Descrizione
Un piccolo ma penetrante romanzo d’iniziazione in cui il tempo della spensierata adolescenza di una cricca di ragazzi sta lì a definire un mondo, nel microcosmo della silenziosa provincia lucana. Il narrare oscilla sul metronomo di una scrittura serena, essenziale, ma soprattutto linda nel periodare. Di tanto in tanto qualche citazione per Bierce, Lewis, Flamel si intromette nell’esposizione, ma il calligrafismo è escluso da “L’arte di Khem” (edizioni Pendragon), opera prima di Stefano Santarsiere, che ambienta la sua storia nel suo paese natio, Sarconi, il quale, seppur non e’ mai citato esplicitamente chi lo conosce lo individua attraverso la descrizione del paesaggio, la morfologia dei luoghi e dell’abitato. Il plot: nella sua sontuosa villa romana sul colle Esquilino, Vidiani – un ricco signore sulla quarantina, possessore di una decina di imprese i cui guadagni in parte vengono investiti in attività di beneficenza ed umanitarie – accoglie l’anziano Bourbault che per decenni ha rincorso invano la scienza e i segreti di Egidio Fulcanelli. Uno strano signore che l’impresario, ancora ragazzo, conobbe nel suo paese molti anni prima, e di cui e’ rimasto unico custode della sua arte e filosofia. Dal tempo presente il racconto si sposta così al giugno del 1978, i cui unici accenni realistici vengono scanditi dallo scandalo che porto’ alle dimissioni il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, e dalle imprese della nazionale di Bearzot ai mondiali dell’Argentina. Il Vidiani adulto rivisita il Vidiani adolescente di quell’estate che con la sua allegra compagnia ingegna un montaggio fotografico per ingannare i compaesani dell’arrivo fuori dall’abitato degli ufo, corre al fiume alla controra per il bagno, scopre il tesoro di una civiltà nascosta e rimasta all’oscuro dalla conoscenza degli addetti ai lavori, avvicina ripetutamente Egidio Fulcanelli che gli svela il mistero esoterico della terra di Khem, una ricerca filosofica il cui obiettivo riguarda la grande opera di trasmutare l’uomo da “materia bruta in essere totale e senziente”. L’arte di Khem” non e’ un romanzo moralista, non intende lasciare nessuna lezione, dalle sue pagine si intravede solo una mappatura che, svelando i segreti di alcuni segni, prova ad afferrare il senso autentico della vita. Un libro per tutti il romanzo di Stefano Santarsiere, ma in particolare per quel lettore che professa la lettura come un sentimento o un’idea che certamente mal si concilia con attività speculari e materiali. Mimmo Mastrangelo
INCIPIT
Roma, Villa Palombara (colle Esquilino), Agosto 1999.
* Uno *
L’uomo che il solitario padrone della villa attendeva non tardò neppure un minuto. Alle 15:30 esatte si trovava nell’ingresso. Si chiamava Antonio Bourbault. Era di origini francesi, aveva un’età che il padrone della villa poté stimare fra i settanta e gli ottanta. Aveva l’aria circospetta di un uomo navigato e abituato a girare il mondo, a conoscere le cose da vicino e a patire mille delusioni in cambio di sporadiche, minuscole vittorie. Il padrone della villa sapeva che l’ossesione di quell’uomo era di cercare e conoscere senza sosta, quasi fosse costretto ad agire in questo modo da qualcosa di incomprensibile che si agitava dentro di lui e che per ora, agli occhi di colui che lo ospitava, non aveva né un nome né una spiegazione esauriente. Ma ora la sua faccia rugosa mostrava anche una segreta soddisfazione, come se la visita alla villa fosse una conquista che garantiva l’accesso a una vecchiaia migliore, la fine ufficiale di anni e anni di peregrinazioni. Il padrone lo ricordava quando vent’anni prima era piombato nel suo paesino del meridione, a caccia di un personaggio straordinario che inseguiva già da un paio di decenni. A quel tempo, sul suo volto non c’era traccia della condiscendenza di adesso, dell’equilibrio posato che traspariva dagli occhi illanguiditi dal tempo e dalla fatica. C’era la risolutezza cupa del cacciatore che fiuta le tracce della sua preda, e che inesorabilmente la scova e la distrugge nella sua stessa tana. Il padrone della villa fece strada fra i saloni e le porte riccamente rifinite. Le finestre erano socchiuse e tutte le sale erano invase da una freschezza ombrosa. E da un vago odore di tende e polveri che a Bourbault parve familiare, perché gli ricordava antri seminascosti abbandonati velocemente qualche ora prima del suo arrivo. Giunsero in una sala molto grande, a forma di perfetto ottagono, con enormi armadi ricolmi di libri, quadri dalle cornici barocche alle pareti, e uno scrittoio francese del XVIII secolo proprio nel mezzo. V’erano alcune porte nascoste da tende purpuree che cadevano dal soffitto, e tappeti sotto i tre divani disposti agli angoli opposti. Il padrone invitò l’ospite a sedersi presso lo scrittoio, dove attendeva un vassoio colmo di biscotti e una bottiglia. Ma l’attenzione di Bourbault era rapita dal soffitto della camera, dipinto in modo intrigante e magico. Da una parte apparivano schiere di salamandre inseguite da un gruppo di uomini-leone; più in là, una mezza dozzina di sirene nuotavano in mezzo a tritoni e tartarughe con la testa d’uccello, in un mare limpidissimo, che si fondeva con un cielo pullulante di uccelli fantastici con occhi e zampe umane; e poi tutta una selva di simboli alchemici, branchi di unicorni su isolette verdissime, asini-preti che cantavano messa in chiese dagli arredi gotici. Il vecchio Bourbault guardò il soffitto e lo collegò alla sfavillante ricchezza del padrone della villa, realizzata in poco meno di vent’anni, e capì che se il padrone lo stava ospitando proprio in quella sala, non era certo frutto del caso. — Ero già stato in questa villa — disse. — Molti anni fa. Ma non la ricordavo così… così autentica. Il padrone della villa non disse niente. Si limitò ad annuire. Bourbault proseguì: — Dimore come questa ce ne sono di diverse. — Non me ne sono mai interessato, francamente — disse il padrone. — Capisco. Non ne aveva motivo. Ma io ho visitato la Casa di Faust, ad esempio. A Praga. Un palazzo tardo-rinascimentale rimaneggiato più volte nel corso del Seicento e del Settecento. Sorge in Korlovo Namesti, nella Città Vecchia, ed è famoso perché fu la dimora di molti personaggi misteriosi. Il padrone della villa ascoltava Bourbault attentamente, ma ancora con un residuo di diffidenza. L’ultima volta che aveva avuto a che fare con quell’uomo era stato in circostanze che ricordava con una certa malinconia. L’avvento di Bourbault nel suo paese aveva significato la fine di un periodo meraviglioso. — Altre case come questa si trovano in Francia — continuò l’ospite. — Il Castello del Plessis-Bourré costruito attorno al XV secolo, con la sua salle des gardes così simile a questa sala. O il Maniero di Salamandra, a Lisieux, in Normandia, che ho visitato personalmente molti anni fa. — Perché si è deciso di venire da me? — domandò il padrone della villa. — Perché non ho più alcuna speranza di afferrare il nostro comune amico, signor Vidiani. E siccome alla mia età bisogna tirare le somme di quel che si è fatto, sono venuto da lei per sapere se ho speso la mia vita per qualcosa che esiste realmente oppure no. — Lo immaginavo — rispose Vidiani. Bourbault gli rivolse uno sguardo attento, ai limiti dell’inquietudine. — Lei è straordinariamente ricco — azzardò. E Vidiani fece oscillare il capo. In effetti la misura esatta delle sue ricchezze era sconosciuta praticamente a tutti, ma chiunque poteva rendersi conto che la sua esistenza si svolgeva in una dimensione senza eguali, dove il denaro gli scaturiva intorno come fosse benedetto da una divinità venale e inesauribile. Possedeva una mezza dozzina di imprese e piccole industrie, che lasciava gestire a piacimento a chiunque conquistasse un minimo della sua fiducia o simpatia. Giudicava le persone in base alla loro cultura e alla capacità che avevano di utilizzarla nella società, e sapeva affezionarsi solo a quanti dimostrassero apertura verso temi e argomenti non troppo mondani. E nonostante la sua enorme ricchezza, non sembrava che Vidiani fosse al mondo per tesaurizzare o accelerare i processi economici. Non si era formato una famiglia. Viveva quasi soltanto per i numerosi amici conosciuti nei suoi viaggi, e per le opere di beneficenza che finanziava e curava di persona: un gran numero di fondazioni e altre attività a fondo perduto di carattere umanitario. In un paio di occasioni aveva subito controlli fiscali molto accurati; e una volta, forse dietro denuncia anonima, anche indagini volte a identificare la sorgente ultima della sua ricchezza. Ma niente di sospetto era stato scoperto. E ora era lì, davanti a Bourbault che gli chiedeva: — Mi parli di quei mesi del ‘78. Mi dica almeno quello che ha fatto con lui, quello che le ha insegnato, cosa le fatto vedere quando lei era poco più che un ragazzino. — E cosa ne farà dei miei racconti? — Niente di niente. Non ho intenzione di scrivere libri. Le ripeto che voglio soltanto capire se Fulcanelli era davvero il tipo di persona che immagino e che ho inseguito per oltre quarant’anni in tutta Europa. – Si costrinse a mettere un biscottino in bocca, solo per mostrarsi a proprio agio, mentre un grosso orologio a pendolo suonava le 16:00 nella penombra della Grande Sala con una serie di rintocchi solenni. Vidiani disse: — Prima mi dica perché lei lo ha inseguito per tanto tempo. Perché gli ha reso la vita praticamente un inferno. — Lei cosa crede? Ambizione. L’ambizione di uno studioso schernito da tutto il mondo accademico come fosse un cacciatore di fantasmi. E anche, lo confesso, la segreta tentazione di conoscenze straordinarie, di ricchezze favolose. E mi lasci dire una cosa: non gli ho reso la vita un inferno. È lui che l’ha resa a me. Per Fulcanelli non è un problema sbarazzarsi del passato, dei luoghi, perfino delle persone e cambiare totalmente vita. Probabilmente lo avrebbe fatto lo stesso. Ma per me era un’altra cosa… — Sospirò, come se all’improvviso i ricordi difficili si riaffacciassero tutti insieme alla sua mente. — Io non avevo le sue stesse risorse — disse. — Perché non si è mai lasciato scovare da lei? Bourbault si strinse nelle spalle. — Penso non mi considerasse degno. Il fatto stesso che lo inseguivo così accanitamente doveva sembrargli un buon motivo per sfuggirmi. Vidiani lo osservò con più generosità. Ebbe la sensazione di avere di fronte un uomo rassegnato, che reclamava giusto una piccola consolazione per quanto aveva corso, per quanta polvere aveva inghiottito inutilmente, per quanto aveva fatto e disfatto in tanti anni spesi a inseguire un sogno forsennato. Si distese sulla poltroncina e trasse un bel respiro. Si chiese se Fulcanelli avrebbe gradito il racconto di quella lontana estate, quando era ancora un ragazzino, e alla fine decise che forse valeva la pena, che forse avrebbe potuto trovare il coraggio di mettere la parola fine alle disillusioni di quell’uomo. Inoltre, da un Bourbault vecchio e sfinito non c’era più niente da temere. Invitò il vecchio ospite a prendere un altro biscotto, a sorseggiare un po’ del suo cocktail alla salsapariglia e promise di raccontargli tutta la storia a patto che egli non la rivelasse a nessuno. Bourbault giurò, con l’enfasi sollecita di un ragazzino che dopo mille insistenze abbia convinto un amico a rivelargli il più misterioso dei segreti.
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