La zona d’ombra

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Stefania Napoli

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-268-6 Categoria: Tag:

Descrizione

Ci sono parti di noi che non conosciamo, o forse che preferiamo non vedere. Secondo alcuni, esiste anche un invisibile mondo degli spiriti che interagisce con noi ogni giorno.

Nel caldo luglio 2017 ad Atlanta (Georgia), una serie di inspiegabili suicidi e una medium: un rompicapo che porterà i detective John Riley e Alex Ricci a confrontarsi con le loro convinzioni e paure, a scontrarsi con le loro credenze e con il mondo del paranormale, dove tutto è assolutamente umano. Anzi, non potrebbe essere più umano di così.

INCIPIT

1 – La donna volante 

“Non hai ancora capito come funziona la tua dannata giustizia?! Ha ammazzato i miei amici! Come cani! Tocca a lui morire così!”

– Clic.

Apro gli occhi. Il chiarore dell’aurora si intrufola tra le fessure delle tende oscuranti in lino bianco e accende di rosa porpora le pareti della camera da letto.

Nel mio impressionabile lobo limbico riecheggiano ancora le grida sconvolte di John Riley e le parole che ha pronunciato sul tetto del liceo Douglass dopo l’eccidio dei poliziotti.

Ma il grilletto che ha messo fine alla vita di uno dei cecchini che hanno seminato il panico in città lo scorso marzo, l’ho premuto io.

Mi giro sul fianco, ormai di riaddormentarsi non se ne parla. Allungo una mano verso la cuccia estiva in cui è acciambellato il mio ipercinetico barboncino nano Charlie.

Accarezzo il suo muso lungo, grigio e peloso, e lui si gira pancia all’aria per comunicarmi che non rappresenta una minaccia per me o per un qualsiasi altro essere vivente.

Mi alzo silenziosamente per non svegliare Riley addormentato accanto a me nel letto king size. Mi faccio luce con lo smartphone fino in cucina pedinata da Charlie, accendo il lampadario a tre cilindri che pende sul bancone all’americana e verso la pappa del mio cane nella sua ciotola.

Riscaldo il caffè avanzato da ieri nel bricco della caffettiera elettrica e lo sorseggio seduta su uno dei due sgabelli in eco-pelle nera e acciaio.

Da quando poco meno di tre mesi fa mi sono trasferita nel suo virile appartamento a schiera all’829 di Stone Ridge Lane, John Riley sostiene di non riconoscere più casa sua. Secondo lui ho generato il caos, secondo me invece l’abitazione è più viva e accogliente.

La lampada da ufficio con braccio snodabile posata sul tavolino Ikea Lack del soggiorno, per esempio, era oscena.

Con la scusa che sparava luce negli occhi, l’ho sostituita con una lampada di sale rosa himalayano a effetto ionizzante che purifica l’aria, dona una piacevole sensazione di benessere e favorisce la concentrazione. Così mi ha detto il commesso che me l’ha venduta.

Ho approfittato di una delle numerose serate in cui Riley si è fermato al Dipartimento fino a tardi per liberarmi di uno dei suoi incomprensibili quadri, una zebra con testa di gallo che fissa incuriosita un toast al formaggio. L’ho relegato in soffitta assieme alla lampada snodabile.

Al suo posto adesso, appeso alla parete color oliva, c’è un dipinto raffigurante una ballerina in tutù bianco che ho portato con me da Gilroy.

Quando è rientrato quella sera, il poliziotto ha visto il nuovo quadro, ha riaperto il portoncino blindato e ha dichiarato perentorio: «Tu, la ballerina e il cane psicopatico, fuori».

Ma l’ho convinto a tenerci tutti e tre, e ho scoperto che è piuttosto sensibile alle mie tecniche di persuasione che, giuro, uso solo con lui.

Purtroppo non ho riscosso lo stesso successo con il mostruoso lampadario monoluce a cinque pale e con il tetro divano in pelle nera abbinato alle due poltroncine quadrate posizionate sotto la finestra panoramica, ancora tutti al loro posto.

Convivendoci ho scoperto altre svariate cose su John Riley. Ama girovagare nudo per casa, si fa docce di continuo, ed è più metodico e ordinato di quanto sospettassi.

È un accumulatore seriale di gadget di televendite, dorme saltuariamente e se si sveglia di cattivo umore conviene girargli alla larghissima.

Sull’ultimo ripiano del suo armadio a muro conserva praticamente un arsenale da guerra. Ha una passione spasmodica per le cipolle e i carboidrati, e insiste per cucinare sempre lui.

Risultato: i quattro chili che il poliziotto dichiara di dover perdere da quasi due anni, li ho messi su tutti io in poche settimane.

Su suggerimento del Tenente Nicholas Chapman, brillante e compassionevole psichiatra forense a capo dell’Unità di Salute Mentale del Dipartimento di polizia di Atlanta, ho intrapreso un percorso di psicoterapia per superare il trauma collegato alla sparatoria al liceo e alla morte del detective Gregory Moore, nostro compianto collega e amico.

Il Dottor Philip F. Wyman, specializzato nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico nelle forze dell’ordine, ha minimizzato le mie attuali difficoltà nel rapportarmi alle armi da fuoco, con cui oltretutto non ho mai avuto un rapporto idilliaco. Sostiene che mi ci vorranno mesi per metabolizzare l’omicidio del Cecchino.

Perché di questo si è trattato, un omicidio, la soppressione di una vita umana a opera di un altro essere umano, io.

Dopo sei settimane in cui ha parlato praticamente solo lui, il Dottor Wyman ha interrotto le sedute dichiarando che la terapia si era conclusa con successo.

A me non sembra che abbia funzionato così bene, considerato che gli incubi si ripresentano puntualmente ogni notte, e che per rilassarmi la sera e riuscire a dormire qualche ora ho iniziato a bere due bicchieri di vino. O forse tre o quattro.

Ma ho deciso di fidarmi del detto, ‘il tempo guarisce tutte le ferite’, quindi attendo fiduciosa.

Chi si è ristabilito completamente invece è Peter Harris, il nostro collega rimasto ferito alla testa quel terribile mattino al liceo Douglass.

Il detective è tornato a lavorare a tempo pieno da un paio di settimane e per ora è impiegato in mansioni d’ufficio. Gli unici agenti operativi in forze al Major Crimes Section quindi, siamo l’animosa Jodie Baker e io.

Per questo il Capitano Adam F. Turner, vice capo della polizia e responsabile del Criminal Investigation Division in cui rientra la nostra sezione, ci ha imposto un nuovo elemento proveniente dall’Unità Antigang, il Sergente Eric Carlos King, in impossibile sostituzione di Greg Moore.

La Baker e Harris l’hanno accettato di buon grado, Riley invece lo detesta. Lo ha accolto al suo primo briefing dispensandogli un consiglio spassionato: «Già mi stai sulle palle, King, vedi almeno di non frantumarmele».

Appena il poliziotto si è voltato di spalle, il Sergente King ha atteggiato a una smorfia sprezzante le labbra polpose e scure, contornate da baffetti sottili e dalla barba all’olandese, e la faccenda è morta lì.

A proposito di morti, questo è un periodo tranquillo per l’MCS[1]. Sembra che gli assassini più spietati e i serial killer, a cui la nostra Unità dà la caccia, si siano calmati dopo il caso del ‘Cecchino’, quindi siamo tutti in prestito ad altre Divisioni e ci limitiamo a rispondere a chiamate di routine.

È in seguito a una di queste che alle 11.25 di un assolato e afoso mercoledì mattina di inizio luglio, Jodie Baker e io ci troviamo da Planet Blue, prestigiosa boutique di abbigliamento a Buckhead, epicentro dell’alta moda qui ad Atlanta, vicino a Hermès, Les Copains e Jimmy Choo.

La manager del negozio ha allertato il 911 a causa di una lite scoppiata tra due clienti riguardo a un capo scontato. Ci indica le donne sorvegliate dalla grossa guardia della Security del negozio. Sono entrambe sui quarant’anni, una bionda, l’altra castana e si comportano come ragazzine isteriche.

La bionda è magra, a un passo dall’anoressia, e si è conquistata l’abitino in mikado blu dotato di una gigantesca rosa applicata sulla zona inguinale che mortificherebbe perfino Heidi Klum.

Lo stringe tra le dita scheletriche e lo mostra alla Baker: «L’ho visto prima io e quella stronza me l’ha strappato di mano! Non può nemmeno indossarlo, vacca com’è!»

La contendente in effetti è parecchio più in carne, ma altrettanto combattiva. Provoca una pericolosa oscillazione del lampadario di cristallo appeso sopra le nostre teste quando spalanca le labbra laccate di rosso e turgide per il botox, e bercia: «Non ti permettere di parlarmi così, baldracca! L’ho preso solo dopo che tu l’hai mollato sull’appendiabiti!»

Intervengo nella ridicola disputa: «Scusate, signore, vi sembra il caso di fare tutto questo baccano per un vestitino?»

La bionda dirige su di me gli occhi marroni e puntualizza: «È un abito da cocktail di Teri Jon, costa 480 dollari. Oggi è in saldo a 329 dollari e 29 centesimi. Cosa diavolo volete da noi?! Il vostro lavoro è arrestare i criminali veri, non prendervela con gli onesti cittadini!»

Jodie Baker risponde alla rimostranza estraendo le manette dal cinturone tattico che sottolinea la vita sottile e il sedere a pera: «Fate silenzio e mettete le mani dietro la schiena, signore».

Le rivali cambiano atteggiamento, ci implorano di chiudere un occhio per questa volta e giurano di aver capito di essersi comportate in maniera inopportuna.

La detective però è irremovibile. Perquisisce le due donne di fronte al resto della clientela, ammanetta la bionda e mi obbliga a fare lo stesso con la castana.

Dopo aver estorto le loro generalità, le scortiamo alla Corvette C5 nera di Jodie Baker, parcheggiata incurantemente sulle strisce pedonali dall’altro lato della Buckhead Avenue.

Le ree si stipano piagnucolando nel sedile posteriore dell’auto sportiva e io cerco di convincere la mia collega a desistere: «Le arrestiamo davvero per una sciocchezza del genere?»

«Secondo te siamo venute qui per fargli ‘tottò’ sulle manine? Le incriminiamo, le schediamo e le rimandiamo nelle loro maledette villone.»

[1]Major Crimes Section.

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