Mercurio. Una storia vera.

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore:Carolina Venturini

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-213-6 Categorie: , , Tag:

Descrizione

Carolina è una giovane neolaureata trasferitasi a Roma per convivere con Giacomo, un eclettico professionista conosciuto online. La fascinazione del personaggio incontrato nel blog lascia spazio alla più cruda realtà di una relazione squilibrata, infelice e senza amore. Mercurio entra nella vita di Carolina e Giacomo quando il loro amore è già al capolinea e le fatiche del vivere a Roma hanno ormai preso il sopravvento.

Mercurio è il primo cane per entrambi ed è un nordico, un cane primitivo, dal fortissimo istinto selvatico. Sin dal suo arrivo, Merry diventa una guida spirituale per Carolina. La aiuta a vedere tutte le circostanze violente che persistono nella sua vita fino a convincerla a scappare in meno di ventiquattro ore portando con sé pochi averi e, ovviamente, il suo Mercurio.

L’intreccio del proprio destino con quello di un Alaskan Malamute non è per tutti: questa è la storia di un amore vissuto, ricevuto e trasformato e di un complesso percorso di crescita a maturazione per Carolina, alla ricerca della sua strada, accompagnata dal suo cane.

Prologo: mele e mandarini

«Mercurio! Svegliati! Alzati!… Sì, pronto? Aiuto, mi serve aiuto! Mercurio è collassato, sembra morto, sbava, non si muove. Aiutatemi!»

 

Sento la voce della mamma in lontananza ma è come un’eco che sfuma nella nebbia. Non so più dove sono. O forse sì? In mezzo al mare, tra le onde? Tutto, intorno a me, ruota e oscilla, ruota e oscilla. Vedo bianco. Ogni odore di campo è una zaffata. Ogni respiro è un vortice di nausea. Qualcosa mi risucchia. Precipito.

 

«Signora, provi a scuoterlo.»

«Ci provo, ma non si muove! Mercurio, amore mio, svegliati.»

«Signora, noi non possiamo raggiungerla, non abbiamo un’ambulanza veterinaria. Quanto dista la sua auto?»

«Siamo a tre chilometri dal parcheggio, non posso muoverlo, non si sveglia, non si alza!»

«Lo scuota ancora, più forte!»

 

Non sento più la voce della mamma. Sono in un buco nero. La terra si è aperta e cado, cieco, in un fondo senza fine. Il buio mi avvolge. Non rivedrò più la mia mamma.

 

«Mercurio, amore, amore, svegliati!»

 

Qualcosa mi afferra, mi scuote; vorrei non lo facesse, tutto gira senza sosta. Uno spiraglio di luce si fa strada. Mi manca l’aria, dove sono? Un grammo dell’odore della mamma si espande nelle mie narici e la vedo. La mia mamma. È qui. Sono salvo. Piange, mi guarda, ha paura, è con me.

 

«Sì è ripreso!»

«Lo copra con il suo giubbotto, avrà freddissimo. La aspettiamo qui, cerchi di arrivare prima che può.»

 

Era il giorno in cui la mamma stava con me senza prendere la cuccia che si muove per uscire da sola. Aveva piovuto tutta la notte; la mattina, né io né lei avevamo granché voglia di bagnarci. Negli ultimi mesi, una debolezza altalenante era diventata la mia compagna costante; a volte, come quella mattina, avrei preferito restare a sonnecchiare sotto al ginkgo biloba piuttosto che camminare. Poi, però, la mamma aveva preso le chiavi, il giaccone. Si era messa gli scarponi che usa solo quando esce con me. Mi aveva messo il collare. Aveva scaraventato il guinzaglio nella bauliera. L’ho guardata e ci siamo capiti: sapevamo entrambi che lo prendeva solo pro forma ma che non lo avrebbe usato. I premi in tasca mi diedero la conferma che sì, stavamo per andare nella Grande Distesa. Di solito li prende quando sa che potrei incontrare lepri o caprioli e me li sventola sotto al naso prima che decida di seguirne le tracce alla mia maniera.

Quel giorno la mamma era preoccupata. Mi diceva: «Speriamo di non incontrare nessuno per strada».

Quando scesi dall’auto, una zaffata di urina pungente mi arrivò subito al cervello: era passato Gringo, quel molosso enorme e presuntuoso. Aveva marcato nel posto esatto dove gli avevo segnalato di non marcare! Subito, però, qualcosa, dentro di me, iniziò a non funzionare. D’un tratto, l’orecchio destro cominciò a farmi male. Scossi il capo, sperando di scacciare il fastidio. Non era un dolore lancinante. Era più che altro una stilettata che si faceva pungente mano a mano che avanzavo. Percepivo più intensi tutti gli odori intorno a me: il pelo della famiglia di lepri passata da poco, le impronte nel fango dei daini e dei caprioli che avevano pasteggiato da qualche ora, le marcature della volpe che si era toelettata. Ben sette cani erano già stati lì a fare una passeggiata. Tutti i loro odori erano troppo forti, mi arrivavano al cervello e mi rivoltavano lo stomaco.

La mamma camminava lenta, mi guardava, mi studiava. Si accorse subito che mi faceva male l’orecchio. Me lo pulì. Il sollievo durò poco ma… Eccola! La traccia di Roger, il capriolo che gioca a nascondino con me tutte le volte!

Stavo per rincorrerlo quando l’orecchio tornò a pungermi. Piegai la testa di lato e, al tempo stesso, questo movimento mi portò una nausea a ondate. La mamma mi pulì di nuovo, ma l’effetto durò poco. Non avevo forasacchi e sicuramente era vero perché d’inverno non ci sono. Mi promise che, se non fosse passato, mi avrebbe portato dal veterinario; la cosa, detto fra noi, non mi esaltava, immaginando le torture a cui mi avrebbero sottoposto per vedere dentro le mie orecchie!

La Grande Distesa era il luogo che amavo di più in assoluto da quando ci siamo trasferiti: ampi terreni coltivati a rotazione, colline ricoperte da boschetti e rovi, un rio con acqua corrente e pareti ripide da scendere, isole sassose dove gli ungulati si fermavano sempre ad abbeverarsi. Le nutrie vi avevano fatto le tane. Tutt’intorno, canneti sporadici, rifugi di cacciatori e cataste di legna lasciate da contadini e boscaioli. Qualche deposito di balle di fieno, ristori in pietra con tetto in lamiera e, soprattutto, un’infinità di erbe selvatiche, fiori in primavera, tracce di greggi in transumanza, stanziali in loco per brevi periodi.

Adoro le greggi e, più delle pecore vive, adoro le pecore morte lasciate sul campo dai pastori: mi regalano ossa straordinariamente gustose, che competono solo con le ossa abbandonate dei caprioli smembrati nella boscaglia, bottini che trovo soprattutto nel periodo della caccia. La mamma non è contenta dei miei trofei, ma ha capito che, per me, tenere in bocca questi femori o teschi significa sentirmi lupo. Sappiamo entrambi che, una volta posato il tutto nel giardino di casa, non è mia abitudine fare alcunché.

Quel giorno, nella Grande Distesa non riuscivo a sintonizzarmi con l’ambiente circostante. Stavamo camminando da circa mezz’ora ed eravamo arrivati nello slargo del laghetto delle anatre selvatiche. Ero felice di essere lì perché c’era spazio, tutt’intorno a me, per correre senza dovermi preoccupare di nulla. La mamma era seduta sotto alla sua betulla preferita e io, vedendola, provai un moto d’amore immenso e di gioia di vivere profonda. Certo, mi sentivo a tratti debole ma, nell’aria, sentivo il profumo della neve in arrivo. C’era una quiete speciale. Dal cielo era comparso un raggio caldo di sole. La mia mamma mi guardava, era con me, i suoi occhi mi appartenevano. Sentii un impulso fortissimo di correrle incontro, saltarle addosso e darle mille baci perché l’amavo ed ero felice di essere qui con lei.

Il campo arato da poco era nella mia traiettoria: l’ho sempre adorato per la morbidezza della terra e perché posso sporcarmi le zampe. Corsi dalla mamma pieno d’amore.

Attraversai le zolle arate. Raggiunsi il prato con un grande sorriso, da zanna a zanna.

Lei capì che volevo le coccole. Si alzò, allargò le braccia per prendermi ma, proprio quando stavo per tuffarmi nel suo abbraccio, tutto girò su se stesso, mi mancò il respiro e fu prima buio poi luce estrema, infine la voragine. Ero pieno di paura, non capivo cosa stesse succedendo, chiamavo la mamma, ma la mia voce non usciva, provavo a correre per scalare il tunnel, ma le mie zampe erano rigide e bloccate. Dalla mia bocca usciva del liquido e sentivo che, dallo stomaco, saliva qualcosa di nauseante, acido e tossico.

La voce della mamma scomparve. Volevo dirle che la sentivo, che avevo bisogno del suo chiamarmi, che stavo combattendo per tornare da lei. Non capivo come fare. Non potevo. Non usciva alcun suono dalla mia gola e la bocca non si apriva. Il mio cuore era a mille anche se i battiti rallentavano sempre di più. Era questo morire?

Non so quanto tempo restai in questa condizione. Quando riaprii gli occhi e rividi la mamma che piangeva e che mi abbracciava, piansi anch’io.

 

«Amore mio! Amore mio! Resta con me, non morire, resta con me! Devi essere forte, devi alzarti! Dobbiamo andare alla macchina, dobbiamo andare dal veterinario. Ti aiuto, amore mio, ma devi alzarti! Bravo, così, piano piano! Resta con me, Mercurio. Resta con me!»

 

Avevo poche forze. Le impiegai per rialzare il capo; doveva sapere che c’ero e che non ero morto. Parlava al telefono con qualcuno, poi si tolse il giubbotto e, piena di ansia e di lacrime, mi disse:

«Merry, resta con me, guardami, resta con me, adesso andiamo. Merry la macchina è lontana quindi dobbiamo fare uno sforzo e raggiungerla. Resta con me, non andare via».

Mi mise il guinzaglio e camminammo fino alla macchina, io con la coda bassa, lei come in trance. Mi ripeteva continuamente:

«Resta con me, sono con te. La mamma è qui. Resta con me».

In lontananza, l’odore acre della sterpaglia bruciata mi fece rivoltare ancora lo stomaco, ma mi feci forza, guardando la mamma, e continuai a camminare.

Le zampe posteriori mi tremavano, la bile continuava a salire dallo stomaco.

Quando arrivai in auto, la mamma mi prese in braccio per farmi salire e guidò, sempre piangendo e sempre parlandomi, fino al veterinario.

 

«Da che parte è caduto il cane?» chiese l’anziana dottoressa.

«Dalla parte della testa che teneva piegata, a volte, per via dell’orecchio.»

«Molto probabilmente è sindrome vestibolare, un’infiammazione interna dell’orecchio, che gli dovrebbe passare entro una settimana.»

«Può avere a che fare con la sua insufficienza renale cronica?»

«No, l’orecchio non c’entra con i reni.»

«Sa, in questi giorni è strano, chiede in continuazione mele e mandarini; è come se non ne avesse mai abbastanza.»

«Non gli fanno male, ma gliene può dare al massimo uno al giorno.»

«Lui ne chiede cinque, sette al giorno. Non beve dalla ciotola. È normale?»

«Resti su un mandarino al giorno e su mezza mela. E gli dia questo antibiotico per l’orecchio.»

«Potrebbe capitargli di nuovo?»

«È stato un collasso lieve, signora. Può succedere che ricapiti e che abbia le convulsioni, anche molto forti.»

«E se succede, cosa posso fare per aiutarlo?»

«Niente, signora. Passano da sole.»

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