La Tosca

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Giorgio Bosello

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-000-9 Categoria: Tag:

Descrizione

La storia di Tosca è forse la più popolare delle trame operistiche. Grazie a Puccini naturalmente, ma anche ai due librettisti Illica e Giacosa che hanno saputo estrarre dal dramma di Sardou, il vero inventore di Tosca, il succo più teatralmente avvincente. Dai cinque atti del lavoro in prosa si passa ai tre del melodramma, dai ventitré personaggi di Sardou agli otto di Puccini.

La storia è secca e logica nella sua essenzialità sia nel dramma francese sia, ancor più ovviamente, nella riduzione in musica.

Quante domande quindi, che travalicano il testo, il pubblico più vario potrebbe essersi posto? Domande a cui nessuno ha mai dato risposta.

Da dove viene la celebre cantante, da dove il pittore, e così il barone Scampia e gli altri comprimari? Quali le loro storie? Cosa hanno fatto prima di giungere al fatidico giorno del tragico evento? E dopo cosa è successo? Chi è quell’evaso Angelotti e come ha fatto a sfuggire da Castel Sant’Angelo? E la regina, nominata nel secondo atto? E quella marchesa Attavanti, raffigurata nel quadro?

Cosa sappiamo veramente di tutte quelle figure, al di là degli stringatissimi fatti narrati a teatro? Nulla!

Ma ecco che tante risposte, narrazioni, curiosità, le troviamo appunto in questo cosiddetto resoconto, stretto fedelmente nei vincoli imposti dal dramma, minuzioso nell’ambientazione, ligio alla Storia, scrupoloso nella narrazione di fantasia debordante dall’originario testo sardouniano.

Leggere questo libro significa aprirsi un orizzonte più vasto su tutta la storia di Tosca, conoscerne cioè di più, sia dal punto di vista storico, sia da quello dell’invenzione drammatica. È soprattutto un racconto corale, con tanti personaggi, storici e d’invenzione, che ruotano attorno ai noti tragici fatti.

Ma, al di là di questa visione, è Roma la vera protagonista di questo lavoro. È l’affresco sulla Città Eterna di quel tempo che ci appassiona: le abbondanti citazioni di cose e di toponimi romani, le pennellate sulla vita del popolo e dei notabili con scene e controscene in efficace discorso diretto sia in lingua che in parlata romanesca. E non mancano le pasquinate.

Un romanzo insomma coerente nei fatti, realistico nella mentalità dei personaggi, pregnante di contenuti socio storici a livello divulgativo ed estremamente accattivante e scorrevole nella lettura, ulteriormente approfondita dalle note.

Questa è davvero la storia completa di Tosca.

NOTA: l’e-book ha un apparato di note, commenti e illustrazioni molto ridotto rispetto al cartaceo, che può essere acquistato sul sito www.danaelibri.it e che consigliamo senz’altro agli appassionati.

INCIPIT

1  –  FILÉ

– io già raccolsi
oro e gioielli…
una vettura è pronta.

Puccini, Tosca, atto III

Il vetturino Francesco, detto Filé, aspettava da troppo tempo sotto il muraglione di Castel Sant’Angelo, al solo lume d’ordinanza, che ora poteva pure spegnere per il sopraggiungere delle prime luci dell’alba; aspettava in quella strana notte non del tutto chiara a causa di una luna vagante tra cirri madreperlacei. Del resto la signora l’aveva avvertito che non sapeva quando esattamente sarebbe tornata e gli aveva detto pure di non aver fretta.

Ma era alquanto strana. Lei sì che pareva aver fretta. Sembrava eccitata, non era tanto gentile e garbata come egli l’aveva conosciuta altre volte. Certo, che fosse una cantante rinomata lo sapeva bene. Suo fratello Baldino, che lavorava in qualità di macchinista al teatro di Torre Argentina, l’aveva ammirata di frequente sulla scena. Quando gliene parlava, che litania di elogi! Pareva proprio innamorato. Ma certo, sulla bravura, bellezza e cordialità di tale artista proprio niente da dire! Donna di grande stile e personalità!

E così ora Filé aspettava il ritorno della signora Floria Tosca, congetturando tra sé e sé.

*

Era venuta a svegliarlo a casa sua, all’Arco degli Acetari, dicendogli di preparare la carrozza per un suo viaggio improvviso. Così, in piena notte, ma son cose da fare? E sua moglie non aveva forse ragione a voler delle spiegazioni? Ma che poteva dire lui alla sua Bice? Sapeva solo che la signora sarebbe tornata dopo pochi minuti per partire. Per dove? La destinazione la sapeva solo lei, se la sapeva. Le promesse sul compenso erano allettanti e perché quindi non accettare?

“Quello che vorrà,” gli aveva promesso.

Mentre Francesco, il Filé, attaccava il cavallo Panzetto, stralunato per il brusco risveglio, e predisponeva la solita attrezzatura per un viaggio fuori città (un po’ di fieno e un po’ di acqua non devono mai mancare), la signora avrebbe spiccato ancora un salto a casa per motivi suoi. Lui sapeva che la Tosca abitava a pochi passi, in un appartamento di Palazzo Montoro e quindi si stava sbrigando al massimo, per essere pronto al suo ritorno.

E la cantante arrivò, infatti, assai presto. Portava con sé un piccolo bagaglio, molto elegante, di modello francese. Non era più vestita con quell’abitone da sera che portava pochi minuti prima. Si era evidentemente cambiata: ora portava un vestitino da viaggio leggero, forse di seta, a colori vivaci. Col caldo di giugno, notava Filé, a percorrere l’assolata campagna romana, almeno così presumeva di dover fare, si capisce, era il minimo che ci si potesse aspettare. Ma, oltre a quella borsa, sull’altro braccio portava anche degli indumenti sciolti, forse quello stesso abito e scialletto di prima. Tanta fretta da non poter allestire un piccolo baule?

Francesco, il Filé, l’aveva poi vista ritornare a passo svelto, infilarsi direttamente in carrozza, trovata pronta in via del Pellegrino, buttare di getto i suoi impicci sul sedile, e sentenziare:

“A Castello.”

Filé, alquanto timoroso per quella inattesa destinazione, per di più in quell’ora notturna che rendeva il forte ancor più sinistro, dopo una smorfia di raccapriccio, fece partire il placido Panzetto col suo verso abituale. Con tale secca, perentoria destinazione, Filé non osò più mettere in chiaro se poi si sarebbe dovuto uscire da Roma e, in tal caso, se la signora avesse le necessarie autorizzazioni per farsi aprire una porta d’uscita.

Staremo a vede,”  pensava il vetturino.

*

Ed ora era lì il nostro Filé ad aspettare, paziente come sempre, mentre già il chiarore crepuscolare, gradualmente più intenso, annunciava l’improcrastinabile, prorompente bisogno dell’astro solare di venire allo scoperto. Filé non era fermo proprio davanti al portone dell’enorme mausoleo adrianeo. Mentre attraversavano ponte Sant’Angelo, la signora l’aveva istruito a voltare a sinistra e a fermarsi in quel fazzoletto di prato presso il fossato, sotto il torrione di San Matteo, in modo, dice lei, da non dare fastidio. Il tempo passava. Il cavallo forse dormiva in piedi ed anche il padrone non è che fosse nel pieno delle sue risorse fisiche.

Ad un tratto Filé sentì in lontananza una voce di ragazzo intonare uno stornello romanesco e pensò subito ad un pastorello girovagante col suo gregge nei prati circostanti (i).

Anvedi come s’è svejato de bon’ora el pecoraro de Castello! Senti, senti el maschiettolo. Manda li sospiri, beato lui! E come se l’è imparata bene. Hai capito? Lui canta gajardo e quelle màgneno de brutto,” fu la sua riflessione.

Ma a riportare i suoi sensi sopiti ad un risveglio decisivo ci pensarono le campane dell’angelus (ii).

L’attacco spetta alla campana di San Salvatore in Lauro con un rintocco lento e grave, cui s’aggiunge poco dopo quella della Traspontina, con una nota più acuta e di metà valore, alternata ad equivalenti pause. Ma poi tante altre fanno sentire i loro squilli. È come una gara a chi loda meglio il Signore, una gioia che salta da campanile a campanile, e dovrebbe rimbalzare anche nei cuori della gente, della buona gente desiderosa di pace in questa terra, per intanto, e poi, col tempo, senza fretta, nell’aldilà. Campane accolte con meno sentimento solo da certi signori pigroni e sfaccendati, che a quell’ora amano ancora il letto.

S’infervora il crescendo di rintocchi ormai sovrapposti, indistinguibili: Sant’Agnese in Agone, Sant’Agostino, Santi Celso e Giuliano, Sant’Andrea della Valle, la Vallicella, il Gesù, San Giovanni dei Fiorentini, Santa Maria in Aquiro, Sant’Onofrio sul Gianicolo! A questo mattutino concerto si aggiunge, col ritardo tollerato ai grandi, il campanone di San Pietro, grave, poderoso, solenne, qualità conquistate sul campo in pochi anni. Infine le campane di altre centinaia di chiese più lontane, da quelle di Monti a quelle di Trevi, di Ripa e di Trastevere, amalgamate organisticamente, si accavallano per rinforzare il suono mattutino di quel risveglio nel nome dell’Angelo dell’Annunciazione.

Francesco provò il solito attimo di commozione, mentre continuava ad aspettare. Il suo animo semplice e religioso prevaleva in quei momenti sulla saldezza del suo carattere, realistico e disincantato, popolare e irriverente per celia.

Improvvisamente sentì uno sparo, o meglio un grappolo di spari dalla sommità del Castello. Pensò subito a qualche evasione di prigionieri, oppure ad un’esecuzione, caso questo assai più frequente del primo. Ben lontano però dal collegare il fatto con Floria Tosca, che aveva visto entrare veloce in fortezza. Non passò che un minuto da quegli spari ed ecco sentire un gran vociare in alto. Filé guardò verso l’Angelo e vide una forma umana cadere nel vuoto dalla parte del cortile d’onore. Un tonfo. Altre grida concitate, gente affacciatasi al parapetto più alto, guardie armi in pugno.

Ma cosa è dunque successo? Hanno sparato ad un fuggitivo? Ma come mai dal terrazzo alto della fortezza? Le prigioni sono più a basso e chi fugge scende, non sale. I colpi sentiti l’hanno soltanto ferito e lui disperato si è buttato nel vuoto? O l’ha buttato qualcuno?

Ma all’improvviso Filé rivide in un flash l’attimo di quella caduta e le cose nella sua mente incominciarono a cambiare, i contorni a ridefinirsi meglio. Era un uomo il caduto? La cosa sembrava tanto scontata che era stata da lui introiettata istintivamente. Ma non aveva visto forse uno sventolio di abiti femminili in quel brusco, indistinto precipitare? Un uomo travestito o una vera donna?

Filé incominciò veramente a sentirsi a disagio. La faccenda si stava facendo confusa, inspiegabile, misteriosa.

Ma  ‘‘sta Tosca quanno torna? — pensava allarmato  —Che je sarà successo?

Il povero vetturino non sapeva più cosa fare. Andare a domandare al posto di guardia non se la sentiva proprio. Strani timori lo opprimevano. Se ne udivano tante di storie di poveracci maltrattati. Meglio non rischiare. Pensò piuttosto di spostare la sua vettura verso i Borghi e di metterla in un cantuccio ancor più celato.

Ora, mentre si allontanava si accorse di un inusitato movimento al portone, guardie a cavallo in uscita a trotto sostenuto, sia in direzione Ponte, sia in direzione Borghi. Alcuni cavalieri gli passarono abbastanza vicino, ma non lo notarono, o non avevano tempo o voglia di fermarsi per interrogarlo sul motivo di quella sosta.

Che fare ora?  Era passato altro tempo. Il sole si era alzato, anche se Filé non lo poteva vedere, essendo all’ombra del Castello. A quel punto ne aveva proprio abbastanza. Non poteva più aspettare. I suoi timori crescevano. Una strana agitazione gli stava dando anche fastidio alle interiora. Ma dove è finita quella benedetta Tosca? Perché non torna? Una così bella signora!

Un baleno nella sua mente. Un sospetto, un’intuizione, una premonizione, non sapeva, ma ricacciava atterrito l’idea. No, non riusciva a pensare che la persona caduta fosse proprio lei. Era per lui una cosa assurda. E questo pensiero di un istante fu subito da lui temporaneamente fugato.

Infine si decise. Sarebbe tornato a casa, lentamente, cercando di scansare strade, dove avrebbe potuto incontrare qualche amico o collega. Non si sa mai. È meglio evitare le chiacchiere. Meglio sentirle che farle le chiacchiere. E non sarebbe tornato difilato a casa. Anche con la moglie, meglio stare attenti. Avrebbe così fatto un giro vizioso, in posti deserti, tanto per far passare un po’ di tempo e poi sarebbe andato a Campo de’ Fiori (iii) nel suo abituale posteggio. Il lasso di tempo, oltre che a tranquillizzarsi, sarebbe servito per far giungere le notizie tra la gente, se di notizie di una certa importanza si fosse trattato. E quindi Filé avrebbe saputo finalmente dal popolo della piazza cosa era successo a Castel Sant’Angelo all’alba.

Stava per mettersi in cammino quando si sovvenne del bagaglio: la borsa, gli abiti, che fare? Portarli a casa sua all’Arco degli Acetari? Non avrebbe avuto questo gesto un sapore di furto? Portarli a casa della signora? Ma la signora in casa non ci poteva essere. Lasciarli in vettura? Ma se avesse dovuto caricare qualche cliente? La borsa non osò neppure toccarla, almeno per il momento. Non sarebbe stato degno di lui.

Intanto aveva mosso cautamente il fedele Panzetto e, quanto mai guardingo e timoroso, sentendosi alla pari di un disertore, osò uscire da Porta Castello, aperta da poco. Iniziò a percorrere un viottolo di Prati di Castello verso Nord, costeggiando la vigna Cristofori. La stradina era ben ombreggiata e, mentre Panzetto se n’andava al passo, molto lento e felicemente sorpreso ed incuriosito per quell’inattesa passeggiata pei campi, Filé continuava a pensare come sistemare quel dannato bagaglio.

Ma su ogni preoccupazione dominava un pensiero fisso, angoscioso. Era la sua mente che tornava incessantemente all’enigma della scomparsa della signora Tosca. Si dispiaceva di non aver obbedito all’invito di aspettarla. Ma che altro poteva fare? Quanto altro tempo sarebbe dovuto rimanere sotto il torrione di San Matteo, ai piedi di quel sinistro Castello, dopo quegli allarmanti spari e quelle confuse grida? Cosa le sarà mai successo? Era una donna stimata e benvoluta. Chi avrebbe potuto farle del male? E non aveva ella mai avuto niente a che fare con birri e bargelli. Perché era andata a Castello? Era donna di teatro, ma anche religiosa e i preti che contano l’apprezzavano molto.

Durante l’occupazione francese, e quella dannata repubblica, gli pareva di ricordare che la cantante fosse andata a Napoli, certo per impegni professionali, ma appunto perché godeva della simpatia di quei reali, Ferdinando e Carolina, prima che questi fossero costretti a scappare per l’arrivo dei Francesi. Poi era tornata, ancora in tempo di giacobini, a motivo dei suoi contratti, ma stava sulle sue, non s’interessava di politica e si comportava con tutti con la sua imparziale signorilità e cordiale distacco. La sua arte era per tutti, aveva detto, perché al di sopra delle parti. Nessuno aveva osato darle fastidio.


(i) Il canto del pastorello, all’inizio del 3° atto di Tosca, di cui i vari libretti dell’opera non citano né il testo né l’autore, sono frutto di Giggi (Luigi) Zanazzo (1860-1911), poeta romanesco e commediografo, fondatore del Rugantino e direttore della biblioteca del ministero della Istruzione Pubblica. Zanazzo venne contattato dal pretino, amico di Puccini, don Pietro Panichelli. Questi era venuto a conoscenza della necessità di Puccini di avere certi versi in dialetto dall’altro amico lucchese, entrambi abitanti a Roma, Alfredo Vandini. Ecco lo stornello, composto appositamente per Puccini:

“Io de’ sospiri
te ne rimanno tanti
pe’ quante foje
ne smoveno li venti.
Tu mme disprezzi,
io me ciaccoro
lampena d’oro me fai morir.”

(ii) Ancora sul preludio del 3° atto, ricordo che le campane dell’Ave Maria, un poetico risveglio di Roma, sono frutto di una lunga ricerca, richiesta da Puccini ancora al Panichelli (v. nota  ). Il musicista voleva essere scrupoloso nell’identificazione delle note delle varie campane. La più indecifrabile era quella del campanone di S. Pietro, ma, grazie  al vecchio maestro Meluzzi, che l’aveva studiata da tempo, si arrivò al mi naturale. Le chiese qui citate sono reali, ma la scelta è di fantasia.

(iii) La piazza detta dal Medioevo ‘Campo de’ Fiori’ era un prato incolto alle spalle dei ruderi del Teatro di Pompeo e del collegato tempio di Venere Vincitrice, dove sorsero le proprietà degli Orsini. All’epoca di Tosca la piazza era meno ampia di oggi. Infatti verso Ovest esisteva un isolato rettangolare, poi demolito. Nella piazza si svolgeva di tutto, dalle feste, agli incontri dei sensali, alle esecuzioni capitali (la più tristemente celebre quella di Giordano Bruno nel 1600), ma non il mercato grande di oggi, che fu quivi trasferito da piazza Navona solo nel 1869.

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