L’odore della felicità

16,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Simonetta Mannino

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-047-4 Categoria: Tag:

Descrizione

Presentazione di Piera Rossotti Pogliano

La felicità è soltanto una semplice e fugace sensazione sensoriale per Nina, la protagonista di questo racconto. In una fredda giornata di neve, assieme alla sorella Ornella, mentre aspetta che i vigili del fuoco entrino nella casa della madre, che da tre giorni non risponde al telefono, Nina rivive in flashback il suo passato. La madre, apparentemente affettuosa ma, in realtà, murata nel suo male di vivere e nella sua solitudine che cerca di compensare con il vino, la sorella Ornella, così pratica, concreta, e anche gelosa della sorellina, un padre che ha abbandonato la famiglia: questo è il mondo di affetti malati e incompleti di Nina, che la portano a sviluppare una sorta di masochismo che sfocia in episodi di autolesionismo, sia nell’infanzia, sia nell’età adulta. Appena maggiorenne, la protagonista lascia la fabbrica – ha anche tentato di studiare, ma non è riuscita a conciliare studio e lavoro – per esibirsi in un night e finisce per prostituirsi: vuole denaro, molto denaro, per regalare alla madre un’esistenza più agiata e, in qualche modo, forse, comperarne l’affetto, ma intanto continua ad autodistruggersi. Anche l’amore non è che illusione: di Nina, ovviamente, perché per gli uomini lei è soltanto una puttana.

Il primo romanzo di Simona Mannino, nonostante l’argomento drammatico, è capace di regalare al lettore più esigente e attento momenti di autentico piacere per la bellezza della scrittura, per i personaggi non descritti, eppure vividamente visualizzabili, e per l’abilità nell’uso diforeshadowing e metafore: la penna d’argento con cui Nina firma il contratto per lavorare al night è come una lama, la firma che traccia è come una ferita, immagine che annuncia l’ambivalenza della scelta della ragazza; i canarini morti nella gabbietta, in casa della madre, ricordano altri due piccoli e morbidi batuffoli gialli, le scarpine di lana con le quali Nina vuole annunciare a Cristian, l’uomo che si illude di amare, la sua gioia di essere incinta, gioia che si spegnerà subito in una scena di violenza che culmina in un aborto. La narrazione fluida coinvolge il lettore e lo trascina in un mondo di simboli, di colori, di luci, di odori e sensazioni attraverso i quali la lettura si fa esperienza e strumento di conoscenza, e allora ci interroghiamo: il viaggio della vita, dove porta? Alla fine del racconto, Nina darà la sua risposta: così privata, così personale, così finitamente umana.

INCIPIT

Sono sola come sempre, nel silenzio ovattato della mia casa, a pochi isolati da te. Da quanti anni vivo qui l’ho scordato. So che è passato tanto tempo dal giorno in cui ho lasciato il mondo fuori e ho sbarrato la porta. Solo il silenzio e la quiete sono miei amici. Il buio mi fa compagnia, non mi spaventa. In questi pochi metri quadrati, ordinati e precisi, il caos del mondo non può raggiungermi. Sono al riparo dal caos da tanto tempo.

Avanzo nell’oscurità come un gatto fino al telefono, ne riconosco la sagoma tremolante rischiarata dalla debole luce di una candela. Attendo di sentire un altro squillo. La voce di mia sorella mi rimbomba nell’ orecchio.

“Nina, allora?” Stavo preparando la cena, petto di pollo e insalata, ma non avevo fame. Rispondo al quinto squillo, pacata, quasi assente.

“Ciao, come stai?”

“Mamma non risponde al telefono, sono tre giorni che chiamo.”

Sono preoccupata? Non lo so. Non è la prima volta. Mi sfioro il viso con la mano, lo sento gelido e asciutto e mi viene in mette un fatto, accaduto forse un anno fa. In quella circostanza ero nervosa. Il telefono continuava a suonare a vuoto, invadeva la tua casa di un po’ di me. Ma tu non avevi risposto. Avevo ancora la copia delle tue chiavi e un’angoscia che mi inchiodava le gambe e le mani. Avevo paura di aprire, di trovarti come non avrei mai voluto. Ho picchiato con forza alla tua porta, sperando di sentire un rumore, un gemito, qualsiasi cosa che mi desse la forza di infilare la chiave e aprire. Poi, non so come, ho trovato il coraggio e mi sono intrufolata nella tua casa come un ladro, in quel misero spazio vitale in cui trascorri i tuoi giorni e le tue notti e ho incontrato i tuoi occhi, colmi di stupore e vergogna. Ho richiuso la porta alle mie spalle. Ho inseguito il tuo sguardo e ti ho presa fra le braccia e ho scoperto la tua leggerezza, la tua fragilità, la tua paura.

Il vento di questo inverno ulula attraverso i vetri come un cane ferito. Dovrei aprire le finestre. Forse questo vento potrebbe spazzare via la nebbia di fumo denso e pungente che mi brucia gli occhi.

Accendo un’altra sigaretta. Spengo i fornelli, infilo la giacca. I miei gesti sono lenti e misurati. Lascio l’angolo nel quale sono rannicchiata da giorni, come un profugo in esilio, con i fantasmi del passato a farmi compagnia per riemergere di nuovo nel presente. Nel caos. La mia vita è un esercizio di equilibrismo fra passato e presente. Ma ormai non cado più.

Le strade sono intasate dalla neve e dal traffico, i vigili tarderanno ad arrivare. Li ha chiamati Ornella. Mia sorella sa sempre cosa fare. Non perde mai le coordinate, non rimane, come me, con lo sguardo perso nel vuoto a fissare la neve e soprattutto non ha paura che tu sia caduta in un baratro senza sponde da non poterti rialzare più. Lei non si smarrisce mai.

Ho lasciato la macchina nel piazzale di fronte alla tua casa. Lei è già lì. Mi saluta con un cenno del viso e mi trafigge con uno sguardo che non riesco a decifrare. Non abbiamo più le chiavi, non ricordo perché, e una parte sconosciuta di me pensa che forse è meglio così. Il destino, a volte, ha strani modi per proteggerci dal buio. È un buio che non voglio vedere quello che adesso si nasconde dietro la tua porta, mamma, è il buio che fa piangere i bambini quando si svegliano la notte. Ho paura.

Hai pensato ancora a lui, dopo tutti questi anni. Continuavo a dirti di non farlo, di non pensare al passato, di lasciarlo morire così come desideravi la sua, di morte. Ho imparato a odiare mio padre attraverso gli anni, anni trascorsi a leggere nei tuoi occhi il dolore. Ho voluto pensare di essere soltanto tua, di essere frutto del tuo corpo e del tuo spirito, nient’altro che questo.

Ora immagino di vederti, immobile davanti allo specchio, con quel vecchio maglione che ti cade addosso come un cencio. E lì ti sei fermata, a frugare nel tuo corpo riflesso e incrociando il tuo sguardo sei rimasta ferita, umiliata. Hai maledetto la tua vita e la sua. Non riuscivi più a volare mamma, eppure eri una grande colomba dalle piume bianche come questa neve. Ed eri nata solo per questo, per volare libera nell’azzurro del tuo cielo.

“Non vi siete sentite in questi giorni, non l’hai chiamata?”

Guardo mia sorella, gli occhi scuri sprofondati nella pelle bianca. È molto diversa da me, ha la stessa struttura fisica di mio padre. Penso a quante volte, guardandola, devi aver provato un po’ di tutto quell’odio che provi per lui.

Per tutta la settimana ti ho avuta in mente. Mi dicevo che dovevo chiamarti, passare da te. Ma poi c’era sempre qualcosa che me lo impediva. Il pensiero andava e veniva come questo vento che adesso mi schiaffeggia il viso e me lo fa bruciare. E non sono passata. Non ti ho chiamata. E mentre facevo la spesa, passavo lo straccio sul pavimento della mia casa, mentre mi pettinavo davanti allo specchio con lo stereo acceso tu scivolavi sempre più nella melma oscura di questo assurdo destino.

“No.”

Ancora una volta il suo sguardo si posa sul mio e adesso comincio a odiarla un po’. E mi accorgo di quanto sia facile.

Ero andata a parlare col fruttivendolo, quel vecchio imbroglione che ti riempiva le borse di veleno e te le portava a casa, perché erano pesanti e tu esile come un filo di lana. Le appoggiava sul pavimento e ti sorrideva. Mi aveva fatto una promessa e io ingenuamente gli avevo creduto. Ma forse tu sei stata più convincente di me e hai vinto.

Un fiocco di neve mi entra negli occhi, freddo e pungente come una lama di ghiaccio mi offusca la vista. Sta ricominciando a nevicare. Le tende sono accostate, la luce è accesa. È pieno di luce là dentro ma tu non ci sei. Le mie gambe cedono perché so che non è normale, perché ami la penombra e tutte quelle luci non le accendi mai.

Ornella si sposta da una parte all’altra, sta guardando dentro, scruta con quei suoi occhi neri come la notte. Io sono inchiodata a questo triangolo di neve sotto ai miei piedi. Non voglio vedere che cosa c’è acquattato in un angolo dentro la tua casa. Io voglio pensare che non ci sei.

È un inverno gelido che sembra non finire mai. Stasera il vento è arrabbiato col mondo, frusta le mie gambe avvolte nei vecchi fuseaux che mi hai dato tu.

“Portali a casa Nina, che ti possono servire.”

Adesso c’è una lacrima sospesa nei miei occhi sgomenti. So esattamente di cosa mi illudo. È già successo una volta e non l’ho più dimenticato. Ma le illusioni mi hanno sempre accompagnata, in un modo o nell’altro, fin quando non sprofondavo goffamente nell’abisso della mia realtà. Mi hanno aiutata a reggermi in piedi, a camminare ancora verso strade sconosciute, a non perdere la speranza che in questa vita qualcosa potesse ancora cambiare. Volevo regalarti un’altra esistenza, leggere nei tuoi occhi un po’ di sereno. Avevo diciotto anni e ho permesso che il mondo lasciasse un’impronta impressa a fuoco nella mia anima.

Adesso mi illudo che quelle stanze piene di luce si adombrino della tua figura che cammina stanca verso la finestra. Mi illudo di vedere il tuo viso attraverso i vetri e un cenno della tua mano che mi saluta rimetta in moto questo tempo che si è fermato. E tu sei già con me e mi ricordi che ho sbagliato e sono già perdonata. Perché ho lasciato che la mia innocenza oltrepassasse i confini che tu avevi segnato. Oltre quei confini ho camminato, su corridoi sconosciuti. E c’era sempre quella tristezza che mi illudevo di non sentire, quel guanto di fatica che mi avvolgeva, mentre gettavo a terra i miei vestiti e la mia vita. Finché il male non mi è caduto addosso, finché non mi ha raggiunta l’onda nera della vergogna. Tu non sai che cosa ho fatto, mamma, non sai dove ho volato e dove sono caduta.

Guardo verso le tue finestre, le luci accese nella notte e sento scorrere nelle mie vene nient’altro che sabbia.

1 recensione per L’odore della felicità

  1. Andrea L

    L’odore della felicità è il titolo di questo libro.
    La protagonista però questo odore lo sente molto poco, solo filtrato dai ricordi della sua infanzia, solo in occasioni particolari.
    Una storia familiare travagliata, una sorella ingombrante, una vita indipendente, fatta sì, di proprie scelte ma quasi obbligate.
    La storia di una ragazza particolare, al tempo stesso disinibita ma profondamente chiusa in se stessa si fa violenza per affrontare la violenza del mondo che la circonda. Per fuggire da una situazione triste si tuffa in una forse peggiore.
    La storia di una morte, quella della madre, raccontata inframezzandola a ricordi: da vita vissuta un po’ all’estremo, le necessità, la voglia di libertà, conquistata dalla famiglia e persa nel “lavoro”.
    Già perché la protagonista per quanto una brava ragazza si ritrova a fare prima la spogliarellista e poi la prostituta. Anche se dovrebbe essere più smaliziata è una ragazza semplice, per bene, e finisce con l’innamorarsi di un cliente che la sfrutta e poi…
    Lo stile in cui questa storia è scritta è un po’ inusuale, non è il solito stile narrativo, ha un che di poesia, a tratti un che molto grande. Certi passaggi sono delicatamente dolorosi, struggenti. Altri crudi e realistici.
    Il finale, amaro, non è scontato per quanto annunciato.
    Si può dire che ci sai tutta la poetica dell’amore e della morte, il dolore e la passione, a tratti l’alienazione del sé dal resto mondo. L’intensità del racconto richiede un certo spirito nella lettura.

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