Non altro che me stesso

10,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Lu Paer

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-287-4 Categoria: Tag:

Descrizione

Carlo è un uomo di 35 anni che un giorno assiste al suicidio di una giovane splendida donna. Questo episodio lo sconvolgerà a tal punto da costringerlo ad abbandonare il ruolo di spettatore all’interno del quale ha vissuto buona parte della propria vita. Una stanza d’hotel diventa quindi la sua nuova casa, mentre tutta  una serie di accadimenti, coincidenze e terribili ricordi lo condurranno verso un finale tragico e possibile per ognuno di noi. ‘Lo spettatore’ è anche una critica severa  al ruolo, sovente distratto, dei genitori; non a caso il tema tanto attuale della violenza sulle donne viene letto  sotto una prospettiva diversa, solitamente non detta. In questo romanzo la rabbia si scontra costantemente con la tenerezza dove  l’unica   vittima risulta  sempre e comunque l’ infanzia. E da un ‘infanzia di dolore può scaturire l’angelo, o il demone.

INCIPIT

Primo giorno

17 dicembre 2014

Mi divora un’inquietudine strana, quasi un presagio. Sento una spinta a uscire, starmene solo. La sua presenza è ossessiva e opprimente. Avverte la mia distanza ed è allarmata. Non l’amo, non l’ho mai amata. Da mesi sto provando a dirglielo, ma ogni volta sembra svicolare. È la reazione di chi non accetta e prende tempo. Io di tempo non ne ho più, voglio vivere, e cambiare. È tutto stantio qui dentro. Abbiamo acquistato mobili nuovi nel tentativo cieco di rinnovare noi stessi, ma è stato solo un buco vuoto, anche nel portafoglio. Prendo il cappotto ed esco. Vado al bar, ma non ho voglia di parlare. È sempre rassicurante un luogo familiare, ma lo scotto è il dover rispondere alle cortesi aspettative degli altri, e stamattina me lo rende ostile. Mi metto in un angolo, la solita cameriera simpatica non c’è. Meglio così. Mi accendo una sigaretta, inspiro come fosse l’ultima boccata d’aria che questa vita mi concede. Tutto è intenso, tutto è vivo quando è nuovo. La prima aspirata della mattina mi fa sempre questo effetto: mi consegna quasi rinnovato, elettrizzato, a un’abitudine di sempre. Sono queste sfumature a confonderci; quando te ne distanzi abbastanza capisci quanto giriamo a vuoto.

La campanella della scuola di fronte esplode stridula e irritante, seguono voci assordanti di bambini in fuga, zaini variopinti. Sono tanti, tanti, ma c’è posto per tutti? E mi sembrano mosche. Non amo la moltitudine della folla, essa confonde con la prepotenza del numero lo scopo che la muove.

A un certo punto la vedo, è sola, come la volta scorsa. E all’improvviso comprendo che è la speranza di rincontrarla che mi ha trascinato qui, il primo giorno di ferie. Ha appena girato l’angolo ed è di fretta. Il suo passo decisamente spedito mette distanza, come se nella certezza di una meta non ci fosse spazio per l’imprevisto. Voglio vedere il suo viso. Butto i soldi sul tavolo e la seguo. Cammino al suo fianco e non mi sento più solo. È così bella, silenziosamente bella, che al solo osservarla ogni cosa torna al suo posto e in quell’ordine vanno a morire tutte le angosce e i patimenti del mondo. Lei mi guarda, solo un istante, ma ho la certezza che nulla sarà più come prima, come un sole dentro. Ha gli occhi blu intenso di una luce che avrebbe potuto trasformare ogni cosa, persino la rugiada in neve. Il rumore dei suoi tacchi mi riporta bambino, cullato e rassicurato dai rumori di casa. Mi lascio andare al ricordo, alzo gli occhi e l’ho persa. È solo un attimo. È un semaforo a dividerci, passa col rosso, improvvisamente sembra voler il vuoto intorno a sé. Nulla più la trattiene dall’incontrare quella corsa, nella quale affonda con impellenza. Accelera il passo verso un furgone che sembra ignorarla e, troppo tardi, frena. In quel volo ha la leggerezza di una farfalla; apre tutta se stessa al cielo che l’abbandona a quel tonfo. Eppure ho scorto un sorriso nella caduta. C’è tanto sangue, tutt’intorno rosso, senza vita. Gli occhi sbarrati, intensi e pesanti, sembrano nuvole incapaci di pianto.

Non so quanto a lungo rimango lì sull’asfalto, è tutto lontano. Il cappotto è pesante, non mi rialzerò mai più. E come in un film rivedo tutto, immagini vissute eppure estranee. Chi sono io, di chi è quella vita? Non mia, non più. Dove vado ora? Chi accoglierà tutto il mio sfacelo? Rimango piegato in due, penso che se sto rannicchiato sono più piccolo e provo meno dolore. Una voce lontana mi chiama “Signore, signore non può stare lì, posso aiutarla?” Sono troppo stanco per rispondere. Cerco un motivo per alzarmi, staccarmi da lei. Nulla, non trovo nulla. Cosa potrà sedurmi dopo di lei? Un profumo? Un fiore? Forse un’ombra, senza peso, né storia.

Sento le sirene dell’ambulanza, gli infermieri mi chiedono se sono un parente. “No.” “Un amico?” “No. No, No!” urlo. “Ma lei è nulla e tutto per me.” Non basta, non mi ci fanno salire. Mi siedo sul marciapiede. Piano piano tutto rientra nelle regole, le auto riprendono a transitare, sguardi curiosi ma ottusi. La vita nella sua mediocrità sorpassa la morte, sempre. Anche il dolore più intenso è programmato per essere assorbito dalle piccole cose della vita. I minuti scanditi ed eterni, i gesti insulsi, le giornate fatte di niente. Forse è per questo che si muore, altrimenti non ci si resetta. Serve lo strappo che ci distanzi dall’intorpidimento delle brevi distanze, delle povere infinite fatiche, dei gesti ripetuti e inconsapevoli. La morte è un’occasione; ricordiamocelo, quando saremo di là.

Non voglio andarmene, ma sento una presa sotto le ascelle che mi alza e sostiene. Assecondo questo gesto che so essere di pietà, e muovo alcuni passi. Arrivano i vigili del fuoco per coprire tutto quel sangue con la segatura. La segatura assorbe anche l’anima? Cominciano i primi rilievi. Piano piano riemergo e riesco a dare un senso a quello che vedo. Un uomo disperato si tiene la testa mentre urla come un ossesso: “Non l’ho vista, giuro, si è buttata sotto!” Io so che è così ma non ho voglia di dirlo, non voglio violare il segreto di lei. Provano a calmarlo, inutilmente.

Mi allontano perché le nostre disperazioni, anche se diverse, si stanno sommando e l’aria è irrespirabile. Non so dove andare. A casa no, non è più possibile. Giro a vuoto. Le strade le conosco, Padova è la mia città, ma tutto è nuovo. Ho bisogno di una tana dove nascondermi, e stare solo, al buio. Trovo un albergo, entro, lascio il documento, ordino una bottiglia di birra e salgo in camera. L’estraneità dell’ambiente mi conforta, guardo il letto che non è quello di sempre. Un attimo di euforia mi pervade, so che è possibile il cambiamento, e questa consapevolezza, solo per un attimo, mi esalta. Mi butto sul letto, accendo la TV sulla velina di turno, le chiappe che si dimenano fanno il vuoto mentale. Tracanno di getto la birra e crollo. Qualsiasi cosa pur di non sentire l’adesso. Non so quanto ho dormito, tutto è buio qui, non voglio sapere l’ora… e comincio a ricordare.

Un albero in giardino a cui non resistevo. Era un continuo richiamo, ogni volta una meta raggiunta con semplici gesti. Non riuscivo a stargli lontano. Cresceva con me. Era il fratello, l’amico che non avevo. C’era qualcosa che mi tratteneva e cullava, in lui. I suoi rami erano braccia accoglienti, ci salivo con il vento e la pioggia, con il freddo e con la neve. Una sera mi sono addirittura addormentato, non so davvero come non sia caduto. I miei, ormai buio, mi cercarono ovunque, e io su che dormivo sonni profondi, io che nel mio letto, già bambino, passavo notti insonni a immaginare altri mondi. Lassù ero in pace, mi si placava l’ansia e quel senso di niente. Non giocavo con i miei compagni, giocavo e parlavo solo con il mio albero. E a modo suo mi sosteneva perché quando i miei mi intimavano di scendere io mi ribellavo, rivendicavo il mio amore per quel tronco, quelle foglie, quell’odore unico che adoravo. Attraverso il contatto mi trasmetteva tutta quella vita che solamente in lui sentivo scorrere. Ammiravo il suo essere fiero e fermo sotto il sole cocente, i temporali, il vento che lo piegava, e rafforzava. Sapevo che con il suo esempio sarei potuto diventare un uomo.

Una sera d’inverno ci salii prima di cena. Faceva un freddo polare ma aveva da poco iniziato a nevicare e volevo vedere se di lassù i fiocchi erano più grossi, non limati dalla caduta. Sentivo già l’odore di neve che si mescolava al legno. Passò un po’di tempo, ero come rapito. Mia madre, convinta fossi in camera, continuava a chiamarmi per la cena. Quando si accorse che non ero in casa successe il finimondo. Mio padre si precipitò fuori a cercarmi, era furioso, prese una pila e la puntò in altro, verso di noi. Quando mi vide perse le staffe e mi ordinò di scendere. Ci misi un tempo infinito nel farlo perché avevo le mani gelate e mancavo la presa. Una volta a terra mi presi due schiaffi più forti di quelli che rifilava a mia madre quando litigavano come matti. Li incassai, salii in camera e non volli cenare. Aveva una faccia contratta e paonazza, più per l’ira che l’apprensione. I genitori spesso non sanno amare; non vogliono correre il rischio di crescere qualcosa che sia altro da loro, a meno che questo altro non dia lustro alle loro piccole vite. Il giorno dopo, non so perché, non volevo andare a scuola. Mi ci trascinò mia madre, volutamente avevo perso l’autobus. Durante la lezione di italiano la maestra mi chiese se stessi male perché a un certo punto una fitta di dolore al fianco, quasi una lama che entrava, mi tolse il respiro. Durò pochi minuti, poi com’era venuto se ne andò. Ma mi venne da piangere e senza vergogna né ritegno piansi, lì, davanti a tutti e nemmeno sapevo il perché. Poi passò anche il pianto, ma per tutta la mattinata non riuscii a concentrami e ascoltare. All’uscita da scuola temporeggiavo, continuavo a piantare i piedi nella ghiaia del cortile come a diventare albero, e cercare nuove radici. Per non muovere i passi del ritorno.

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