L’infinita ombra del vero

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Luisa Ferretti

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-318-5 Categoria: Tag:

Descrizione

Ordinaria e prevedibile la vita della giovane Giulia, che lavora come commessa insieme alla sua amica d’infanzia Fiamma, ma con l’aspirazione a una vita diversa, in cui esista l’amore vero che ricerca, ma del quale al tempo stesso ha paura. La ragazza spesso va a trovare la nonna, malata e vedova di guerra, e trascorre le serate nel bar sotto casa accanto al fratello di Fiamma, Matteo, un tipo fuori dagli schemi che scribacchia poesie in qualsiasi posto si trovi. Giulia appare sempre molto distaccata agli occhi di tutti, mostrando una sorta di rifiuto verso ciò che le è intorno, e tale rifiuto investe la sua stessa persona. In realtà, dietro questo suo lasciarsi vivere, Giulia nasconde una storia segreta che la vede protagonista di un amore totalizzante quanto non vissuto. Da mesi, infatti, ha intrecciato una relazione via Internet con uno sconosciuto che si firma come Niccolò, al quale scrive ogni notte. Una relazione virtuale, fatta di emozioni non vissute e promesse mancate, che alimenterà le sua inquieta immaginazione coinvolgendola sempre di più… Ma i sentimenti autentici vivono nella vita reale, basta avere il coraggio di riconoscerli.

INCIPIT

L’attesa

La prima cosa che intravedeva ogni mattina, risvegliandosi nell’oscurità della sua camera, era la spia luminosa del computer.

Con dolente sollievo la fissava, quasi fosse l’unica luce sopravvissuta alla notte, cercando di scrollarsi di dosso il tepore estraniante di uno strano sogno che l’accompagnava fino al sorgere del sole.

Un sole che non vedeva mai fino a quando la mamma, piombando nella sua stanza, non alzava la serranda con piglio deciso.

In cucina c’era sempre ad attenderla il caffè appena fatto, ma non lo zucchero. La mamma non lo aggiungeva mai al caffè. Forse per giustificarsi di fronte a una dieta che continuava a rimandare. Per lei, invece, lo zucchero era fondamentale. Prima di aggiungerne quattro cucchiaini nella tazzina che avrebbe dovuto riportarla al mondo reale, lo carpiva dai videoclips musicali trasmessi da MTV, specie da quello di Alanis Morissette “Thank You”. Colonna sonora ideale di quei suoi ultimi mesi di vita. La voce della Morissette, però, si mescolava ai brontolii della mamma che, di tanto in tanto, si affacciava in cucina per richiamarla.

Pur trovandosi sempre in un’altra stanza a fare altre cose, la mamma lasciava la tivù accesa tutta la giornata.

“Mi fa compagnia” rispondeva al babbo che non comprendeva quell’inutile spreco di corrente elettrica.

“Ma non ti basta la radio?”

Alla mamma non bastava. Come a lei non bastava ascoltare la musica.

Doveva vederla per poterla vivere fino in fondo. Perciò abbassava la serranda, impedendo alla luce del giorno di riflettersi sullo schermo e offuscarne le immagini, in quella che sembrava una notte artificiale senza fine…

Il poco tempo che le rimaneva lo trascorreva a sfregarsi i denti fino a farli sanguinare. L’impatto visivo della sua immagine allo specchio di prima mattina la infastidiva; così, con lo spazzolino in bocca e i piedi scalzi, girava di stanza in stanza per guardare il panorama fuori.

Dalla finestra della sua camera si vedevano la casa della sua amica Fiamma e la strada principale del quartiere. Da quella di suo fratello Andrea, gli alberi intorno al condominio. Mentre dalla camera dei suoi genitori si scorgevano il terrazzo di Fiamma e la chiesa. Dal finestrone della sala, invece, il Duomo di Ancona e la città che gli sorgeva intorno.

E il mare.

A volte quieto e di un azzurro brillante, a volte agitato e velato dall’umidità.

Era quella la vista che la ispirava di più, riportandola allo strano sogno che faceva ogni notte. Un sogno di cui non serbava alcuna immagine, ma solo una intensa sensazione. La sensazione di correre a perdifiato verso un qualcosa di spaventosamente immenso, proprio come il mare. La riassaporava davanti al finestrone della sala, risentendo nelle gambe la fatica e lo sforzo di quella corsa. Senza fine e senza meta. Una corsa inutile, forse.

Inutile quanto truccarsi senza essersi prima lavati il viso. Una volta in bagno, si sciacquava energicamente la bocca e passava il mascara sugli occhi segnati da profonde occhiaie per renderle ancora più evidenti.

Tralasciando, volutamente, la pulizia del viso.

Il rossetto lo picchiettava distrattamente sulle labbra, dopo essersi raccolta i capelli alla meno peggio con quel particolare look che Andrea aveva soprannominato “scopettone da bagno”.

In realtà, quello stile trasandato era più ricercato di quanto sembrasse.

Lo stava raffinando, giorno dopo giorno, aggiungendo sempre un particolare nuovo. In quelle pallide mattine di metà ottobre, ad esempio, al solito completo nero aggiungeva un vecchio foulard scovato nell’armadio della nonna. Ne aveva visto uno simile indosso a Meg Ryan, la sua attrice preferita, sorpresa da “Chi” a fare la spesa in un qualsiasi discount americano.

Per non farsi riconoscere, Meg Ryan aveva per l’occasione adottato un abbigliamento più dimesso, lontano anni luce dal glamour della notte degli Oscar o dei servizi fotografici su “Vanity Fair”. Quelle foto “rubate” la coglievano in pose da persona quasi reale, con una borsa della spesa, gli occhiali da sole e un eccentrico foulard forse ispirato a un quadro di Mirò.

Lo stesso foulard che si annodava intorno al collo prima di uscire di casa, quasi fosse anche lei una diva costretta a difendere la propria vita privata dietro un forzato anonimato.

In realtà, era solo da se stessa che voleva difendersi quando, a capo chino, apriva il lugubre portone di casa e si ritrovava ad attraversare la strada, senza neanche alzare lo sguardo per veder passare le macchine.

Camminava con le mani ficcate in tasca, come se ci tenesse nascosta qualcosa che temeva andasse perduta, e non si toglieva gli occhiali da sole neanche al bar dove, incurante del barista che tentava di attaccar bottone, consumava con foga metà della solita brioche alla crema.

L’altra metà la avvolgeva accuratamente in un fazzoletto di carta e, prima di precipitarsi alla fermata, la infilava nella tasca del cappotto.

Malgrado le sollecitazioni della mamma, l’autobus delle otto e quindici lo perdeva sempre. Poco male: ne partiva un altro dieci minuti dopo. Di solito era la prima a salirvi e a prendere posto su uno dei sedili in fondo. Quello su cui un innamorato, armato di pennarello nero, aveva lasciato la scritta “TI AMO” tralasciando il proprio nome e quello della persona amata.

Una volta seduta sul “TI AMO” più anonimo della storia, tirava fuori dalla borsa il walkman e ne indossava le ingombranti cuffiette.

In quella solitudine di posti ancora vuoti, portiere aperte e motori spenti, le piaceva ascoltare la musica a tutto volume fissando i cartelloni esposti davanti all’edicola, le locandine dei film appesi sulle vetrina della videoteca e i manifesti funebri. Quasi facessero parte della stessa storia.

La sua storia.

Credimi, continua a passar di fronte alle finestre aperte

Credimi, continua a passar di fronte alle finestre aperte

Mentre i Queen cantavano nel walkman, accompagnando il transito delle persone che salivano sull’autobus di fermata in fermata, si sentiva del tutto incapace di tenere il passo di quella città grigia, anonima, che di prima mattina le correva freneticamente intorno. Eppure, esaltata dalla voce vibrante di Freddie Mercury, avrebbe voluto scuotere le gambe intorpidite, alzarsi di scatto e lanciarsi in una corsa liberatoria che spezzasse per sempre quel circolo vizioso di logore abitudini.

Una corsa.

Come quella che nei sogni la risvegliava da se stessa infondendole una sensazione mai provata prima.

La scritta “Fermata prenotata” che lampeggia di rosso fuoco.

Le portiere che si aprono. E Giulia che scende.

Le portiere che si chiudono alle sue spalle. E Giulia che risale la strada del centro. Mentre la scritta “TI AMO” impressa a grandi lettere sul sedile dell’autobus sul quale si è seduta – e rialzata – per ritrovarsi di nuovo a terra, traduce in due semplici parole la solitudine ingombrante di un posto lasciato vuoto per troppo tempo.

Una volta scesa dall’autobus desiderava ancor di più fuggire dal tran tran quotidiano che l’attendeva inesorabile. Trovarsi altrove.

Magari in un altro pianeta. Con questo folle desiderio di fuga attraversava tutto il corso senza neanche guardare le vetrine, fino a quando non si ritrovava davanti a quella del negozio cinese, venuto magicamente alla luce fra una cupa tabaccheria e uno studio dentistico.

L’insegna del negozio era bianca.

Con su scritto un ideogramma cinese.

All’apparenza intraducibile.

Le piaceva accostarsi alla vetrina per ammirare un bellissimo vestito di seta blu, appeso da anni alla stessa parete, chiedendosi con ansia quanto potesse costare. Ma senza trovare mai il coraggio di entrare per chiederlo. Altre persone entravano al suo posto per uscirne poco dopo con il solito vaso di porcellana, accuratamente avvolto da quel materiale che serve per confezionare i pacchi con la scritta “Fragile”.

A lei non piacevano, quei vasi. Troppo delicati, inespressivi, quasi congelati nella loro minuta perfezione. Le piaceva solo quel vestito.
Sebbene le sembrasse troppo costoso.

“Come fai a dire che è costoso se non conosci il prezzo?” le faceva notare Fiamma, incitandola ad entrare. Ma lei non entrava mai. No. Restava lì fuori, imbambolata, chiedendosi cosa significasse l’ideogramma dell’insegna.

Per poi tradurlo, di volta in volta, con un nome diverso.

 

La boutique dove lavorava come commessa con Fiamma, invece, un nome lo aveva. Si chiamava “Venice.” Forse perché il vecchio proprietario desiderava non tanto essere in un altro pianeta quanto in un’altra città. E ci era riuscito, visto che si era trasferito da alcuni mesi.

Non a Venezia, ma in un’altra città che nessuno sapeva. Neanche lei. Ma la cosa non aveva la benché minima importanza. Niente era cambiato da allora.

Solo i vestiti si alternavano di stagione in stagione e, senza muoversi dal proprio manichino, sfilavano in vetrina affacciandosi alla strada che costeggiava il porto di Ancona.

 

Da lì si potevano guardare le navi che, come vecchie matrone arrugginite, di notte partivano ingioiellate di luce. E la statua del valoroso Traiano, il quale continuava a tendere il suo braccio al cielo nel vano tentativo di riemergere da quella bandiera biancorossa ormai scolorita che lo imbavagliava da mesi.

Prima di attraversare la strada e raggiungere “Venice”, si fermava davanti al suo amico Traiano  e lo salutava con un sorrisetto complice, quasi a consolarlo da quell’umiliazione calcistica che i tifosi anconetani gli hanno riservato dopo la promozione dell’Ancona in serie A.

Il saluto a Traiano, però, le costava sempre un rimprovero da Fiamma che, vedendola entrare in boutique tutta trafelata, le faceva notare con malcelata irritazione “l’ennesimo inqualificabile ritardo.”

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