Descrizione
Calvino ha scritto che nei Promessi Sposi sono contenuti tanti altri romanzi possibili. È la sfida di scrivere una di queste possibili varianti che ha accettato Nino Raffa, costruendo una storia moderna e inquietante, malgrado l’ambientazione secentesca.
La storia dei Promessi Sposi sarebbe stata diversa, se diverso fosse stato don Abbondio? Se invece di essere il prete pavido e ignorante tratteggiato da Manzoni, don Abbondio fosse (forse) il figlio naturale di Giordano Bruno e l’amante di una conturbante Perpetua? E se il cardinal Federigo Borromeo avesse come preoccupazione principale quella di essere dichiarato santo, per non essere da meno del cugino Carlo, pur avendo una ben diversa statura morale?
In un mondo ove la “ragion di Stato” viene facilmente piegata a interessi di parte (e cosa c’è di diverso rispetto all’oggi?), dove si manipolano le persone e le informazioni (oggi si adottano roghi e torture con tenaglie virtuali, ma non è cambiato molto da 400 anni a questa parte), che ne è di Dio?
Il gatto Merlino, da vero saggio, sta a guardare il teatrino quotidiano degli umani.
INCIPIT
- L’icona del Battista
[mar. 7 nov. 1628]
… nunc et in hora mortis nostrae. Amen.
Viene la nostra morte e così sia. E poi arriva la resurrezione. Diciamo.
Il secondo martedì di novembre dell’anno di grazia 1628, un uomo tornava dal cimitero lungo una stradina di campagna, in litigiosa compagnia dei suoi pensieri.
Non può esserci resurrezione senza morte. Ma non vale il contrario. La morte immagina ma non realizza, né garantisce, la resurrezione.
Serve la fede. Diciamo.
Don Abbondio trasse un respiro profondo. L’aria fresca e lo specchio metallico del lago incassato ai piedi delle montagne non gli restituivano l’atteso sollievo. Anche quel pomeriggio, strette nel mantello nero, la personale indole ultraterrena e la terrenissima forma di uomo di chiesa faticavano a camminare insieme.
Cercò in lontananza il campanile. Sui pendii circostanti figurine chiare di contadini convergevano lente verso il paese. In coppia oppure soli, la vanga in spalla, conducendo un mulo, una capra o un cavallo, la sua gente tornava al focolare. E il cadere del giorno sapeva d’una brutta pace: di quella calma temibile e premonitrice che già intravede la disgrazia.
Ogni tempo declina il suo male secondo una certa moda. In quell’inizio secolo – tra un trionfo e una disfatta se n’era già consumato quasi un terzo – nel mondo, cioè in Europa, erano in voga le guerre tra cattolici e protestanti per l’esclusiva dell’unico vero Dio. Ma più complicati erano i costumi dei sovrani, e così, dalle parti di Casale, Sua Maestà Cattolica di Spagna sfidava la non meno cattolica Maestà di Francia e il suo cattolicissimo primo ministro cardinale Richelieu; stava tra loro il duca di Savoia, altro devotissimo figlio di Santa Romana Chiesa; e soprattutto c’era di mezzo il papa stesso: parte, paciere e istigatore, uno e trino come Colui che diceva di rappresentare in terra.
E del resto in Germania gl’imperiali combattevano sì gli eretici boemi, ma questi erano alleati dei turchi – in teoria nemici mortali d’ogni cristiano – sodali, a quanto pareva, d’un altro cristianissimo principe di Transilvania.
Vanità delle vanità… nulla di nuovo sotto il sole. Nei tempi passati, i crociati di Terra Santa non s’erano scannati tra loro a vantaggio del sultano? – concluse Abbondio – intravedendo per paradosso nello scomporsi di fedi e alleanze la felice possibilità d’un Dio pacifico e disarmato. Padre incompreso e travisato, e proprio per questo unico genitore di tutti i suoi figli scellerati.
Conosceva così bene la stradina srotolata tra i vigneti che quasi non guardava per scansare buche e inciampi. Il breviario distratto tra le mani, passava da un pensiero all’altro mentre il grigio dei monti cominciava a sciogliersi nell’imbrunire.
Se fino ad allora il lontano insanguinarsi di eserciti e popoli oltre le Alpi gli aveva ispirato metafisiche considerazioni, adesso le cannonate nel vicino Monferrato lo investivano di più concreta responsabilità per le anime che gli erano state affidate.
A primavera, in autunno al massimo, ci piomberanno addosso dai valichi le truppe imperiali: feroci, affamate, malpagate, autorizzate al saccheggio in cambio del soldo incerto. Si deve pensare a riparare la gente, nascondere cibo e cose di valore; e bisogna lasciare un minimo di bottino, altrimenti quelli per vendetta sono capaci di distruggere pure le pietre. Comunque case distrutte e paesi in fiamme non si potranno evitare: bisogna già metterli in conto e inventarsi qualche rifugio per l’inverno…
Il viottolo scendeva adesso tra due muretti di pietra, biforcandosi poco più avanti. Dall’alto vide due ceffi appostati al bivio. Lunghe zazzere ricciute, cappelloni piumati, abbigliamento sgargiante anche per quei tempi vistosissimi, i bravi di Rodrigo avevano poggiato al muretto gli attrezzi del mestiere. Lunghi e sottili, simili da lontano a falci o vanghe, più probabile fossero moschetti. Posizione comunque confortante: si sarebbe minacciato e non sparato. O almeno non si sarebbe sparato subito.
Il bivio era segnato da un tabernacolo mezzo diroccato nel quale s’indovinava ancora un Giovanni Battista disteso per terra, col collo rassegnato al carnefice. Risalente ai tempi antichi, testimoniava l’universale devozione verso il cugino e precursore di Nostro Signore, e insieme ammoniva – Abbondio sorrise – a non immischiarsi in questioni matrimoniali contro le illecite voglie di un potente.
La messa in scena era nel suo temperamento. Gli occhi sul breviario, rallentò il passo recitando i vespri a mezza voce, più alta e scandita del solito. Non che confidasse in quei mezzucci, oppure attendesse aiuto da Qualcuno. La calma gli veniva più dall’orgoglio che dal coraggio; e non l’orgoglio dell’uomo Abbondio o l’altro dell’abito, ma quello, praticamente fatto di niente, della filosofia in cui s’era concentrato il poco di sé che gli rimaneva. Il mondo accade ottuso, desolato e incolpevole. Nella maggior parte dei casi non possiamo farci niente: le parti sono già scritte e al massimo un buon attore può permettersi qualche breve improvvisazione.
«Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum et in via peccatorum non stetit et in conventu derisorum non sedit…»
Era ormai a pochi passi quando quello che stava seduto sul muretto balzò giù a sbarrare il passo. Di stazza ragguardevole, pagò l’acrobazia con una smorfia affaticata.
«Signor curato, ha un attimo per noi?» disse Griso portando d’istinto le mani al cinturone di cuoio.
Breviario contro moschetto, latino contro pistole, Abbondio non era l’unico a recitare.
«Certo, figliolo» rispose simulando un minimo stupore.
«Corre voce che domani volete celebrare un matrimonio…» andò subito al sodo il bravo.
«E ti sembra strano, figliolo? In fondo è il mio mestiere, un po’ come per te aspettare chi passa…»
«… e magari ficcargli una palla in corpo…» continuò l’altro in tono leggero, discordante col brutto cipiglio.
«Sì, può capitare. Fa parte delle nostre vocazioni: tu di sparare e io magari di fare il bersaglio» replicò il prete affatto intimidito.
«Scherzavo, signor curato! Non lo dica… che ci ha preso per delinquenti? Per quei bravi di cui tutti parlano ma che nessuno ha mai visto dalle nostre parti?»
«No di certo! Lo sanno tutti che i bravi non esistono più, debellati dai nostri valenti governanti e dalle loro leggi» ironizzò Abbondio, alludendo agli editti sempre più feroci che vietavano di assoldare furfanti e mai ce n’erano stati tanti e impuniti in circolazione.
«Parole sante, signor curato!»
Misto d’innocente abitudine e calcolata intimidazione, estrasse un coltellaccio dalla tasca dei calzoni cominciando a giocarci. «E per tornare ai nostri affari, c’è un certo matrimonio che domani non dovete fare.»
«E perché non dovrei?»
«Non dovete e basta. Con le buone o le cattive, a vostra scelta.»
«Se non io, lo celebrerà un altro. Pensate di minacciare tutti i preti dello Stato di Milano?»
Abbondio cercava di smontare la minaccia allargando il caso; ma l’altro era ben istruito.
«Non provate a lavarvene le mani come Pilato. Non dovete neppure concedere il permesso a sposarsi da un’altra parte. Il matrimonio di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella non si deve fare né nella vostra chiesa, né al convento, né in capo al mondo. Ditelo pure a frate Cristoforo di non mettersi di mezzo; se prova a sposarli al posto vostro può già scavarsi la fossa! È chiaro?!»
Griso s’era fatto sinceramente minaccioso.
Il curato tenne fermo lo sguardo. Di quei gentiluomini sapeva parecchio per l’ormai lungo ufficio da quelle parti, non di rado trascorso a benedire morti ammazzati. L’altro – soprannominato Tiradritto – finora zitto a spalleggiare il compare, addirittura lo aveva battezzato. Circostanza ininfluente: se Rodrigo glielo avesse ordinato, quel bel tipo lo avrebbe sbudellato e scaricato in un fosso senza pensarci.
Ma Abbondio era sempre più convinto che quella scena di cappelloni e piume, spade, pistole e pugnali, al momento servisse solo a spaventarlo.
«E quindi don Rodrigo ha bisogno del mio permesso per prendersi Lucia? E tu Griso per portargliela?»
«Cosa intendete?»
«Quello che ho detto.»
«Non è affar vostro, obbedite e basta.»
«Non sarebbe affar mio il matrimonio?»
L’altro emise una specie di grugnito che Abbondio finse di prendere per congedo.
«Salutami il padrone.»
Scartò di un passo, ma Tiradritto si parò davanti. Tanto vicino da sentirne il puzzo di vino.
«Signor curato, non avete capito.»
«Ho capito benissimo, messer Tiradritto. Sei tu che non ricordi. Eppure aiutavo tua madre Consolata quando giù nella vecchia stalla non c’era da mangiare per te e i tuoi fratelli. Mi pentirò di non averti fatto morire di fame? Dovresti pure ricordare che solo grazie a me lei riposa in terra consacrata…»
Era solo una parte – la più confessabile – di certi vecchi fatti. Molto tempo prima, appena arrivato nel borgo, Abbondio aveva aiutato Consolata e lei s’era sdebitata nell’unico modo possibile. Lui non aveva chiesto, ma volentieri aveva accettato. Anche per questo, quando poteva, allungava le passeggiate fino alla collina.
Il curato indicò la facciata punteggiata di tombe sulla sinistra, e gli altri due si girarono come costretti ad accompagnare il suo sguardo in lontananza.
Tiradritto aveva fatto mezzo passo indietro. Abbondio osservò gli occhi marroni, il colorito bruno, i lineamenti marcati, che nonostante la barba mal rasata e i baffoni incolti, conservavano qualcosa d’infantile. Senza volerlo, stava cercando una traccia. Uno specchio. Scacciò il pensiero.
«Cosa devo riferire al padrone?» chiese Griso.
«Faccia quello che gli pare e così farò io.»
Il bravo fece segno all’altro di lasciarlo passare.
Abbondio si era allontanato di qualche passo quando Griso lo richiamò.
«Una parola ancora…»
«Sentiamo» rispose senza voltarsi.
«Su questa storia la penso come voi. Se comandavo io, tutto era stato già fatto senza chiedere a nessuno. Lucia è una bella pollastrella, e magari a quest’ora don Rodrigo s’era già stancato e l’avremmo assaggiata anche noi. Ma il padrone è lui e si fa come vuole.
«Una buona serata, signor curato. Dormite bene, ma state attento: un errore su questo matrimonio vi costerà molto caro!»
Abbondio riprese la strada riaprendo meccanicamente il breviario.
Rodrigo è un idiota, concluse senza appello superando le prime case del paese. S’incapriccia di un’operaia e viene a dirlo a me, il curato, facendo pure attenzione a procurarsi due testimoni. Potrebbe prendersela a piacimento, forse anche con le buone e qualche regalino, oppure con le cattive, e nessuno ne chiederebbe conto. Idiota senz’altro. Invece di passarsi il capriccio viene a chiedermi una specie di sacramento al contrario: il matrimonio non si deve fare. Se anche i farabutti come lui hanno cominciato a credere ai sacramenti, che per violarli hanno bisogno del permesso dei preti, fanno bene i protestanti che i sacramenti li vogliono cancellare. Comunque il problema adesso è mettere al sicuro Lucia. Fino a domani Rodrigo e i suoi sgherri non faranno niente, ma dopo bisognerà inventare qualcosa. E lo dovrà sapere meno gente possibile, perché, comunque vada, la colpa sarà sempre di Lucia.
Accompagnato da quest’ultimo pensiero passò dall’osteria a comprare il vino per i suoi vecchi.
In quell’autunno ne ospitava già mezza dozzina in una casa sulla piazzetta del piccolo borgo. L’ospizio di don Abbondio era famoso in quelle valli per avere sempre un letto, una minestra e un bicchiere di vino per chiunque; senza obblighi e orari, a differenza del vicino convento francescano con le sue regole severe.
Quando il curato entrò, i vecchi stavano consumando la zuppa cucinata da Perpetua su un tavolaccio accanto al camino. Lei era già andata via.
Un fuoco vivace riscaldava l’ambiente. Si sentì rinfrancato dal tepore e dalle feste che gli fecero; nonostante l’ora tarda si tolse il mantello, fermandosi a bere e ascoltare qualcuna delle loro incredibili storie.
Col suo dialetto che suonava quasi arabo, il vecchio Nino raccontava del saccheggio di Reggio Calabria da parte di Barbarossa e delle sue nozze con la figlia del governatore della città – la bellissima Flavia, cinquant’anni più giovane – di cui il vecchio pirata s’era perdutamente innamorato.
Abbondio provava particolare simpatia per quel vagabondo siciliano che fantasticava di essere stato minatore a Potosì e incantatore di serpenti a Goa; e giurava di aver navigato con Cristoforo Colombo, onore per il quale gli sarebbero serviti centocinquant’anni. Eroe d’infinite storie raccattate e cucite insieme in una vita di strada, Nino ogni primavera prometteva di tornare alle rive della sua Messina, ma ogni autunno era il primo a presentarsi in quel rifugio ai piedi delle Alpi.