L’oro di Gorgona

16,00

Formato: Libro cartaceo, pag. 330

Autore: Alessandro Cirillo

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-6690-376-5 Categorie: , Tag:

Descrizione

9 settembre 1943: il giorno dopo l’armistizio di Badoglio, una nave militare attracca all’isola di Gorgona per nascondervi quattro tonnellate d’oro. Eseguita la missione, la nave viene silurata sulla via del ritorno e l’unico sopravvissuto registrerà in un diario personale l’avvenimento, indicando il luogo segreto dove è seppellito il tesoro. Sarà un bisnipote a leggere quel diario e a permettere il ritrovamento del tesoro. Mentre è in corso il trasferimento al caveau della Banca d’Italia, la malavita italiana, in combutta con la mafia albanese, riesce a sottrarre il tesoro e a trasportarlo in Albania.

L’oro di Gorgona lascerà dietro di sé una lunga scia di sangue, ed i responsabili di questo non sono solamente i malviventi, ma anche personaggi insospettabili, “mele marce” ben nascoste e assolutamente nostrane.

Toccherà ancora una volta a Nicholas Caruso, Ruben Monteleone e ai loro compagni sotto copertura cercare di ristabilire la giustizia, e lo faranno, come sempre, con i loro metodi non sempre ortodossi ma coraggiosi ed efficaci.

INCIPIT

PROLOGO

MAR TIRRENO, 9 SETTEMBRE 1943

Una nuova giornata inizia e anche oggi morirà molta gente per questa stupida guerra. Questo era il pensiero del capitano di corvetta Aristide Folchi, mentre osservava il sole nascente dalla plancia del cacciatorpediniere RN Breva. La nave, che comandava ormai da sei mesi, procedeva solitaria a una velocità di quindici nodi fendendo il mare con la punta dello scafo. I fumaioli sbuffavano sottili colonne di fumo, le insegne della Regia Marina Militare si agitavano spinte dal vento.

In plancia regnava un silenzio carico di tensione che rispecchiava lo stato d’animo degli uomini. Il Breva era salpato la sera prima dalla base di La Spezia per svolgere una misteriosa e solitaria missione. L’equipaggio era piuttosto confuso, anche perché poche ore prima della partenza il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio aveva firmato l’armistizio con le forze angloamericane, voltando le spalle agli alleati tedeschi.

Il capitano Folchi era preoccupato per la sua nave e per i suoi uomini, ma cercava di non farlo notare. Doveva trasmettere l’immagine di un leader sicuro per mantenere l’ordine e l’efficienza a bordo.

«Capitano, posso parlarle un attimo?»

La voce del tenente di vascello Attilio Ossola lo distrasse dalle sue riflessioni. Foschi si voltò verso il sottoposto, che ricopriva l’incarico di ufficiale di guardia in plancia, sapendo già cosa avrebbe detto.

«Mi dica, tenente.»

«Tutta questa situazione non mi piace per niente.» Il marcato accento di Ossola tradiva le origini venete.

«Lo so, me lo avrà già detto almeno cento volte da quando siamo partiti» gli rispose pacato Folchi.

«E allora facciamo centouno. Non si capisce più niente. Cosa succede se ci imbattiamo nei tedeschi? Li salutiamo o gli spariamo addosso?»

«Gli ordini li ha sentiti anche lei. Dobbiamo reagire ad attacchi di qualsiasi provenienza.»

«Appunto! I tedeschi non saranno affatto contenti di questa vigliaccata. Potrebbero attaccarci per rappresaglia.»

«Se lo faranno vuol dire che risponderemo al fuoco.» Il comandante si mosse verso un tavolo ancorato al pavimento dove l’ufficiale di rotta stava consultando una carta nautica. In quel momento in plancia c’erano anche il timoniere, al governo della nave, e un altro uomo di vedetta che stava scrutando il mare con un binocolo.

«Eh già, ma non va mica bene questa cosa qui. Sono tre anni che combattiamo gli inglesi. Fino a ieri pomeriggio, avevamo ordine di salpare per un’operazione contro di loro e ora siamo diventati grandi amici? Allora, per che cosa sono morti tutti quei nostri compagni?»

Folchi si irrigidì sentendo quella frase. Suo figlio Piero era morto in Nord Africa, quasi un anno prima, durante la battaglia di El Alamein. Da allora, Folchi si malediceva ogni giorno per avergli permesso di arruolarsi nei paracadutisti. Se solo avesse insistito un po’ di più forse lo avrebbe convinto ad entrare in Marina e sarebbe riuscito a farlo assegnare sotto il suo comando. Così, non sarebbe morto tra quelle sabbie roventi e desolate.

«Capitano, mi sta ascoltando?»

Ossola lo riportò di nuovo alla realtà. «Sì tenente, la sto ascoltando.»

«Dicevo che non si può fare la pace così, in quattro e quattr’otto. E poi li avranno avvisati tutti questi nuovi amici? Se là fuori ci fosse un sommergibile che non ha ancora ricevuto i nuovi ordini?»

Folchi sospirò raggiungendo il tavolo. Poco prima, un marinaio aveva portato una teiera ancora fumante e alcune tazze. «Purtroppo non possiamo escluderlo.»

«Ed è proprio per questo che non sono tranquillo. Fino a ieri dovevamo fare attenzione solo ai maledetti inglesi e i loro alleati. Oggi, invece, abbiamo contro anche i tedeschi.»

Ossola si accorse che aveva alzato il tono della voce, gli uomini lo stavano osservando. Folchi si versò una tazza di tè e si piazzò davanti al subordinato. In altezza lo sovrastava di almeno venti centimetri. Parlò a voce alta, rivolgendosi a tutti.

«Ha ragione, tenente, ma non possiamo farci nulla. Gli ordini vanno eseguiti. Tra poche ore arriveremo alla base della Maddalena e ci uniremo alla squadra navale salpata da La Spezia. Vedrà che tutto sarà più chiaro.»

Ossola increspò le labbra carnose. «Se ci arriviamo alla Maddalena.»

Il comandante sfoderò un’espressione severa fissandolo con i penetranti occhi azzurri. «Che cos’è questo disfattismo? Non si addice ad un ufficiale della Regia Marina.»

«Mi scusi, ho esagerato.» L’ufficiale abbassò lo sguardo sulle lucide scarpe.

«Io capisco il suo stato d’animo» si rabbonì Folchi posandogli una mano ossuta sulle ampie spalle «tutti noi siamo confusi. Anche io non sono felice di questa situazione. Soprattutto di consegnare la mia unità agli angloamericani. Avrei preferito di gran lunga affondarla piuttosto che farla cadere nelle loro mani. Tuttavia, noi siamo ufficiali al servizio del Re. Non prendiamo le decisioni, ma obbediamo agli ordini.»

Sempre a occhi bassi, Ossola tentò di cambiare argomento. «A proposito di ordini, quei tre là non hanno smesso di darne da quando sono arrivati. Anche adesso che la loro missione speciale è stata compiuta. Tra l’equipaggio hanno già iniziato a girare delle storie su di loro.»

Il tenente si riferiva a tre oscuri personaggi che si erano imbarcati il giorno precedente. Erano ufficiali appartenenti ai servizi segreti della Regia Marina. Proprio loro avevano consegnato a Folchi gli ordini della missione, emanati niente meno che dal comando di Supermarina. Le disposizioni prevedevano l’immediato approntamento della nave per svolgere una segretissima operazione. In una nota si sottolineava l’importanza di fornire la massima collaborazione esaudendo ogni richiesta dei tre ospiti.

«Lasci perdere l’equipaggio. Si dilettano a inventare favole e congetture per passare il tempo. Sono d’accordo sul fatto che quei tipi si sono rivelati alquanto fastidiosi, ma tra poco li scaricheremo a terra.» Si tastò nel taschino della camicia alla ricerca della pipa che suo figlio gli aveva regalato pochi mesi prima di morire.

«Ossola, lei è un buon ufficiale e un giorno diventerà un ottimo comandante. Ora, che ne dice di andare a riposare un po’? È stato in piedi tutta la notte.»

«In effetti non dormo da più di ventiquattr’ore.»

«Allora vada a chiudere un po’ gli occhi! È un ordine!»

Nel ponte inferiore dieci marinai si erano ritrovati in uno degli locali adibiti al riposo. La discussione che era in corso si stava facendo piuttosto animata.

«Io continuo a dirvi che dobbiamo andare a raccontare tutto al comandante» esclamò con veemenza il marinaio Ramaglia. Le gambe pelose penzolavano dallo scomodo letto.

«Abbassa la voce, per Dio! Vuoi che qualcuno ci senta?» lo riprese il parigrado Longaro.

«Che mi sentano pure, non mi importa niente.»

«Come fai a essere così sicuro che anche lui non sia complice di quei tre?»

«Non il capitano Folchi, lo conosco da anni. È un uomo tutto d’un pezzo, non si abbasserebbe mai a queste meschinità.» Il sottocapo Regolo era intervenuto a difesa del suo comandante. Se ne stava in mezzo al locale, le gambe divaricate e le braccia muscolose incrociate al petto.

«Magari non è complice ma potrebbe comunque già sapere tutto. E poi davvero credi che ci lascerà spartire l’oro?» ribatté Fabbris, un altro dei marinai.

Ramaglia agitò nervosamente le gambe facendo toccare i talloni. «Forse no, ma in ogni caso è nostro dovere riferire ciò che abbiamo visto. Quei tre non me la raccontano giusta.»

«È meglio lasciarli perdere quelli, sono troppo pericolosi. Hai già dimenticato quando il nanerottolo ti ha puntato la pistola addosso? Hanno detto che ci uccideranno tutti se apriamo bocca.»

«Chi vuoi che uccidano? Loro sono in tre mentre noi a bordo di questa nave siamo quasi duecento.»

Longaro sbatté un pugno sul palmo della mano sinistra. «Ma allora sei proprio stupido! Non hai capito che quelli fanno parte dei servizi segreti?»

«Bada a come parli o ti farai male.»

Longaro ignorò la minaccia e continuò il suo ragionamento. «A quest’ora quelle carogne avranno già comunicato i nostri nomi ai loro superiori. Se parliamo è ovvio che non ci uccideranno su questa nave ma ci penserà qualche sicario una volta sbarcati. Ci elimineranno uno ad uno!»

«Ma falla finita! Scommetto che in questa storia sono immischiati solo loro tre.»

Regolo scosse la testa schioccando la lingua. «Non si fa tutto ’sto casino con solo tre persone.»

«Infatti!» confermò soddisfatto Longaro. «Senza contare che ci hanno offerto una generosa ricompensa per il nostro silenzio.

«E tu ti fidi di quella gente? Sei solo un coglione!»

«Il coglione sei tu che stavi per farti sparare in faccia. Chissà come si sarebbe divertita tua moglie senza di te.»

Ramaglia saltò giù dal letto e si fiondò addosso a Longaro prendendolo per il collo.

«Bastardo, mia moglie non devi mai più nominarla!»

Regolo e altri due compagni cercarono di separare i due litiganti prima che la storia finisse male. Tutti sapevano quanto Ramaglia fosse geloso di sua moglie. Quell’incauto commento aveva scatenato la sua furia omicida.

Senza mollare la presa dal collo, Ramaglia spinse l’avversario contro una delle pareti metalliche, facendogli sbattere con violenza la schiena. Strinse con tutta la rabbia che aveva in corpo. Fabbris tentò di dividere i due compagni ma si beccò una gomitata sul naso da Ramaglia, che ormai non ragionava più. Dalle narici sprizzarono alcune gocce di sangue.

A quel punto Regolo capì che doveva fare qualcosa o Longaro sarebbe morto. Si portò alle spalle di Ramaglia e gli cinse il collo con entrambe le braccia. Il furioso marinaio dovette mollare la presa sul malcapitato per tentare di liberarsi a sua volta. Finì a terra insieme a Regolo che però non allentò la pressione.

«Calmati Ramaglia! Calmati e ti lascio andare!» lo ammonì il sottocapo.

Ramaglia continuò a dimenarsi ancora in preda alla rabbia.

«Ho detto calmati, cazzo!»

«Va bene, va bene» si arrese Ramaglia pronunciando la frase con un filo di voce.

Regolo allentò la presa sul collo in modo graduale.

«Voi siete matti!» sentenziò con il fiatone mentre allontanava il compagno da lui.

Anche Ramaglia e Longaro respiravano a fatica. Fabbris, invece, si era pinzato le narici con due dita per fermare il flusso del sangue.

L’ululato della sirena d’allarme fece bloccare tutti come se fossero delle statue di cera. La nave era sotto attacco.

«Siluri in acqua a dritta!» urlò la vedetta dopo aver individuato tre scie bianche e spumose che cavalcavano le onde. La voce tradiva il terrore che provava in quel momento.

Il capitano di corvetta Folchi fece cadere la pipa dalle labbra. L’oggetto rimbalzò un paio di volte a terra. Recuperò il proprio binocolo e raggiunse il lato destro della plancia. Attraverso le lenti individuò i tre siluri diretti contro il Breva a non più di cinquecento metri di distanza. Ad attaccare era stato di certo un sommergibile.

«Motori indietro tutta! Timone tutto a sinistra! Ai posti di combattimento!» ordinò il comandante. Doveva tentare una manovra evasiva, anche se temeva che non sarebbe servita a nulla. Il sommergibile era riuscito ad avvicinarsi troppo alla sua preda prima di lanciare la salva di siluri.

«Ecco, lo sapevo!» commentò amaro Ossola.

«Non è ancora detta l’ultima parola» rispose Folchi sapendo di mentire a se stesso. Nel frattempo il cacciatorpediniere aveva iniziato a virare verso sinistra.

«Moriremo senza neanche sapere se il sottomarino è tedesco o di quegli altri.»

Folchi questa volta non rispose. Anche lui aveva pensato la stessa cosa.

I secondi passavano e i siluri erano sempre più vicini. Tutti si prepararono all’impatto. Il nocchiere si aggrappò al timone e lo strinse fino a fare diventare le dita bianche.

«Ave Maria, piena di grazia…» la vedetta aveva iniziato a pregare ad alta voce sperando in un intervento divino.

La manovra evasiva del capitano riuscì quasi a salvare la nave, ma non bastò. Un siluro mancò il bersaglio ma gli altri due colpirono la fiancata destra. Una palla di fuoco investì la nave e il suo equipaggio. La teiera cadde a terra e andò in frantumi spargendo liquido caldo sul pavimento. L’ufficiale di rotta perse l’equilibrio e sbatté la testa contro il tavolo. Anche i vetri delle finestre si disintegrarono. Una pioggia di schegge investì la vedetta.

La potenza della deflagrazione fu tale da squarciare le lamiere del Breva, dividendolo in due tronconi. Il capitano Folchi si ritrovò sdraiato sul pavimento. Non ebbe bisogno una valutazione dei danni per capire che la sua nave era condannata a morte.

Il sottocapo Regolo fu il primo a reagire. Tramite l’interfono, il comandante Folchi aveva ordinato di recarsi tutti ai posti di combattimento.

«Siamo sotto attacco! Muoviamoci!»

Si precipitò fuori dalla zona riposo seguito dai compagni.

«Non è finita qui» sibilò Ramaglia rivolto a Longaro, ancora sotto shock per l’aggressione subita.

Il gruppo corse attraverso gli stretti corridoi, cercando di raggiungere in fretta il ponte di coperta.

Svoltato un angolo, Regolo si trovò di fronte al tenente di vascello Pinotti, a capo del gruppo di agenti dei servizi segreti. Era un ometto alto appena un metro e sessanta con capelli pettinati in avanti nel tentativo mal riuscito di nascondere la calvizie. La solita arroganza, che si percepiva dagli occhi color castano, sembrava questa volta accompagnata da un velo di terrore. Regolo ipotizzò che si trovasse per la prima volta in una situazione di pericolo in mare.

«Che succede, sottocapo?» domandò con voce tremante.

Regolo non si fermò neanche per rispondergli. «Succede che siamo in guerra, signore!»

L’ufficiale incassò la risposta senza replicare. Si limitò a fissare il gruppo di marinai che imboccava una scaletta metallica per poi sparire al ponte superiore.

«Si sta cagando sotto quello lì, altro che spietato assassino» sentenziò Ramaglia.

«Finiscila con questa storia! Abbiamo altri problemi a cui pensare!» lo riprese Regolo.

Il gruppo raggiunse il ponte di coperta, dal lato di dritta. L’odore di salsedine penetrò subito nelle narici di Regolo. Intorno a lui c’era un viavai di marinai terrorizzati. Qualcuno aveva già indossato un salvagente. Si avvicinò alla murata e individuò la causa di quel trambusto. Il Breva stava virando ma non sarebbe servito per evitare la tragedia.

«Che diamine sta succedendo?» domandò preoccupato Longaro.

Regolo non riusciva a smettere di fissare le scie d’acqua ormai vicinissime alla nave.

«Succede che siamo fottuti» riuscì a dire.

Pochi istanti dopo i siluri colpirono lo scafo. Il sottocapo avvertì una forte sensazione di calore prima che si facesse tutto buio.

I due tronconi del Breva si riempirono rapidamente di acqua fredda. La sezione di prua si inabissò nel giro di un minuto e a causa del peso si staccò dal secondo troncone. Durante la discesa, la torretta del cannone da 120 mm uscì dalla sua sede e precipitò verso il fondale. Il Breva si portò dietro il capitano di corvetta Folchi, insieme a tutti gli uomini che si trovavano in plancia. La sezione di poppa rimase a galla ancora qualche minuto prima di iniziare la discesa verso il basso. Cinque minuti dopo l’inizio dell’attacco, del Breva rimanevano solo più alcuni rottami che galleggiavano insieme ai cadaveri dell’equipaggio. Tuttavia, in mezzo a mezzo a loro, qualcuno era sopravvissuto.

1 recensione per L’oro di Gorgona

  1. Ibba G

    Tutto in un fiato

    Ancora una volta Cirillo confeziona per i suoi lettori una trama dal ritmo spiccio, popolata di personaggi (buoni e cattivi)caratterizzati al punto giusto per non appesantire l’intreccio, senza esagerare pur non cadendo nel trito stereotipo. Dopo un prologo ambientato durante la seconda guerra mondiale, la storia prende l’abbrivio e scorre veloce tra diversi colpi di scena. È un piacere ritrovare vecchie conoscenze, come Caruso e Monteleone, protagonisti dei libri precedenti, alle prese con nuovi avversari e problematiche. A questo proposito, è interessante notare che il rapporto d’amicizia tra i due comincia a mostrare qualche piccola crepa. I rapporti interpersonali tra la squadra e/o le famigliesi fanno più complessi, e questo è un bene, rispetto alla stantia atmosfera idilliaca dei capitoli precedenti. Pure i cattivi mostrano sfaccettature inedite, seppur rientrando nei canoni imprescindibili del genere. In definitiva, “L’oro di Gorgona”, nella sua apprezzabile sintesi e linearità, conferma le doti di serialità dell’autore, gettando le basi per le future avventure pur essendo autoconclusivo e leggibile come romanzo a se stante. Perfetto come lettura estiva.

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