L’anno che portavi i capelli corti

16,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Danae Lorne, Lena Vinci

Note sull’autore  

 

COD: ISBN 978-88-6690-362-8 Categoria: Tag: , ,

Descrizione

C’è chi ritrova se stesso negli occhi di un altro essere umano, e chi lo fa, affrontando un viaggio in terre sconosciute. La mia verità la trovai nascosta nella rimessa di una vecchia casa abbandonata.

In quella casa dove si era svolta la recita monotona e stonata della nostra vita familiare, avevo trovato pagine che raccontavano un altra storia, una storia non recitata ma sinceramente vissuta, di un amore lontano e struggente. Quando mi ero ritrovata in mano una delle lettere di Agnese non avrei mai immaginato quali conseguenze avrebbe avuto sul mio presente, e quanto profondamente avrebbero cambiato la mia vita quei fatti ormai lontani.

 

Silvana deve tornare in Toscana, dopo venti anni d’assenza, per seppellire suo padre. E rovistando tra le polverose cianfrusaglie di quel passato che si era lasciata alle spalle scopre delle lettere, vecchie lettere nascoste con cura. Chi scrive è Agnese l’amante di Elena… sua madre.

Le due donne si erano conosciute da ragazze e si erano innamorate nonostante tutto. Nonostante la vergogna, nonostante la paura e l’ipocrisia di un mondo che stava per cambiare (erano gli anni sessanta) ma che ancora non era pronto ad accettare un amore “diverso” come il loro. Elena però non aveva avuto il coraggio di sfidarlo fino in fondo quel mondo, ad un certo punto si era illusa di poter condurre una vita “normale” e si era chiusa nella sua nicchia protetta costringendosi  a recitare il ruolo di moglie e di madre.

Per Silvana comincia quindi uno struggente viaggio a ritroso che le racconterà l’altra faccia dell’amore, di un amore sacrificato alla vergogna ma che resisterà al tempo e alla morte e darà a lei il coraggio di rimettersi in discussione e cambiare la sua vita.

INCIPIT

Capitolo primo

Quando la zia Adele mi aveva telefonato per dirmi di papà, avevo avuto un attimo di straniamento ed era stato per questo che non le avevo risposto con la partecipazione che si sarebbe legittimamente aspettata. In realtà io ero abituata da molti anni allo spazio vuoto che la parola padre definiva nella carta geografica dei miei affetti e la notizia che, lontano da qui, in una casa anonima della periferia pisana, la salma di un vecchio reclamava la mia presenza e le mie lacrime mi poneva in uno stato d’animo indecifrabile che somigliava in parte alla reminiscenza confusa di un dolore, in parte al sentirmi vittima di un equivoco.

Mio padre per me era morto venti anni prima, insieme a mia madre. Di fatto, pur non essendo morto fisicamente, dopo quella tragedia, era cambiato in una maniera così improvvisa e profonda da trasformarlo in una persona emotivamente irraggiungibile. Era come se quella perdita avesse esasperato, in misura patologica, certi aspetti del suo carattere, già così ostico anche al tempo di quella che era stata la nostra normale vita famigliare. E infatti, a qualunque età della mia vita fossi risalita attraverso i miei ricordi, il mio rapporto con lui avrebbe potuto essere descritto, invariabilmente, come un indefesso tirocinio psicologico nel quale con il suo atteggiamento scostante, la sua aria assente, le sue risposte brusche, sempre pronte a colpirmi a bruciapelo, mi aveva abituata a tenere le distanze, a frenare gli slanci, e a non esprimere mai nulla di eccessivamente personale. Ricordo ancora, tra le abitudini della nostra vita famigliare, le lunghe passeggiate silenziose per i sentieri delle nostre colline nelle quali lo avevo seguito da bambina, trotterellandogli alle calcagna per ore come un cagnolino nella speranza che prima o poi mi concedesse l’elemosina della sua attenzione.

Una volta venuta a mancare mia madre, il nostro legame fragile, nato più dalla mia paziente ricerca del suo affetto che da un suo naturale istinto paterno, si era reciso con uno strappo violento e io mi ero ritrovata dall’oggi al domani a dover cercare un posto dove vivere, fuori da quella casa dove ormai entrambi ci aggiravamo come fantasmi, nel silenzio più assoluto e mettendo il massimo impegno nel non trovarci mai l’uno di fronte all’altra. Avevamo trascorso quasi un anno sopravvivendo in quel modo, poi quando non avevo più potuto accettare quell’estraneità e mi ero resa conto di non avere più alcuna risorsa per contrastarla, avevo raccolto i miei quattro stracci e, con l’ausilio di un piccolo lascito di mia madre, avevo iniziato una nuova vita in un posto il più possibile lontano da lì.

L’ultima volta che l’avevo rivisto, quasi vent’anni anni dopo la mia fuga, avevo fatto fatica a riconoscerlo. Il tempo non aveva avuto pietà di lui, lo aveva consumato crudelmente trascinandolo in un declino molto più rapido di quello destinato alla maggioranza dei suoi coetanei: al posto dell’uomo di sessantotto anni che mi ero aspettata di vedere, avevo trovato un vecchio dalle iridi sbiadite, una figura scarna, fragile come un uccello senza piume che mi guardava senza dare segno di riconoscermi, con uno sguardo assente, come assorto in qualche misteriosa riflessione che culminava, a tratti, nello stupore di chi approda a una trionfale scoperta dopo una lunga fatica.

Negli ultimi due anni, una malattia dal nome difficile aveva eroso progressivamente gran parte della sua memoria e della sua residua capacità di relazione. Prima che quella discesa nella nebbia ne annientasse del tutto la personalità io avevo voluto incontrarlo, a casa di zia Adele a Pisa dove viveva da quando era peggiorato e l’avevo fatto per una necessità decisamente poco onorevole: il bisogno di mettermi in pace la coscienza. Quell’ombra irriconoscibile, che aveva conservato a stento qualche traccia dei lineamenti di una volta, aveva ricompensato la mia presenza con un profluvio di frasi confuse, prive di senso che mi aveva rivolte senza mai smettere di darmi del «lei».

In quelle manifestazioni di un inesorabile decadimento psicofisico avrei potuto leggere, se fossi stata più attenta, i segni premonitori della sua morte imminente. La zia Adele, che osservava mio padre con uno sguardo decisamente più attento e affettuoso del mio, quel giorno, accompagnandomi alla porta, mi aveva fatto una carezza su una guancia e mi aveva chiesto di tornare ancora a trovarlo perché temeva che non sarebbe vissuto a lungo.

«Quando non ci sarà più, ti dispiacerà non essergli stata accanto. Lui adesso non ha bisogno di te, non ti riconosce nemmeno, ma sarai tu ad avere bisogno di lui quando non ci sarà più. Ti voleva bene, a modo suo. Ne voleva molto anche a tua madre. Forse un giorno…» Per quanto fosse placidamente scevro da ogni intenzione di farmi sentire colpevole, quel discorso mi aveva urtata. Me n’ero andata via piena di rabbia, trattenendo tra i denti quello che avrei dovuto risponderle: non avevo voglia di affrontare con lei una discussione che sarebbe stata certamente sgradevole, la zia non lo meritava dopo tutto quello di cui si era fatta carico al posto mio, ma non potevo nemmeno, in nessun modo, accettare che mi parlasse di «bene» riferendosi a un uomo che era vissuto accanto a me e a mia madre come un estraneo. Che andasse al diavolo anche così malconcio com’era! Io non sentivo nessuna sollecitudine nei suoi riguardi e respingevo ogni argomentazione che avesse la pretesa di vincolarmi a quel grumo di sofferenza che i miei ricordi e il presente problematico coagulavano intorno alla figura di Emilio Mossini, mio padre. Da allora era passato un anno e io non ero mai più andata a trovarlo.

Adesso, nonostante lo stato d’animo di completa indifferenza rispetto a questa morte, o meglio morte differita, o morte ufficiale o non so cosa, ho preso dieci giorni di congedo dal lavoro. Mi serviranno per il viaggio e per quello che ci sarà da fare. La burocrazia esigerà il suo tributo di carte, firme e bolli anche in queste circostanze. Del funerale per fortuna si occuperà la zia. E poi ci sarà da pensare anche alla nostra casa vicino Firenze, abbandonata a se stessa da due anni. Non andrò mai più ad abitarci e la cosa migliore sarebbe venderla. Io non nuoto nell’oro e non so nemmeno se potrò mai permettermi di pagare le tasse di successione con i miei lavori da saltimbanco sfigato. Ma pensiamo a una cosa alla volta.

Al viaggio ad esempio. A questo bisogna pensare. Trovare un volo per arrivare presto, perché un morto non ti aspetta, vuole essere seppellito al più presto e se ne infischia che manchino sei giorni a Natale e che gli aerei siano pieni. Un posto in aereo riesco a ottenerlo malgrado tutto, pagandolo una cifra astronomica, e al momento dell’imbarco mi ritrovo, con grande disappunto, in una fila centrale tra due passeggeri con i quali devo condividere una fastidiosa vicinanza per l’intero viaggio. Non posso nemmeno guardare fuori dal finestrino per accarezzare con lo sguardo la terra che si allontana sotto di noi, il vulcano innevato e il mare coperto dall’incanto di un sole invernale che rimpiangerò. Lo rimpiango infatti, fin dal primo momento, fin da quando Pisa mi compare davanti, attraverso i vetri della corriera, immersa nella nebbia del mattino.

Quando arrivo a casa di zia Adele sono quasi le undici: mi fa male la schiena a forza di tirarmi dietro il borsone e ho già fatto colazione due volte in due diversi bar per rimandare il più possibile il mio arrivo. Un po’ l’ho fatto per non disturbarla arrivando troppo presto e un po’ per una forma di vigliaccheria che mi spinge a ritardare il più possibile il momento del mio ingresso nella stanza dove riposa mio padre in attesa della sepoltura. Ma alla fine, eccomi qua.

La zia mi accoglie con un lungo abbraccio silenzioso. Poi mi saluta semplicemente, senza aggiungere altro. L’odore dell’incenso mi raggiunge già sulla porta e i miei occhi corrono all’unica stanza che abbia la porta aperta. Quando ritorno a guardare la mia ospite, lei annuisce col capo. Lo fa con un’espressione carica di dolcezza come quando si dà il permesso a un bambino di fare qualcosa e lo si deve rassicurare perché si senta libero di farla. Mi obbligo a compiere i pochi passi necessari a varcare la soglia della stanza e lui è lì, in un impeccabile completo nero, disteso su un lettino preparato con ogni cura. Ha il viso disteso e sereno come mi era capitato a volte di vederlo da bambina quando si ritirava da solo nel suo garage a tagliare e piallare assi per farne qualche oggetto che gli era venuto in mente di costruire. Rimango lì a guardarlo solo per pochi minuti mentre sento che inizia a stringermisi la gola. Sarà l’incenso, penso. Non bisognerebbe bruciare incenso in una stanza così piccola e con la finestra chiusa, è normale che dopo manchi l’aria.

1 recensione per L’anno che portavi i capelli corti

  1. Claudio O

    Riflessioni

    Se leggerete questo romanzo vi troverete catapultati in un mondo di riflessioni, di ragionamenti complicati ma molto molto interessanti.
    Se la protagonista pare essere in cerca di ciò che era sua madre forse, in realtà, lo è di se stessa ed sono magnifici i pensieri che l’autrice ci dona in merito alla stoltezza della nostra tronfia società e della situazione sociale ormai imperante ai giorni nostri.
    Romanzo non facile ma credo che un lettore intelligente e dalla mente aperta possa senz’altro apprezzare in tutto il suo complesso.

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