Descrizione
Camillo Mille, un passato da direttore strategico di una multinazionale e deluso dal mondo degli affari e da una vita priva di ideali e di punti di riferimento, si trova, a cinquant’anni, a insegnare presso un istituto per ragazzi con problemi comportamentali.
Due dei suoi allievi lo colpiscono in modo particolare: David, scalmanato ed egocentrico, e Mirta, misteriosa e introversa. Ad entrambi Camillo salverà la vita: a David, in difficoltà per essersi temerariamente tuffato nel mare in tempesta, e a Mirta, finita accidentalmente in un giro perverso di traffico di minorenni.
I due ragazzi vivono una situazione familiare difficile: il padre di David è infatti sempre lontano per lavoro, mentre i genitori di Mirta sono separati e vivono entrambi all’estero.
Mirta e David mantengono i contatti con il professor Mille e stringono amicizia con Lorenzo, il figlio di Camillo.
Le vicissitudini a cui andrà incontro, la capacità di trovare in se stesso il coraggio di agire e la generosità per mettersi in gioco permetteranno a Camillo di acquisire una nuova consapevolezza e di rinsaldare il rapporto con l’ex moglie Bianca e con il figlio Lorenzo.
INCIPIT
Memento
Il capo della creatura fantastica emerse dall’acqua, i lunghi capelli adagiati sulla schiena possente. Gli occhi luccicanti, di colore indefinito, si addentrarono nell’oscurità della notte scrutando all’interno del fitto bosco di lauri. Se mai avesse potuto ergersi, completamente, sopra le acque, avrebbe superato in altezza gli alti alberi che scendevano fin sulle ripide falesie, a picco sul mare. Nessuno aveva mai visto queste creature, anche se moltissime leggende sulla loro esistenza circolavano, da sempre, fra gli umani.
Solo nei giorni di tempesta la creatura poteva uscire allo scoperto e affrontare il mondo esterno. Questa maledizione la accompagnava dalla notte dei tempi. A lei il destino aveva riservato un regno immenso, sotto i mari. All’uomo il dominio della terra.
Un ben più grande potere la differenziava dagli umani: era in grado di modificare il destino della loro vita. Un potere enorme che, tuttavia, era concesso solo a coloro che avessero deciso di sacrificare la loro lunghissima esistenza. Le creature avrebbero trasferito la propria struttura atomica non in una ma in cento, mille abitanti della terra, mentre il corpo primigenio sarebbe rimasto, per sempre, scolpito nella roccia: chiunque lo avesse guardato con gli occhi del puro, sarebbe stato suo per sempre. La decisione, dunque, era stata presa.
Dopo quella lunga estate calda, la creatura aveva scelto una costa selvaggia e scura, dai folti boschi di lauri che scendevano fino sul mare: nel giorno della grande tempesta d’inverno sarebbe emersa mostrando, per l’ultima volta, la sua maestosa figura.
Nel mare scosso da giganteschi marosi, la creatura s’innalzò altissima, per poi ricadere a pochi metri dalla costa. Il corpo s’inabissò velocemente e, quando riemerse, s’irrigidì al tal punto da far esplodere le rocce sottomarine con cui venne a contatto e con cui si fuse, in un lampo. Il viso e la schiena, duri come la pietra di cui erano diventati parte, rimasero appena coperti dalla spuma del mare in burrasca ma, quando le acque si fossero calmate, essi sarebbero stati ben visibili a chi avesse osservato il mare dalla costa.
Solo chi avesse donato il proprio cuore alla persona amata avrebbe saputo vedere la creatura, imprigionata nella sua nuova vita, fino a quando la forza del mare non avesse distrutto la pietra di cui era fatta…
La scuola di formazione
Peter era salito su un banco e camminava su e giù tirandosi in basso i pantaloni e facendo piegare dalle risate i propri compagni. Gli occhi azzurri di Peter andavano in tutte le direzioni, come se non potessero perdere tempo a fissare qualcosa. Ipercinetico, non resisteva seduto per più di trenta secondi mentre la concentrazione durava ancora meno. Inoltre non amava stare negli spazi chiusi: praticamente una miccia accesa, pronta a esplodere.
Mirta si titillava uno spillo a doppia capocchia infilato nel labbro inferiore e navigava in internet dal computer dell’istituto, cercando siti pornografici, del tipo bondage. Aveva sedici anni e mezzo, era alta circa un metro e settanta, magra, bruna ramata tendente al rosso. Gli occhi di un azzurro intenso. Si sentiva, ed era, molto attraente. Aveva una voglia incredibile di fare sesso ma non come lo praticano tutti. Sentiva di dover sperimentare nuovi modi di vita che potessero diminuire la noia che provava tutti i giorni: da qualche parte aveva letto che una donna godeva di più se univa il piacere con la sofferenza.
Solange ascoltava musica dal telefonino ad alto volume con gli auricolari e scandiva il ritmo muovendo le braccia in tutte le direzioni. A detta di lei era abbastanza grassa, abbastanza brutta e, dulcis in fundo, abbastanza extra-comunitaria. Era sempre al telefono pur di non stare attenta in classe. In questo modo poteva sfogare la rabbia verso i suoi genitori. Ora doveva fare quel corso per magazzinieri! Ma che cazzo c’entrava con lei?
Abu Amat aveva quasi diciotto anni, non guardava mai nessuno e, nello stesso tempo, sembrava che guardasse tutti: d’altronde parlava male l’italiano e non capiva quasi niente di quello che dicevano gli insegnanti. I suoi genitori affidatari non erano mai riusciti a comprendere a che cosa fosse interessato. Né a che cosa pensasse mentre vagava con quello sguardo vacuo.
Jamal aveva sedici anni e leggeva un diario che ogni giorno aggiornava con nuove notizie sui suoi recenti amori, sui ragazzi che le piacevano e, soprattutto, sugli insegnanti che le piacevano: era incredibile quanti insegnanti interessanti avesse incontrato in questi corsi! Nell’anno precedente erano stati due gli insegnanti di cui si era innamorata… ma quelli non se ne erano neanche accorti! Sperava che questa fosse la volta giusta.
Paolo guardava annoiato fuori della finestra, era soprattutto assonnato: lavorava in un bar la sera e frequentava il corso per cambiare vita. Non sopportava più, a diciassette anni, di servire cappuccini e caffè a tutti gli sbandati del quartiere in cui lavorava: il suo obiettivo era diventare magazziniere e poter avere le ferie pagate con magari il sabato e la domenica liberi e tutte le feste comandate. Il suo unico problema era che non ce la faceva a stare zitto ad ascoltare: doveva costantemente intervenire anche dicendo delle stronzate. Se non fosse stato per quel piccolo problema, se ne rendeva conto, forse sarebbe già stato assunto da tempo.
Infine c’era David, che guardava Peter sorridendo: era il suo compare di ventura. Con lui in classe nessun docente poteva pensare, neanche lontanamente, di svolgere una lezione come si deve. David, al contrario di Peter, dava l’impressione di essere sveglio: poteva ammiccare con uno sguardo languido ma, in realtà, pensava al modo migliore per farti passare la voglia di insegnargli qualche cosa.
David aveva quasi sedici anni ed era il più giovane di quella classe di ragazzi, disadattati e con molti problemi d’integrazione. Il ceto sociale non era l’aspetto che li differenziava: appartenevano, indifferentemente, a famiglie incapienti o medio-borghesi. Li accomunava, invece, un obiettivo ben preciso: non avevano nessuna, nessunissima intenzione di integrarsi in quella società. Per David, la società in cui viveva era addirittura ridicola.
David aveva altri fratelli e sorelle, tutti più grandi, e nessuno lavorava. Lui, a chi glielo domandava, rispondeva orgogliosamente che non ne avevano bisogno: c’era già suo padre che portava la pagnotta a casa. E uno stupido in casa era più che sufficiente.
Peccato che non vedesse spesso suo padre perché, diceva, stava lontano di casa per mesi. E forse anche per anni.
Peccato che fosse figlio di una troia, così parlava della madre, di cui non rispettava né la persona né l’autorità genitoriale. Spesso usciva da casa alla sera e vagava per la città perché aveva bisogno di “fermare” la mente. Perché pensare, diceva, fa male. Arrivava a casa alle due o alle tre di notte e nessuno gli chiedeva nulla ma, se fosse successo, lui avrebbe cominciato a ridere. Perché il mondo era ridicolo.
E ora era arrivato il momento più bello. C’era un nuovo insegnante. Il precedente aveva dato le dimissioni per incompatibilità con la classe. E David sapeva che era lui la causa dell’incompatibilità, il leader della rivolta. Lui, che non aveva mai accettato un’autorità in vita sua… Sapeva già di aver vinto.
Stava ancora pensando a questo suo momento di gloria quando qualcuno bussò alla porta della classe e, subito dopo, entrò un tizio stempiato ma con capelli ritti sulla testa, di altezza media ma molto robusto, con occhiali quasi bianchi, color del finocchio. Indossava un giaccone verde militare su dei jeans neri scoloriti e ai piedi delle scarpe enormi con la suola a gomma di auto. Dal giaccone aperto spuntava il collo di una giacca blu di panno sopra una camicia azzurra button down sulla quale spiccava un’inconsueta cravatta a righe grosse, blu e rosse. Nessun insegnante era mai venuto in classe con la cravatta. Era assolutamente ridicolo. Ci sarebbe stato da divertirsi. E David non aspettava altro…
«Devo uscire» disse rivolgendosi più a se stesso che al nuovo docente.
Nel frattempo il nuovo insegnante, dopo aver cercato invano l’equivalente di una cattedra, decise di posare lo zaino rosso su un banco qualsiasi e si rivolse alla classe.
«Buongiorno ragazzi, sapete dove si mette di solito il docente per fare la lezione?»
David aveva ormai raggiunto la porta ma volle fornire un’ulteriore prova della propria spavalderia.
«Dove vuole. Intanto nessun insegnante resiste più di una settimana.»
L’insegnante si voltò verso David, squadrandolo.
«Un momento, ragazzo. Dove stai andando? Ora non puoi uscire. Devi ascoltare ciò che dirò a te e a tutta la classe.»
David lo guardò con sufficienza e gli mandò un bacio.
«Mi sei simpatico. Sarà perché oggi mi sento buono. Ma prima vado fuori. Poi, quando torno, sento che cosa ci devi dire. Ora non posso. Ho da fare.»
Gli altri ragazzi incominciarono a ridere in modo sguaiato mentre David, trionfante, premeva la maniglia della porta che… si spalancò di colpo! David fu catapultato verso l’esterno a scontrarsi con la tutor Graziella che stava entrando in quel momento. David rientrò in classe arretrando verso il suo posto mentre la tutor, dopo averlo fulminato con lo sguardo, lanciò un monito a tutta la classe, alzando la voce in un crescendo lirico:
«Ragazzi non ve lo voglio dire per l’ennesima volta. Nessuno può uscire dall’aula senza che l’insegnante vi dia l’autorizzazione. Inoltre può uscire solo uno per volta. Fate che non mi accorga che ciò accada nuovamente. Conoscete le conseguenze di un mio intervento.»
Detto questo si guardò intorno per valutare i risultati del suo intervento. Peter era sceso velocemente dal banco anche se continuava a camminare avanti e indietro. Gli altri si erano bloccati. Solo David cercò di reagire.
«Ma io ho chiesto di uscire. Non è vero?» disse rivolto verso i suoi compagni.
«Eh, come no!» rispose Paolo.
«Mi scusi» intervenne l’insegnante rivolto alla tutor con un tono un po’ impacciato. «È vero, il ragazzo mi ha detto che usciva ma io ero appena entrato. Se vuole, invece, presentarmi alla classe così poi possiamo andare avanti.»
«La ringrazio, professore, per il suo interessamento ma deve sapere che questi ragazzi sono da prendere con le molle. Sono sempre troppo agitati e più andiamo avanti più diventano peggio. Se non si danno delle regole certe, questi qua si prendono tutte le confidenze che vogliono. E ora» disse rivolta alla classe con un abbozzo di sorriso «ho il piacere di presentarvi il professor Camillo Mille che sarà il vostro nuovo docente di Magazzino nei prossimi mesi. Ha un’importante esperienza di lavoro e il consiglio che vi do è di fare tante domande per cercare di capire quello che vi sarà utile dopo il corso. Per entrare nel mondo del lavoro. È vero, professore?»
«Certo» rispose il professore. «Sarò ben lieto di rispondere alle vostre domande e dato che il corso permette di essere un poco flessibile sugli argomenti da trattare mi piacerebbe fare una chiacchierata con voi, per capire come impostare il programma.»
Il professore guardò i ragazzi e si rese conto, da subito, che non sarebbe stato facile. Si era accorto che, mentre lui parlava, la tutor lo guardava con commiserazione, come se sapesse che sarebbe stata una guerra persa. Tuttavia decise che era il momento di dare il via alla sfida. La tutor fece un sorriso all’insegnante e poi, dando un ultimo sguardo di fuoco ai ragazzi, si avviò alla porta. Prima di uscire definitivamente diede ancora un’occhiata a David come per ammonirlo di stare calmo e poi, con un sospiro di rassegnazione, chiuse la porta.
L’insegnante, rimasto solo, incominciò a scorrere con lo sguardo il viso dei ragazzi, senza parlare. Poi, si schiarì la voce, parlando con il tono più alto che poteva.
«Buongiorno ragazzi. Il mio nome, come ha detto Graziella, è Camillo Mille e faccio il consulente aziendale, mi occupo di organizzazione e di sviluppo commerciale nelle imprese. Dovremo passare parecchio tempo assieme quindi ci terrei a conoscere meglio le…»
«Posso uscire?» chiese improvvisamente Mirta.
L’insegnante si girò e guardandola dritta negli occhi rispose:
«Preferirei se potessi aspettare ancora qualche minuto, dopo che ci saremo conosciuti meglio. A proposito, come ti chiami?»
Lei lo guardò con sorpresa come se le avesse fatto una domanda sconveniente prima di rispondere con una smorfia.
«Mirta.»
«Bene, Mirta. Parlami un po’ di te.»
«Di che cosa devo parlare? Della mia famiglia? Dei ragazzi che ho avuto? Delle mie… cose?» rispose accentuando volutamente quest’ultima parola.
A quel punto la classe scoppiò in un’altra risata sguaiata mentre Mirta sfoggiava un sorriso raggiante per la battuta.
L’insegnante non batté ciglio.
«Se ci tieni a parlare delle tue “cose” possiamo prenderlo in considerazione, anche se dovresti essere più esplicita e dire effettivamente ai tuoi compagni che cosa sono le “tue cose”. Tuttavia preferirei parlare degli studi che hai fatto. Credo che sia più coerente con l’insegnamento.»
«A be’, se si tratta solo degli studi… ho già finito. Dopo le medie ho fatto un anno di turistico poi sono stata bocciata. L’ho rifatto, sono di nuovo stata bocciata. Ora sono qui. Ma non sono io, è mia madre che vuole. Io, per me, farei dell’altro» rispose Mirta piccata.
«Bene, allora hai delle aspettative! Che cosa faresti di diverso rispetto a questo corso?»
«Tanto per incominciare, vorrei divertirmi. Andare in giro, vedere gente, fare conoscenze. Di stare tutto il giorno al chiuso non ne ho voglia.»
L’insegnante fece una pausa prima di continuare: quell’incarico si presentava più difficoltoso di quello che pensava. Doveva conoscerli meglio.
«E voi, ragazzi, che cosa ne pensate?»
«Senta prof, possiamo chiamarla per nome? Gli altri ci permettono di chiamarli per nome. Sa com’è. Crea uno spirito di corpo» disse David ormai ristabilito dopo l’intervento della tutor.
«Non ho niente in contrario a farmi chiamare per nome. D’altronde io vi sto chiamando per nome. L’importante è che ci sia il rispetto reciproco.»
«Ok, allora. Grazie Millo» rispose raggiante David calcando il nome.
«Be’, veramente non intendevo un diminutivo ma il nome per intero… Come ti chiami, a proposito?»
«David. Come il David di Davide e Golia. Se vuole, può chiamarmi David» aggiunse sornione.
«Va bene David, lo terrò presente. Ma ora dimmi dei tuoi studi.»
«I miei studi? Vuole davvero sapere dei miei studi? Le interessano così tanto i miei studi?»
«Sì David, m’interessano e forse interessano anche i tuoi compagni» disse l’insegnante mentre gli altri ragazzi facevano tutt’altro che ascoltare.
«E perché le interessano? Io non ho fatto nulla? Non mi può condannare prima di avermi conosciuto.» Ormai David era sicuro: la lezione non si sarebbe svolta.
«Ok David, lasciamo stare i tuoi studi, parliamo invece di quello che ti aspetti da questo corso.»
Improvvisamente David si fece serio e guardando negli occhi l’insegnante disse:
«Da questo corso io mi aspetto di andare a lavorare alla Mega Discount. Lì c’è tanta gente, si sta all’aperto, non in un ufficio chiuso. Si parla con la gente. E poi si guadagna bene. Mi hanno detto che più lavori e più ti pagano. Magari devi lavorare anche la domenica ma poi ti danno mille euro. Ecco, questo è quello che voglio fare.»
«Sono d’accordo con te, David. Lavorare all’aperto è una delle cose più belle che possano esistere invece che ammuffire dentro un ufficio come, purtroppo, molti di noi devono fare. Siete tutti d’accordo con David?»
Paolo, fino allora zitto, prese la parola.
«Ma sì che a noi non ci piace stare al chiuso. Lo sanno tutti che siamo qui perché siamo stati bocciati nelle scuole normali. Io me ne sono andato da un’altra scuola di formazione come questa perché c’erano persone che davano fastidio. Non mi trovavo bene. Ora vorrei trovare un lavoro serio. Magari in un grande magazzino. Non mi piace lavorare al bar. E poi sono uno che s’impegna, sa?»
«Lo immagino. E tu… saresti…?»
«Paolo, mi chiamo Paolo Saragno. Ai suoi ordini signore» rispose sorridendo. «Ho quasi diciotto anni e non ho più possibilità di trovare un posto nuovo. Se perdo quest’occasione.»
«Perché dici questo, Paolo? Hai una vita davanti a te, davvero.»
«Ma chi vuole che mi voglia, se non so fare nulla? Ho provato a frequentare la scuola da saldatore ma non mi piaceva. Non c’ero portato. A me piacerebbe lavorare all’Ikea.»
«L’Ikea potrebbe essere una buona scelta. Vediamo ora gli altri. Tu come ti chiami…»
L’insegnante andò avanti ancora un’ora, dopodiché i ragazzi reclamarono la ricreazione e dovette sospendere la chiacchierata. Un mondo inaspettato, di cui non sospettava neanche l’esistenza, gli si stava aprendo davanti.
La tutor venne a prendere i ragazzi per portarli al bar. L’insegnante si sedette per la prima volta, da quando era entrato nell’aula, davanti al suo computer portatile spento.
Per un momento si era illuso di poterlo utilizzare per mostrare ai ragazzi il programma del corso e gli argomenti da trattare.
Ma aveva capito che sarebbe stato inutile. Erano ragazzi sicuramente particolari, frutto degli errori della sua generazione e, ancor più, di quella precedente.
Il pensiero andò a suo figlio. Aveva trovato quell’occupazione da docente dopo aver bussato a tante porte. Aveva lavorato per anni in una multinazionale straniera ma, quando i giochi economici internazionali avevano decretato la chiusura della sede italiana, si era trovato a dover scegliere, dopo tanti anni trascorsi lontano dalla famiglia, se cercare uno sbocco in qualche altra regione d’Italia o all’estero. Oppure tornare a Genova. E la scusa migliore era stata pensare che, in quel modo, sarebbe stato più vicino al figlio. Da troppo tempo aveva rinviato i problemi familiari nel tempo, dimenticando che i ragazzi hanno bisogno di risposte certe. Non di sogni.
Ed ecco che, ora, si trovava a parlare con ragazzi che avevano problemi enormi come macigni. Che non sapeva come avrebbe fatto a risolvere.
* * *
«Ragazzi, oggi vorrei parlarvi delle tipologie di magazzini all’interno delle imprese, perciò devo chiedervi di prendere qualche appunto perché poi faremo una verifica con il voto.»
«Prof, ma di che cosa parliamo oggi?» esordì Alberto.
«Ma l’ho appena detto!» rispose Camillo alzando la voce. «Parlerò delle tipologie di magazzini all’interno delle imprese. Dunque, avete carta e penna?»
«Sì prof, io appunto tutto. Guardi che bel quaderno ordinato che ho! A proposito, come si chiama la sua materia?» chiese una ragazza con occhialini rotondi che veniva a scuola a giorni alterni.
«Carmela, per favore, abbiamo iniziato il corso da tre giorni!»
Camillo sospirò, paziente.
«Parleremo di magazzino.»
Carmela iniziò a scrivere “Magazzino” a caratteri cubitali in cima al foglio colorando ogni singola lettera. Camillo iniziò a spiegare stando bene attento a scandire le parole, lentamente.
«Bene. Ogni impresa nell’arco dell’attività lavorativa abituale utilizza tre tipologie di magazzino: magazzino interno, magazzino in conto terzi, magazzino doganale.»
«Prof che cosa è il magazzino interno?» chiese Paolo.
«Se mi lasci continuare te lo dico subito. Si tratta del magazzino in conto proprio dove sono poste le materie prime e le merci in entrata e dove sono poi messi i prodotti finiti in attesa della spedizione.»
«Prof non ho capito» intervenne David irritato. «Non riesco a capirla. Usa parole troppo difficili. Noi siamo persone semplici, non può dirci queste cose e poi pretendere che noi le ricordiamo. Deve usare parole più semplici.»
«Ok, David. Che cos’è che non hai capito?» disse Camillo.
«Tutto. Non ho capito niente» rispose David con una calma disarmante.
«Magari, se prendi appunti, cosa che non stai facendo, può darsi che rileggendo tu possa poi capire. Forza David, non è molto faticoso.»
«Non mi piace scrivere prof, non mi è mai piaciuto. Io sono uno di quelli che non scrive ma che ricorda tutto a memoria. Apprendo solo con le parole. E se non capisco, non ricordo. Deve spiegare meglio.»
«Cercherò allora di fare un esempio: il magazzino in conto proprio è il magazzino di un’impresa il cui compito è di acquistare materie prime o semilavorati per realizzare prodotti finiti. In questo magazzino vanno stivate sia le materie prime sia i prodotti finiti. Questi devono essere venduti e quindi escono dal magazzino. Ora è più chiaro?»
«Che cosa vuol dire stivare?» chiese Solange.
«Giusto, Solange: vuol dire immagazzinare la merce. Stivare era un termine usato per chi doveva caricare le navi e quindi mettere le merci, i prodotti, nel magazzino della nave detto stiva. È tutto chiaro?»
I ragazzi, dopo l’incontro shock di due giorni prima, si erano leggermente calmati, dando l’impressione che il primo impatto non era stato quello giusto. Ora Camillo credeva, seriamente, che sarebbe stato meglio. Doveva solo trovare un modo nuovo per raccontare le cose. Quei ragazzi erano come dei bambini piccoli. Se ci fosse stato suo nonno! Lui sì che sapeva raccontare le storie ai bambini! Se solo Dio avesse voluto aiutarlo in quest’impresa che sembrava…
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