Nessuna scelta

16,00

Formato: Libro cartaceo, pag. 320

Autore: Alessandro Cirillo

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-6690-198-3 Categorie: , Tag:

Descrizione

Un aeroplano si schianta su una nave da crociera americana al largo delle coste francesi.

Un sanguinoso attentato viene compiuto contro la nazionale di calcio statunitense in un lussuoso albergo di Roma.

Ancora una volta il terrorismo di matrice islamica torna a mietere vittime per mezzo dell’organizzazione più pericolosa al mondo, Justice of Allah (JOA).

I servizi segreti di mezzo mondo sono alla ricerca del suo leader, l’inafferrabile Omar Abdallah Hassan.  L’agente dei servizi segreti italiani Nicholas Caruso si unirà alla ricerca, che lo porterà fino al lontano Pakistan.

Tra inseguimenti e sparatorie, Caruso si accorgerà presto che Hassan non è l’unico nemico da dover affrontare.

Dopo Attacco allo Stivale, Alessandro Cirillo torna con un nuovo emozionante thriller d’azione.

INCIPIT

Montagne di Tora Bora (Afghanistan), 15 dicembre 2001 

La caverna era fredda e umida. La temperatura si aggirava intorno ai quindici gradi centigradi. Di tanto in tanto, una folata di aria fredda come la mano di un morto schiaffeggiava il viso delle persone che vi erano riunite. Il silenzio in quella stanza di pietra millenaria era interrotto dal ronzio di un generatore elettrico alimentato a benzina. Il macchinario, sporco e arrugginito, forniva energia a una serie di lampade, garantendo così una fioca illuminazione. Pochi litri di benzina tenevano a bada le fredde tenebre della caverna, che faceva parte del complesso montagnoso di Tora Bora, nell’Afghanistan orientale. Appena dieci chilometri più a sud si trovava la frontiera con l’ATAF, le aree tribali ad amministrazione federale pakistana. Il territorio era formalmente amministrato dal governo del Pakistan, anche se di fatto era controllato autonomamente da tribù di etnia pashtun.

Da alcuni mesi in Afghanistan era in atto una guerra in cui i talebani, che governavano il Paese da diversi anni, stavano avendo la peggio. Avevano dovuto abbandonare la capitale Kabul, martellati dalle bombe degli americani e inseguiti dalle milizie anti-talebane. Parecchi gruppi di militanti di Al Qaeda avevano trovato rifugio tra le montagne di Tora Bora, nascosti nel sistema di grotte dove, durante l’occupazione sovietica, i combattenti per la libertà avevano ricavato da quegli scomodi spazi dei locali adatti alla vita umana: dormitori, cucine, infermerie, armerie. A pochi chilometri di distanza si trovava il Pakistan, un luogo dove i nemici non avrebbero potuto seguirli senza rischiare di scatenare una nuova guerra.

Tra quelle persone rifugiate nelle grotte c’era anche un bambino di nove anni, Latif. Se ne stava sdraiato su una logora branda di metallo, la testa affondata nel grembo della madre che gli accarezzava i ricci capelli neri con una mano. Indossava un camicione bianco lungo fino alle ginocchia e dei pantaloni di lana. Sua madre, Tahira, lo aveva avvolto in una grezza coperta di lana per ripararlo dal freddo. Il bambino con una mano stringeva la lunga veste nera della donna che ricopriva tutto il corpo lasciando scoperti solo gli occhi. Il monotono rumore del generatore elettrico lo aveva fatto cadere in un sonno agitato, nel quale sognava le bombe che cadevano dal cielo distruggendo le case del quartiere dove abitava. Lui scappava con il papà e la mamma mentre il fuoco devastava ogni cosa. A un certo punto arrivavano loro, i demoni americani. Avevano lunghe corna appuntite e le loro bocche si aprivano in ghigni famelici da dove spuntavano denti aguzzi. Lui e i suoi genitori cercavano di scappare ma i demoni erano più veloci. Improvvisamente due grosse mani dotate di artigli affilati avevano arpionato il papà e la mamma. Latif si era voltato giusto in tempo per vederli divorare dai due demoni. Ora era il suo turno. Uno dei demoni avvicinava la mano al piccolo, sogghignando crudelmente. La mano stava stringendo la testolina di Latif quando improvvisamente il piccolo si svegliò di soprassalto. Sollevò di scatto la testa e scoprì con immensa gioia che la mano era quella di sua madre.

“Piccolo mio, va tutto bene?” chiese la donna.

“Ho fatto un brutto sogno” rispose il bambino, ancora scosso dall’incubo recente.

“E che cosa hai sognato di tanto brutto?”

“I demoni americani ci stavano inseguendo dopo avere distrutto la nostra casa. Poi avevano preso te e papà e dopo…” Latif non riuscì a finire la frase perché un groppo cominciò a salirgli in gola. Aveva voglia di piangere.

“No, Latif. I demoni americani non possono trovarci qui” lo rassicurò la madre accarezzandogli la guancia che cominciava a bagnarsi di lacrime.

Fu a quel punto che si avvicinò il padre del bambino con una tazza piena di tè caldo.

“Ragazzo, smettila di piangere. Non si addice a un uomo” disse al piccolo.

“Fahd, ha solo nove anni!” protestò timidamente la donna.

“Non dire sciocchezze. Alla sua età ero già in grado di usare pistole e fucili come un adulto.”

“I tempi sono cambiati.”

“Ah sì? Ti sembra davvero che i tempi siano cambiati? Guarda dove ci ritroviamo. La pace è durata solo per pochi anni. Sono secoli che qualcuno cerca di sottometterci. Gli americani sono solo gli ultimi della serie. Per noi non ci sarà mai pace. Questo è il motivo per cui dobbiamo sempre essere pronti a combattere. E per colpa tua, donna, nostro figlio non ha mai neanche partecipato a una zuffa per strada.”

“Ho sempre cercato di proteggerlo!”

“Taci! L’unico modo di proteggersi è essere più forte del proprio avversario.”

La donna non replicò e abbassò lo sguardo a terra, consapevole di avere perso la discussione. Fahd porse la tazza di tè caldo al figlio senza dire un parola.

Il bambino prese la tazza tra le mani e ne bevve un sorso. Il liquido caldo scese nella gola trasmettendogli un’immediata sensazione di calore. Lui voleva bene a suo padre anche se l’uomo non si era mai dimostrato particolarmente affettuoso nei suoi confronti. Era un ufficiale dell’esercito talebano e passava gran parte delle giornate fuori casa. Nel poco tempo che aveva trascorso con il figlio, lo aveva sempre trattato come un adulto e mai come un bambino. Era solito raccontargli la gloriosa storia del popolo afghano, che aveva combattuto Alessandro Magno, Gengis Khan, l’impero britannico e i sovietici. Latif ascoltava rapito le storie di epiche battaglie che il padre gli raccontava prima di andare a dormire.

Il bambino continuò a bere il suo tè mentre il padre ritornava a sedersi a un vecchio tavolo di legno sul quale erano appoggiati due fucili Ak 47. Attorno al tavolo c’erano altri due uomini, Issam e Akram, due subalterni dell’uomo che erano fuggiti con lui da Kabul. Nel complesso di caverne avevano trovato rifugio una ventina di uomini. Solo Fahd era riuscito a portare con sé la propria famiglia.

Fu Issam a prendere la parola per primo.

“Fahd, dobbiamo decidere cosa fare. Ormai sono giorni che siamo rintanati qua dentro. Prima o poi gli americani ci verranno a cercare.”

“Che vengano pure!” urlò Akram “queste grotte saranno la loro tomba!”

“Se rimaniamo qua saranno la nostra, di tomba. Sono giunte notizie che gli americani sono penetrati in alcuni complessi di grotte. È meglio fuggire in Pakistan, finché siamo ancora in tempo.”

“Preferisco morire combattendo piuttosto che scappare come un coniglio spaventato” disse Akram sbattendo un pugno sul tavolo.

Il piccolo Latif sussultò mentre il padre Fahd ancora non prendeva parte alla discussione, rimanendo a lisciarsi la lunga barba nera.

“E a cosa servirebbe farsi ammazzare? Faremmo solo un favore ai dannati americani” replicò Issam.

“Non ti preoccupare che prima di raggiungere Allah ucciderò ancora parecchi infedeli.”

Issam evitò di continuare la discussione limitandosi a scuotere il capo. Entrambi guardarono Fahd in cerca di una risposta.

L’uomo smise di lisciarsi la barba e finalmente cominciò a dire la sua.

“Caro Akram, sicuramente Allah non disprezza la tua voglia di resistere e uccidere più infedeli possibile. Tuttavia dopo aver riflettuto a lungo credo che la soluzione migliore sia tentare di raggiungere il Pakistan.” Issam si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

“Ora siamo allo sbando e le munizioni scarseggiano. In Pakistan troveremo altri fratelli e potremo riorganizzarci per poi ritornare a colpire gli americani. Non so dirvi quanto ci vorrà ma ci riprenderemo la nostra terra e la affideremo nuovamente nelle mani di Allah.”

“Così sia” augurarono insieme Issam e Akram.

“Partiremo tra due ore e marceremo tutta la notte. Date l’ordine agli uomini di prepararsi.”

I due fecero un cenno con il capo e si voltarono avviandosi verso un sentiero di roccia che li avrebbe portati in un’altra sezione delle grotte.

Congedati i suoi subalterni, Fahd si avvicinò alla sua famiglia.

“Cominciate a prepararvi anche voi, sarà una marcia difficile e pericolosa. Ma se tutto va bene alle prime luci dell’alba saremmo salvi in Pakistan.”

“Padre, perché andiamo in Pakistan?” chiese il piccolo Latif che ancora non aveva chiara la situazione.

“Per scappare dagli americani che vogliono ucciderci” rispose sintetico il padre.

“Ma perché vogliono ucciderci?” insistette Latif.

“Te l’ho già detto una volta. Perché sono delle bestie che hanno rifiutato la luce di Allah. Il loro unico scopo è sottomettere i fedeli dell’Altissimo per corromperli con i loro costumi depravati. Ti addestrerò come sono stato addestrato io alla tua età e farò di te un guerriero. Così potrai tornare con me per uccidere gli infedeli.”

Latif annuì anche se continuava a non capire molto di quello che accadeva. Lui non voleva diventare un guerriero ma sapeva che non avrebbe potuto opporsi a una decisione del padre.

Con una lunga sorsata svuotò la tazza, sperando che il genitore cambiasse idea riguardo al suo futuro.

Dalton Cox si passò la lingua sulle labbra mentre osservava ciò che aveva di fronte. Aveva appena trovato un accesso segreto che portava all’interno della montagna. Era stato abilmente nascosto da un telone mimetico ricoperto di vegetazione. Quasi impossibile notarlo dalla distanza senza un occhio esperto. L’apertura era alta appena un metro ed era larga settanta centimetri ma era sufficiente a far passare lui e la sua squadra. Si accarezzò la barba ispida che non tagliava da più di una settimana, nera come i suoi capelli. Gocce di sudore imperlavano la sua fronte, scivolando su una profonda cicatrice che aveva sull’occhio destro, omaggio della guerra in Iraq del ’91. Bei ricordi quelli, quando faceva ancora parte dei Marine Force Recon. Poi c’era stata l’aggressione a quella carogna del suo superiore e il congedo con disonore. Per sua fortuna la CIA aveva saputo trovargli un nuovo impiego. Da quasi dieci anni ormai faceva parte della Special Activities Division (SAD) della CIA, che si occupava di operazioni clandestine. La paga era buona e il lavoro divertente, anche se di tanto in tanto c’era da sporcarsi le mani.

Comunque non era quello il momento di pensare ai ricordi perché aveva una missione da compiere. Lui e altri due colleghi avevano l’ordine di penetrare nella montagna e di bonificare il complesso. Ad aiutarli c’erano una dozzina di miliziani anti-talebani, il cui compito principale era trovare tracce di Osama Bin Laden, che secondo il servizio di informazioni si nascondeva da quelle parti. Altre squadre come la sua stavano svolgendo compiti analoghi in tutto il complesso di montagne.

Cox si voltò a destra e incrociò gli occhi azzurri di Ethan Foster, un biondo e muscoloso ex marine come lui. La testa era rasata a zero e incrostata di fango. Alla sinistra di Cox se ne stava accovacciato Eduardo Rivera, di origine portoricana. Stringeva ancora in mano un lungo coltello da combattimento con la lama sporca di sangue. Un quindicina di metri più indietro, il talebano che era a guardia dell’ingresso segreto giaceva a terra con il cuore spappolato.

Cox attese che il gruppo di miliziani della sua squadra si avvicinasse all’ingresso. Li contò rapidamente constatando che erano tutti presenti.

Era il momento di scoprire dove conduceva l’accesso segreto. Infilò il visore notturno e tolse la sicura del suo fucile automatico M4 con silenziatore.

“Entro io per primo. Attendete il mio via libera” disse ai suoi compagni.

“Ok capo. Non metterci molto perché qui fuori siamo una bersaglio facile” rispose Foster.

Cox si infilò nel passaggio strisciando a terra, facendo leva sulle braccia muscolose. Davanti a lui si presentava uno stretto corridoio in discesa. Lo percorse per circa venti metri fino a quando si accorse che lo spazio intorno a lui aumentava. Ancora trenta metri e poté finalmente camminare in piedi. Cominciava a vedere delle fioche luci in lontananza e sentire dei rumori. Si accucciò dietro una sporgenza per poter osservare meglio la zona. Dopo pochi istanti scorse un gruppo di uomini armati che sembravano intenti a prepararsi in vista di un’imminente partenza.

Forse tra loro c’era anche Bin Laden ed esisteva un solo modo per scoprirlo.

“Via libera. Procedete con cautela fino alla mia posizione” disse attraverso l’auricolare che pendeva dal suo orecchio.

“Ricevuto. Stiamo arrivando” fu la risposta di Foster.

Cox si concesse un sorriso. Ancora pochi minuti e ci sarebbe stato da divertirsi in quella caverna.

 

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