L’ambiguo sorriso di Gilda

18,00

Formato: Libro cartaceo pag. 418

Autore:Riccardo Borgogno

Note sull’autore

 

 

Esaurito

COD: ISBN: 978-88-5539-059-0 Categoria: Tag:

Descrizione

1947-1949. Arrivano in Italia Gilda e altri film che fanno conoscere i divi e le dive di Hollywood. Luisa ha sedici anni, è l’unica superstite degli abitanti del suo paese massacrati dalle SS tedesche in ritirata. Adesso vive a Roma con gli zii Antonia e Peppe e la loro figlia Cecilia, sua coetanea. Ferdinando consegue il diploma di maturità e si prepara a subentrare al nonno Massimiliano nella guida del Consorzio, un gruppo finanziario e affaristico. Gioele è un operaio comunista, durante l’occupazione ha fatto la lotta clandestina, non accetta la nuova linea legalitaria e democratica del suo partito e organizza un gruppo che esegue atti di “giustizia proletaria”. Guglielmo è un agente del ricostituito servizio segreto. Riceve l’incarico di organizzare una rete armata clandestina allo scopo di prevenire un’invasione sovietica esterna o un’insurrezione comunista interna (o entrambe) in modo da rendere l’Italia affidabile per i nuovi alleati. La nuova rete si chiama “Gladio”. La giovanissima protagonista Luisa compare anche in età adulta nel romanzo I nostri figli non conosceranno la miseria, ambientato a Torino nel 1961 dello stesso autore.

1947 – LA RAGAZZA SULL’ALBERO

 

1

 

I cani dalmata Gorgo e Argo abbaiarono. Ferdinando sollevò lo sguardo dal libro e guardò verso il boschetto, ma non notò nulla d’insolito. Da pochi giorni il sole primaverile gli permetteva di uscire dalla villa e studiare seduto sulla panca con il libro posato sul tavolino. La panca e il tavolino erano di pietra, e il libro era il testo di contabilità e statistica con cui si stava preparando a sostenere l’esame per il conseguimento della maturità scientifica dell’anno scolastico 1946-1947. Ferdinando era molto bravo con i numeri, se si stava attenti i conti tornavano sempre, e non aveva faticato con le equazioni e i diagrammi. Dopo sarebbe andato all’università e avrebbe cominciato a lavorare insieme al nonno.

Ferdinando Sansoni aveva diciassette anni, la carnagione chiara con qualche lentiggine, gli occhi celesti e i capelli biondi ben ordinati con la riga in mezzo. Erano ben ordinati anche la camicia bianca, il pullover senza maniche, i pantaloni grigi con le pinces e i mocassini in pelle. L’ordine era la cosa che gli avevano insegnato fin da piccolo e che regnava nella sua vita fin dove arrivavano i suoi ricordi. Suo padre Giorgio amava le auto sportive, forse troppo, e un giorno maledetto l’Hispano-Suiza che stava provando a una curva troppo stretta aveva preso il volo e poi era stata avvolta dalle fiamme. Lui l’aveva saputo il giorno dopo dalla mamma in lacrime, che era morta l’anno successivo. Di lei ricordava che amava suonare il pianoforte e che era sempre preoccupata per la sua salute. Ferdinando e Massimiliano, il nonno paterno, non erano abituati a parlare e, dopo qualche tentativo, avevano rinunciato. Massimiliano Sansoni era un uomo d’affari, aveva girato il mondo e conosceva le lingue, aveva conosciuto esponenti del Cln e ufficiali americani e inglesi. Dopo la guerra passata in casa di amici in campagna, Ferdinando era tornato nella villa al centro di Roma. Seguendo i consigli di nonno Massimiliano, non avrebbe potuto sbagliare.

Nella villa c’erano sale e corridoi con i soffitti altissimi, e molti tappeti e quadri con austeri personaggi dagli sguardi severi che, dopo tanto tempo, non gli facevano più molta impressione. Torquato gli aveva detto che la villa risaliva ai tempi del Papa Re, ma il vecchio giardiniere tuttofare amava chiacchierare e non bisognava prenderlo troppo sul serio. Certo la villa i suoi anni li aveva e il suo effetto lo faceva.

Quando era stanco di studiare, il ragazzo biondo e pallido riponeva i libri e s’inoltrava nel boschetto fin dove la villa non si vedeva più, e pensava di essere in una foresta piena di pericoli e misteri. Ma poi l’incantesimo si era spezzato. Nel boschetto non c’erano né belve né cannibali né ruderi di città antichissime, e non era nemmeno tanto grande. Sembrava che le dimensioni del boschetto si riducessero di giorno in giorno, e alla fine era rimasto un sentiero ben tenuto che, con due curve, girava intorno alle aiuole e alle siepi. C’era persino una panchina per l’esploratore stanco. Poi c’era un laghetto circolare con le sponde di pietra, con le foglie che galleggiavano sull’acqua immobile. D’inverno il laghetto si riduceva a una vasca asciutta e triste. Il giorno peggiore era stato quando Ferdinando aveva trovato l’inferriata dove il boschetto finiva e oltre cui non era possibile andare. Al di là c’era la strada asfaltata e, se si tendeva l’orecchio, era possibile sentire in lontananza lo sferragliare di un tram.

Ferdinando tentò di riprendere la contabilità e la statistica, ma ormai la concentrazione se n’era andata, e allora si alzò e si guardò intorno. I cani non abbaiavano più. Non aveva voglia di rientrare nelle sale dai soffitti altissimi, dove probabilmente Irene, la moglie di Torquato, era ancora intenta a pulire e lucidare, con l’aiuto di sua nipote Anna. Ferdinando s’incamminò sul sentiero di ghiaia in direzione del boschetto, e poco dopo la villa cessò di esistere.

Non avrebbe saputo dire cosa avesse attirato la sua attenzione. Forse un rumore diverso dal fruscio delle foglie o uno squarcio di colore diverso dal verde che lo circondava e sommergeva. Ferdinando fece qualche passo, girò intorno a una siepe, scavalcò una radice sporgente, alzò gli occhi e la vide. La donna selvaggia, cresciuta nella giungla insieme agli animali, era lassù aggrappata a un ramo nodoso, vestita solo con una pelle di animale e con i lunghi capelli che non erano mai stati tagliati. Improvvisamente il boschetto tornava a essere la foresta misteriosa e pericolosa dei suoi anni da bambino, da un momento all’altro dai cespugli sarebbe sbucato un leone o dal laghetto sarebbe emerso un coccodrillo.

Ferdinando non riusciva a smettere di guardare la donna selvaggia, e anche lei guardava lui. Poi lei si mosse e cominciò a scendere. I movimenti erano agili e sciolti. Una mano afferrava un ramo mentre il piede scivolava sulle asperità del tronco. Il ragazzo biondo e pallido fece un passo indietro e si guardò intorno, domandandosi come si sarebbe difeso se lei lo avesse assalito, ma non vide nulla che gli potesse servire alla bisogna. Avrebbe potuto semplicemente voltarsi e fuggire, ma la curiosità fu più forte. Forse la donna selvaggia aveva bisogno di cibo, e mangiando gli avrebbe raccontato la sua storia. Ma se non avesse saputo parlare la lingua italiana?

Poi la donna selvaggia posò i piedi per terra, e Ferdinando vide che era quasi una bambina e non era poi tanto selvaggia. Non era vestita della pelle di un animale ma con un giubbotto nero, una gonna pieghettata e un paio di scarponcini. Forse non era nemmeno nata e cresciuta nella foresta tra gli animali. Le mani erano imbrattate di terra, e un graffio le attraversava una guancia.

«Ciao.»

Meno male, parlava italiano. Ferdinando ritenne buona educazione rispondere sullo stesso tono.

«Ciao. Io mi chiamo Ferdinando. E tu?»

«Luisa. Cosa fai qui?»

«Cosa faccio qui?» Ecco una domanda che Ferdinando non si era aspettato. «Io abito qui. Questa è la mia casa.»

«La villa? Sì, sì, l’ho vista. Una volta ci sono passata davanti. Bella.»

«Come hai fatto a entrare?»

Luisa si guardò indietro, come indecisa se rivelare il suo segreto, poi si decise.

«Sono passata tra le sbarre. Una sbarra è piegata e c’è un varco. Ho fatto fatica, ma ci sono riuscita. Ho anche scavato un po’.»

Ecco spiegate le mani sporche di terra. Forse Luisa capì il suo pensiero e si portò le mani dietro la schiena. Ora i due ragazzi erano molto vicini, e Ferdinando percepiva l’odore di selvatico che emanava da quel corpo immaturo e sgraziato. Luisa aveva i lunghi capelli castani riuniti in una coda di cavallo. I lineamenti erano un po’ spigolosi e le labbra sottili e strette. Lo sconcertava il suo modo di fissarlo mentre parlava, come se volesse leggergli nel pensiero e capire tutto di lui. Era una sensazione nuova e sconosciuta.

«Perché?»

«Perché perché… perché si fanno le cose? Si fanno e basta.»

«Volevi rubare?»

«Io rubare? Cosa dici? Sei matto? Io sono ricca, ho tante cose, non ho bisogno di niente. Non voglio niente da te.»

«Guarda che ci sono due cani. Potevano farti male.»

«Allora ti preoccupi per me?»

Ferdinando arrossì. Davvero Luisa gli leggeva dentro, gli occhi verdi e penetranti non lo abbandonavano un istante. Ora le labbra strette erano atteggiate in un sorriso che gli sembrava di scherno.

«Tranquillo, Ferdinando. Ho visto i tuoi cani. Sono due cuccioloni molto simpatici, e loro hanno trovato simpatica me. Abbiamo fatto subito amicizia.»

Luisa fece un passo avanti e Ferdinando ne fece uno indietro. Nessun rumore giungeva dal resto del mondo. Non un filo di vento muoveva l’aria.

«Vivi qui con la tua famiglia?»

«La mia famiglia? Sì, sì, vivo con il nonno… e tu?»

«I miei genitori sono morti. Adesso vivo con i miei zii. In una casa più piccola della tua. La tua villa… me la fai visitare?»

«Oh no!» Ferdinando rispose di getto. «Non si può.»

«Come, non si può? Non è casa tua?»

«Sì, ma il nonno non vuole.»

«Non vuole che nessuno venga a trovarti?»

Ferdinando non avrebbe saputo cosa rispondere, ma Luisa non insisté.

«Ora devo andare.»

«E allora vai, cosa aspetti.»

«Ma tu cosa fai?»

«Stai ancora a preoccuparti per me? Ti ho detto che non ce n’è bisogno.»

Ferdinando fece qualche passo, poi si fermò e si voltò. Luisa non si era mossa, e teneva ancora le mani dietro la schiena. Ora era molto seria e immersa in profonde riflessioni. Levò una mano da dietro la schiena e gli fece un cenno stizzoso.

«Vai, vai, che non ti rubo niente, stai tranquillo.»

Il ragazzo pallido e biondo arrivò ai confini del boschetto. Ora vedeva di nuovo la villa. I mocassini si erano sporcati di terra. Si voltò un’ultima volta, e Luisa non c’era più. Non l’avrebbe rivista mai più e non avrebbe mai saputo nulla di lei. Recuperò dal tavolo di pietra il libro di statistica e contabilità e s’incamminò verso la villa. Aveva raggiunto la scalinata quando si sentì chiamare. Si voltò e vide il guardiano venire verso di lui. I guardiani erano cinque, indossavano tutti un completo grigio con una camicia bianca e una cravatta, e una volta Ferdinando si era accorto che, sotto la giacca, uno di loro portava una pistola. Il nonno gli aveva spiegato che era per la sua protezione.

«Scusi, signor Ferdinando…»

«Buongiorno, Arturo. Qualche problema?»

«Ha forse visto qualcuno nel parco?»

«Qualcuno?»

«Un estraneo, intendo. I cani hanno abbaiato, io e Roberto abbiamo fatto un giro ma non abbiamo trovato… forse lei ha visto…»

«No, no. Non ho visto nessuno.»

Il guardiano ringraziò e salutò. Il ragazzo rientrò nella villa.

 

2 – Tre anni prima

 

Luisella guardava fuori dalla finestra e quasi non sentiva la voce della maestra Alberta che spiegava, nell’unica scuola che ospitava le classi elementari e medie nel paesino di Grossaglie. Il cielo era grigio e la campagna era chiazzata di neve, e sullo sfondo svettava l’Appennino. La bambina aveva l’impressione di sprecare i suoi anni migliori chiusa in quella stanza ad ascoltare cose inutili, e non vedeva l’ora che tornasse il sole per correre di nuovo nel bosco. Le piaceva girovagare da sola, quando non era occupata ad aiutare la mamma nell’orto. Le piaceva arrampicarsi sugli alberi, spiare i cerbiatti che andavano a bere al ruscello, pronti a fuggire al minimo fruscio. Aveva imparato a essere molto silenziosa, a non fare il minimo rumore e a mettersi sempre controvento.

Le prime volte aveva paura delle vipere, aveva sentito di come Stefano fosse morto in quel modo, e aveva imparato a evitarle. Aveva anche sentito di come il vecchio Placido fosse morto annegato cadendo nel fiume, e anche a quello aveva imparato a fare attenzione. Ma Placido era ubriaco ed era notte, quando aveva percorso il traballante ponte. Il morso di una vipera, l’annegamento nel fiume e il parto per le donne erano gli unici modi con cui fosse possibile morire a Grossaglie, oltre ovviamente alla malattia e alla vecchiaia. Una volta la bambina aveva ucciso una vipera con un sasso e l’aveva portata in paese facendo strillare le sue compagne di scuola. Anche i maschietti erano rimasti impressionati, ma avevano fatto il possibile per non darlo a vedere.

«Luisella, sei qui con noi?»

Luisella si voltò di scatto. La maestra Alberta la guardava severa, in piedi accanto alla cattedra, e anche tutti gli altri sembrava la guardassero come se fosse un pagliaccio, sia le bambine con i loro grembiuli bianchi che i maschietti che indossavano la camicia nera e i pantaloncini. Dietro alla cattedra c’era la lavagna dove erano scritte le lettere dell’alfabeto. Le prime volte la maestra le era sembrata una vera megera che sicuramente non era sposata perché nessuno l’avrebbe sopportata, ma poi aveva capito che doveva alzare la voce per farsi ascoltare e che la sua crudeltà era tutta una finta. Un giorno la maestra aveva chiesto alla bambina di fermarsi dopo la fine dalla lezione, e si erano sedute nell’aula vuota. La maestra voleva capire perché Luisella da un po’ di tempo sembrava distratta, e aveva insistito finché Luisella aveva spiegato che la sua mamma era ammalata. Poi la bambina si era fatta un pianterello, ma tornando a casa stava meglio. Il giorno dopo la maestra era venuta a trovarla per vedere personalmente come stava la mamma e chiedere se potesse fare qualcosa.

«No, no, signora, sono qui, la ascolto… sto attenta…»

Molte risatine fecero coro alle parole di Luisella, che si domandò quante altre volte la maestra l’avesse chiamata e lei non avesse sentito. Non potendo prendersela con tutti, Luisella tirò fuori una lingua rabbiosa al più vicino, che era Carletto, il figlio del postino, che smise di colpo di ridere. Davvero a volte bastava poco per farsi rispettare.

«Va bene, Luisella, vieni alla lavagna e facci vedere cos’hai capito di quello che abbiamo detto.»

Luisella cercò di prendere tempo, ma non aveva scampo e alla fine si avviò. La maestra la seguiva con lo sguardo e, passandole vicino, si capiva benissimo che si stava sforzando per non ridere. Accanto alla lavagna c’era la grossa stufa, alimentata dalla legna che tutti i genitori avevano portato all’inizio dell’inverno.

«Forse vuoi venire qui ad aiutare la tua compagna, Alfonsino?»

«No, no…» rispose il malcapitato che aveva continuato a ridere un secondo di troppo.

Luisella afferrò il gesso e scrisse alcune addizioni e sottrazioni con una sola cifra, ce la mise tutta e riuscì e non sbagliarne nemmeno una. Poi si volse con un sorriso trionfante verso la maestra.

 «Bravissima, Luisella. Ora vediamo come te la cavi con le tabelline e le moltiplicazioni. Le abbiamo fatte solo la settimana scorsa e certo te le ricordi. Vero che te le ricordi?»

All’inizio dell’anno scolastico gli allievi della scuola erano una quindicina, ma poi erano raddoppiati e il numero continuava a crescere, quasi ogni settimana c’era qualche faccia nuova. Tante famiglie che stavano in città avevano mandato i bambini da parenti e amici in campagna, e alcuni erano arrivati a Grossaglie. Sulle città gli aerei nemici avevano cominciato a fare cadere le bombe, aveva sentito Luisella in casa. Papà e mamma ne parlavano a tavola, ma non sembravano troppo preoccupati, in campagna c’erano meno comodità ma non si rischiava di morire, la guerra era una cosa orribile ma lontana.

La bambina era tornata al suo posto e ascoltava la maestra che parlava dell’America, un paese grandissimo di là dall’oceano Atlantico, l’aveva scoperto un certo Cristoforo che aveva sbagliato strada, perché in realtà voleva andare in India. All’inizio sul quaderno Luisella aveva faticato, ma poi si era impegnata a disegnare le aste più o meno dritte e i cerchi più o meno rotondi, e finalmente le aste erano diventate lettere e le lettere parole. Sul libro aveva visto uomini con lunghe barbe vestiti di pelle di animale che cercavano di difendersi da un bestione che si chiamava dinosauro, e gli antichi Greci e Romani che abitualmente si vestivano solo mettendosi addosso delle specie di lenzuola.

Per fortuna era il suo ultimo anno, poi Luisella sarebbe stata abbastanza grande e non sarebbe più tornata in quell’aula. Guardò e sorrise a Martina e Silvietta, che erano le sue migliori amiche; le tre bambine si aiutavano a vicenda quando erano in difficoltà e si confidavano quanto avevano litigato con quei rompiscatole dei genitori. La famiglia di Martina gestiva l’emporio, dove era possibile trovare qualunque cosa.

Prima di allora Luisella non aveva mai sentito parlare della guerra e anche adesso ne aveva un’idea molto vaga. Silvietta le aveva detto che suo fratello più grande era partito per la guerra, e poi Luisella aveva associato la guerra ai camion verdi carichi di uomini vestiti anch’essi di verde che aveva visto passare sulla statale stando appostata sul poggio che sovrastava la pianura, una distesa a perdita d’occhio di boschetti, orti e vigne, interrotti qua e là da qualche gruppo di case e casette. Sapeva che oltre l’orizzonte da una parte c’era Grosseto e dall’altra il mare.

La maestra scrisse sulla lavagna le operazioni con i numeri che gli allievi avrebbero dovuto fare a casa, Luisella le copiò sul quaderno che poi mise nella cartella, poi tutti i bambini riposero i quaderni, si alzarono e corsero alla porta. Il problema più importante del mondo in quel momento era non arrivare in ritardo in modo che il pranzo non diventasse freddo e la mamma che l’aveva preparato non si arrabbiasse.