’hà trà el sò pà in del pôss. (il più buono dei rossi ha buttato il padre nel pozzo).
La portinaia diventa verde dalla bile: — La tôa a l’è tüta invîdia. Perché a l’è bêla e ti, invêci…(la tua è tutta invidia, perché è bella e tu invece.) ci hai tre capelli in testa e un fisico de rengh. ( d’aringa )
Litigano e l’Erminia se ne va impettita.
Ma il suo rancore è di breve durata. Domani sera tornerà alla portineria della Giovanna per giocare a carte con le amiche ed ascoltare le canzonette alla radio o qualche discorso di Mussolini che le donne seguono, ognuna, con diversa considerazione. Infatti, delle quattro che di solito si riuniscono per la partita, due, fra cui la Giovanna, trovano gli interventi del Duce estremamente pomposi, mentre le altre si incendiano di sacro fuoco patriottico. Così, alle partite di rubamazzetto e di scopa, si alternano baruffe concitate e parolacce in puro meneghino. Niente di tutto questo riesce però riesce a scalfire la loro amicizia, basata soprattutto sul bisogno di incontrarsi per respirare una ventata di libertà dopo la lunga giornata di lavoro e di sacrificio spesso misconosciuti.
Alle otto o giù di lì, quelli che dovevano uscire sono passati tutti, anche il marito della Luigina, la materassaia, quello che scaracchia dappertutto.
Lei l’ha detto alla Luigina per la quale ha una vera simpatia: — A me mi fa un po’ schifo, te lo devo dire, e poi mi tocca di pulire. Non si deve fare, non è igiene. Se lo dico al sorveliânt, ci fa la multa.
— Oh signôr! mica denunciarlo il mio Decimo. Che quello fa un casino che lo mettono in galera! io ce l’ho detto, ma lui mi ha menato e basta. Va là, Giovanna, porta pazienza che quando ho venduto questo materasso, te foo on regàl (ti faccio un regalo).
E allora la Giovanna pulisce e sopporta.
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.