Nina Tempesta e le ceneri di Hilde

15,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Nicoletta Parigini

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-325-3 Categoria: Tag:

Descrizione

Nel Regno dei Calderoni, e in particolare nella capitale Stregonessa, dove convivono umani e Gente Magica, Nina Tempesta, uno gnomo-detective diventata strega, si trova a fronteggiare una pericolosa lotta generazionale tra Streghe della vecchia e della nuova guardia.

Tra un’avventura e l’altra, mentre cerca di sventare i piani dell’ostinata e temibile Yvette, e tanti personaggi, scienziati, briganti, stregoni, soci in affari che litigano, scappano, pensano, corrono e si innamorano, Nina Tempesta si domanda che cosa conti davvero nella vita. Questa ed altre questioni, come la ricerca della verità, il rapporto tra scienza e natura e il senso dei valori sono i temi profondi trattati con leggerezza in questo romanzo ricco di movimento e di invenzione.

INCIPIT

Li maledisse tutti quanti, urlò ogni possibile improperio al loro indirizzo, batté i pugni, si gettò per terra, spiccò un salto e poi saltò di nuovo e poi ancora. Finché saltò troppo vicino al ciglio dello sperone e finì giù. E per lei non ci fu scampo.

Toccò il suolo con un orribile tonfo prima che la draghessa facesse in tempo a riacchiapparla al volo.

(da: Memorie dei Sei Regni, libro ventinovesimo)

«Salvami!» ordinò mentre sbatteva sulla roccia nuda con un orribile, molle, tonfo. Sentì distintamente il rumore delle ossa che scricchiolano, delle carni tenere che perdono consistenza. Frollate come una buona bistecca.

Ma niente di tutto ciò doveva essere successo veramente perché dopo lo schianto si alzò da terra con uno scatto e si acquattò di nuovo, più rapida che poté. Se faceva finta di essere morta, rifletté, avrebbe avuto salva la vita. Proprio come uno scarafaggio.

Contò fino a cento, poi mosse la testa. Il maledetto drago era un punto lontano. Un piccolo neo sullo sfondo turchino, immacolato, del cielo. Si tirò in piedi, fece un passo verso l’orlo del precipizio, si sporse e guardò giù per un breve istante.

Una goccia di sangue le macchiò la scarpa. Si guardò attorno: una scia di cerchietti vermigli, sfrangiati e slabbrati, spiccavano sulla pietra polverosa.

Yvette frugò nella tasca e tirò fuori il fazzoletto. Tamponò il mento nel punto in cui sentiva la pelle tirare, ripiegò la pezzuola e strofinò via la macchia dal décolleté. Poi lasciò cadere quel cencio sporco oltre la sporgenza rocciosa. Il fazzoletto svolazzò giù, pigro ma deciso. E Yvette, seguendo il suo volo, si domandò come diavolo avrebbe fatto a scendere di lì.

Ispezionò palmo a palmo la ristretta superficie in cui era confinata. Aveva la forma di una breve piattaforma quadrangolare, libera sull’abisso per tre lati e addossata alla montagna sul quarto. Era una delle terrazze che frastagliavano il profilo di quella specie di contrafforte sul quale l’aveva deposta il maledetto drago.

Yvette si stese a terra e guardò giù: la scorza del pinnacolo appariva liscia e glabra. Non un appiglio, non una sporgenza, non un qualsiasi appoggio per il piede, si vedeva fino al terrazzo più vicino. tentare di trovarlo scendendo alla cieca sarebbe stata follia. Yvette rotolò sulla schiena. Posò le mani sul petto e chiuse gli occhi. Tanto valeva arrendersi, aspettare la fine senza muovere un dito più del necessario.

Il giorno si trascinò lento, inclemente come può essere l’attesa della morte. Al calare del sole, vide gli avvoltoi volare in circolo sopra di lei. Palpò il suolo, trovò una pietra, la scagliò in alto con un tiro sghembo. Il sasso rimbalzò sulla parete di roccia di fronte, tornò indietro, le ferì una gamba.

Allora si alzò. Si trascinò carponi all’ombra della montagna, si appoggiò alla roccia con la fronte. La pietra conservava il calore del sole; Yvette assaporò quel tepore come se fosse stato quello di un abbraccio.

Guardò su. Nonostante la vista dell’altezza le desse le vertigini, si disse che poteva provarci. Si spolverò la gonna e arrotolò le maniche del soprabito. Cercò un appiglio con le mani e i piedi, si issò con tutte le sue forze e cominciò a scalare la roccia.

Non aveva corde, né chiodi, né moschettoni e, anche se li avesse avuti, non sarebbe stata in grado di utilizzarli. L’unico equipaggiamento in suo possesso era l’istinto di sopravvivenza che quella scheggia, ferendole la gamba, aveva risvegliato: scoprì che era appuntito quanto una scarpa chiodata e tenace quanto una fune robusta. Dopo qualche metro di arrampicata riuscì a issarsi su un’ampia sporgenza, invisibile dal basso: doveva essere lo spiazzo in cui l’aveva posata il drago. Guardò giù, verso il punto dal quale era partita; la vertigine era paralizzante. Distolse gli occhi, acquattandosi contro la parete alle sue spalle. Avrebbe voluto accucciarsi e non muovere più nemmeno un passo.

Disse di nuovo “salvami!” ma non accadde nulla. Il Mandala non rispose una seconda volta. Perché doveva essere stato quel benedetto, miracoloso medaglione a premetterle di sopravvivere allo schianto. Quel medaglione che le era stato preso con l’inganno. Pensò alle sudice mani invisibili che l’avevano toccata per sfilarglielo dal collo e rabbrividì.

La collera le diede nuovo slancio; Yvette si rialzò e ricominciò a scalare. Il fianco della montagna non era liscio come le era sembrato. Si domandò se fosse stata la paura, la folle paura dell’altezza, a nasconderle gli appigli giusti quel mattino: doveva salire il più possibile finché ci fosse stata luce. Forse dall’alto avrebbe scorto un valico, una stazione di drago-navetta, una baita, un riparo qualunque. Pregò che la notte non la cogliesse durante la salita.

Così non fu. Centimetro dopo centimetro Yvette strisciò, tremando e gemendo, fino a una nicchia circolare abbastanza capiente da permetterle di sostare in relativa sicurezza e quando la notte s’infilò, buia e tremenda, fin nei pertugi della roccia, Yvette, immobile nel suo buco, osò lasciarsi andare alla stanchezza.

Poco dopo l’alba ricominciò a salire. Il silenzio e la solitudine della montagna, la grandezza degli spazi e del panorama nitido erano opprimenti quanto la penombra di una stanzetta angusta e Yvette si domandò per quanto avrebbe potuto tirare avanti. Aveva fame e sete e sentiva la speranza morire pian piano, soffocata dalla sensazione che la meta – qualsiasi fosse – era al di là di ogni ragionevole tentativo di raggiungerla.

Un rumore la sollevò per un istante dai cattivi pensieri. Yvette lo sentì farsi sempre più vicino. Si bloccò in ascolto di quello sbatacchiare lento, ritmico, come di una vela alla bonaccia. Si guardò attorno, la parete rocciosa le celava la vista nella direzione da cui giungeva il suono. Poi lo sciabordio cessò. Del terriccio franò dall’alto, Yvette sentì la polvere negli occhi.

“Perché ci hai portati quassù?” disse qualcuno sopra la sua testa. Era una voce che conosceva! Dove diavolo l’aveva sentita?

“Perché qui sono state bruciate le spoglie della Signora delle Streghe” rispose un’altra voce. Una voce che aveva un che di metallico e feroce.

La voce di un drago! indovinò Yvette. Un drago doveva essere atterrato in cima al monte.

“E allora?” disse di nuovo la prima voce.

Il drago rispose: “Non sapete quella storia sulla magia delle ceneri delle Streghe? Dicono che tra le ceneri delle grandi streghe rimanga un granello di magia…”

Bubbole! pensò Yvette.

Si distrasse seguendo il filo dei propri pensieri. La magia alla fine l’aveva tradita. Eppure, rifletté, in quel momento non avrebbe desiderato altro. Se avesse posseduto la magia, sarebbe stata lei la più grande delle streghe; l’unica dotata di solido senso pratico. Che gliene importava della retorica maghesca? Che se ne faceva del loro codice d’onore? Delle loro tradizioni, delle loro sciocche leggende? Tutte panzane!

Un nuovo brandello di conversazione catturò il suo interesse: “Finiremo che sarò già troppo vecchia per fare la strega catturamostri…”

Yvette tese le orecchie. Il cuore accelerò: che ci faceva Nina Tempesta in cima al Monte Cristallo? Cos’era tornata a fare? Stavano cercando il suo cadavere?

Yvette strisciò cautamente verso un riparo. Trovò un buco e vi si nascose. Da lì le voci dei suoi nemici giungevano ovattate, confuse. Capì che i due mezzatacca, e la draghessa con loro, cercavano qualcosa. Qualcosa di piccolo forse, un oggetto perduto in cima alla montagna. Che fosse il Mandala? Potevano essere idioti al punto tale da averlo perso lungo la strada?

Sentì la draghessa urlare “trovato!”; Yvette si allungò oltre la nicchia, li sentì discutere, poi l’aria vibrò. Una pioggia di scintille scese dalla cima della montagna. Yvette allungò una mano, ne acchiappò una; senza pensarci formulò il desiderio di essere al sicuro, lontana da quel nido di roccia. E quando la draghessa, magnifica nella sua ritrovata livrea rossa e arancio, prese a tessere la danza tra le nuvole, gli unici ad ammirarla erano Genzianina e suo cugino Verdefoglia.

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