La stanza dei fiori

15,00

Formato: Libro cartaceo

Autore: Gianni Vigilante

Note sull’autore

 

COD: ISBN 978-88-6690-323-9 Categoria: Tag:

Descrizione

La stanza dei fiori è un giallo ambientato nel secondo dopoguerra. Dal 1950 al ’70, dal governo Tambroni, alla rivolta sessantottina, da una realtà rurale e marittima alle problematiche di una grande città: da Napoli fino a Miami Beach.

Mario ha quattro anni quando muore sua madre; l’evento luttuoso cambierà il corso della sua vita e quella di altri “compagni di viaggio”.

Nel 1961 il commissario Giovanni Fantaguzzi di estrazione tecnico-scientifica e il suo collaboratore, il brigadiere Pone, presunto umanista, si trovano ad indagare sulla morte di un prete; un caso apparentemente semplice, la cui prima soluzione, ben presto, appare poco convincente. Svela infatti una realtà inquietante dietro la facciata perbenista, che forze di potere non vogliono trapeli. L’indagine diviene un duello tra l’ispettore e i sospettati e il potere che lo blandisce lo tenta a mettere da parte i suoi principi.

Tra gli  indiziati c’è Mario divenuto adolescente. Dall’aspetto, si direbbe un teddy boy, frequenta cattive compagnie ed è sulla linea di confine tra infanzia e età adulta, tra bene e male, e sembra ormai predestinato al carcere minorile di Nisida. Nei momenti di paura, che non mancano nel suo quotidiano, invoca la mamma che lo guarda dalla luna, ma su questa terra, chi dovrebbe prendersi cura di lui, insidia la sua innocenza e il suo profondo sentimento religioso.

Ne risulta un “dramma giocoso”, in cui temi delicati sono affrontati con apprezzabile ironia e leggerezza, ma mai banalmente. Si distingue per l’approccio critico alla storia della città, tra personaggi suggestivi, coloriti e singolari, talvolta molesti; tra devozione e malavita. L’eclissi con il suo cupo sudario sospende il respiro vitale della città; nei Quartieri Spagnoli la legge Merlin ha sconfitto l’ipocrisia, ma messo in strada, nei  vicoli intrisi di disperazione, una tragica umanità. I destini si intrecciano e gli amori superano il confine della trasgressione; tutto contamina ed è contaminato; dalla parlata: tra slang, dialetto e lessico della Camorra; all’amore:  triviale quello delle prostitute, tenero quello degli amanti, e ingenuo quello dei baci degli adolescenti.

È un narrare in rappresentazione dell’assurdo: i personaggi prendono scena, con tic, ammiccamenti, smorfie, posture e rivelano con denunce e confessioni i fatti, mostrando la propria intima natura.

Tutti scrutano un punto lontano al di sopra delle umane cose, qualcosa verso cui stanno avanzando, a rammentarci la Morte.

 

INCIPIT

26 luglio 1950 ore 11,30. In un piccolo paese del sud

 

La provinciale tagliava il paesaggio da parte a parte, ai suoi lati sfilava un rosario di piccole case; a mezza collina gli ulivi spiccavano nobili, le zolle smosse da poco mostravano i sassi, le geometrie dei carrubi sui confini spartivano i campi. La luce accecante disegnava ombre nette sull’asfalto e le auto sorpassavano spedite i carri agricoli dagli alti spalti che portavano odori intensi di stabbio e fieno; all’incrocio, si innestava la via “nuova”, lì il Caffè Lirico, con la sua insegna rossa in campo azzurro, circondata da note allegre come rondini, echeggiavadel finale della Manon Lescaut. Mariuccia, la cameriera, cantando, raccoglieva tra i tavoli le ordinazioni. Una figura femminile, attraversata la strada con passo deciso, si fermò davanti al locale con l’espressione adirata; teneva un bimbo per la mano. Le fece segno di avvicinarsi e le parlò con tono autoritario; Mariuccia annuì e, alla porta della caffetteria, sporse il capo tra le perline della tenda e chiamò a gran voce un avventore.

Ad un tavolo isolato, un giovane uomo stava seduto con le gambe distese sopra un tavolino. Raffiche di vento, a tratti, gli scompigliavano i capelli, mentre l’ombra di un telo sventolava spasmodica.

Il bimbo, ribelle strattonava la mamma per essere lasciato libero; reggeva un palloncino per l’elastico: uno di quelli gonfiati con aria e infilati in un sottile involucro di plastica, cucito a spicchi vividi e brillanti nei colori blu, rosso e bianco. La donna impaziente sbuffava e puntellando con la mano il fianco attendeva, misurando il transito del tempo con il piede; intanto il bambino insisteva ancora con le sue richieste, finché spazientita lo redarguì.

“Non mi scocciare, ci giochi dopo con il palloncino. Siediti!” E presi un quaderno e una matita dalla borsa, glieli porse bruscamente e lo fece sedere con forza sulla sedia davanti a un tavolino. “Cioncati le gambe a disegnare, lasciami parlare un momento con monzù Tore, pe’ Dio! Ti piace tanto disegnare no? Allora assettati e disegna invece di rompermi il cazzo!” Il bimbo pianse, ma ancor più si imputò per capriccio, finché lei spazientita accondiscese. “Mario, ho capito, gioca co’ ’sto palloncino, però non t’azzarda’ a scendere dal marciapiede! Se no… M’hai capito? Fai il bravo, se no ti faccio nuovo nuovo!”

Appena il vecchio fu uscito dal caffè l’affrontò senza indugio, animata da una rabbia incontrollata; ’zu Tore con aria bonaria resisteva, con voce implorante, ai suoi attacchi:

“So’ cresciuti insieme e se vonno bene. Lo so, non hanno mezzi, ma Matteo s’impegna: s’è pigliato lu diploma, e lu notaro m’assicurato che nci trova ’o lavoro. Eccolo là, lo vedi comm’è quieto? È un bravo figlio.” Si volse di lato. “Matteo, alzati vieni qui, parlaci tu con Nannina. Diccelo quanto vuoi bene a la figlia Rosella.”

Ma Matteo non rispose all’invito e continuò a starsene muto. La musica aveva su di lui un potere evocativo,gli infondeva sensazioni stagnanti tra rimpianto e smarrimento e una inquietudine oscura gli stringeva la bocca dello stomaco.

L’anziano padre non comprendeva il suo comportamento, ma lo difese a oltranza cercando di convincere la donna che l’amore è una base sicura su cui costruire una famiglia. Ma non bastavano parole e per questo si sentiva frustrato. Sapeva quanto quella femmina fosse testarda e la tratteneva quando lei si dirigeva imperiosa verso il giovane, ma lei ribadiva furente, imprecando. Matteo, ferito dalle invettive, animò per un attimo lo sguardo e scrutò di sbieco la donna. Resisteva a quel parlare a labbra strette ingiurioso, al sarcasmo che lei gli indirizzava senza ritegno. Sentiva che avrebbe dovuto alzarsi e con forza vantare i diritti dell’amore, ma si teneva desiderando solo che la sua maledizione la colpisse facendola sparire per sempre. Provava disprezzo per Nannina e si chiedeva come quella femmina potesse avere una figlia così bella, onesta e virtuosa.

Il piccolo non percepiva l’eccitazione del momento, non comprendeva ancora il mondo degli adulti; avrebbe voluto un compagno di giochi, così gli si avvicinò e supplicò.

“Matteo, Matteo, vuoi giocare con me?”

Ma Matteo non rispose, non si mosse, rimase a occhi chiusi con il viso contratto. Così il bimbo, rassegnato, riprese a giocare da solo e come un giocoliere si impegnava, con la punta della lingua tra i denti e lo sguardo attento, a far rimbalzare il palloncino contro la sua piccola mano. A volte gli sfuggiva e sospinto dal vento caldo di libeccio rullava leggero e s’impennava, quasi pavoneggiandosi dei suoi colori, per poi ricadere sul selciato dell’ampio marciapiede alberato. Quando finiva più lontano del consentito, strattonava impaziente la gonna della mamma perché gli desse il permesso di andare a riprenderlo. Lei lo lasciava andare, ma lo richiamava e, quando il bimbo indugiava, si allontanava dal suo interlocutore e, con passi veloci, lo riacciuffava. Poi ritornava da ’zu Tore a strepitargli in faccia i suoi argomenti.

Grandi nubi all’orizzonte, un minaccioso lampeggiare e fragore di tuoni avanzavano: stava sopraggiungendo un temporale e la tempesta si preannunciava con nubi gravide di pioggia. Di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla campagna e sulle case, rapidamente avrebbe spazzato la strada, mondato gli alberi dalle foglie, l’asfalto dalla polvere e dalle macchie cangianti di nafta e, rinfrescata l’aria, avrebbe rinnovato i profumi dell’estate.

Improvvise raffiche avanzavano con repentini turbinii e poi d’un tratto si placavano. Gli alberi si agitavano nel vento e lo stormire delle foglie era simile al vociare di una folla. L’elettricità correva segmentata nell’aria, facendo sibilare i cavi e pulsare di luminescenze il mare. Di tanto in tanto si aprivano ancora squarci nel cielo, ritornava a sprazzi l’azzurro e raggi di sole foravano le nubi. Poi il vento si chetava d’improvviso, le cicale tornavano a frinire e il monocorde e ossessivo musicare di nuovo assopiva le menti.

Nel dipanarsi del tempo, l’accidente sguscia tra le premonizioni, il pensiero rapito scorre carsico e, in un frangente, una trascurabile frazione si mostra in apparenza inoffensiva. È allora che una variabile irridente, sfuggita all’attenzione, può dar luogo alla fatalità più devastante; propagarsi fino al mutamento e condurre in un tragico avvenire dal quale non si può più ritornare.

Così fu cheil palloncino, sfuggito nuovamente al bimbo e sospinto da un vortice improvviso, frullò nell’aria. Una gran volta lo portò in alto e governato dal suo baricentro, discese al suolo; dopo qualche balzo si fermò un attimo indeciso, ma, ghermito dal vento, si librò, poi planò sulla strada, rullò e, urtando un sasso, beccheggiò attraverso la successione degli eucalipti. Il bambino si fermò interdetto, sapeva che quel limite non si doveva per nessuna ragione superare, ma il palloncino rapito da una brezza fresca e ingannevole, superato il marciapiede, andava alla deriva; percorse la cunetta tra la polvere e i sassi, zigzagò un paio di volte, si pose di traverso, poi finì sotto un camion militare riadattato, fermo in mezzo all’incrocio, al semaforo, rosso.

L’autista, madido di sudore, nell’attesa lasciava scivolare sguardi obliqui di invidia tra i tavolini, sulle sedie metalliche e gli ombrelloni, sulla pubblicità di una bibita fresca di brina. Guardò di nuovo la strada che dritta si perdeva all’orizzonte e abbassò il parasole per proteggersi gli occhi dalla luce.

Il bimbo si voltò.

“Mammà, mammà, la palla…”

Lei presa dall’isteria, non rilevò l’invocazione; il vecchio ’zu Tore aveva chiuso le palpebre per non vedere la sua espressione irosa e Mariuccia, che stava rientrando al bar, era di spalle. Gli altri ai tavoli, si infiammavano nel gioco delle carte e nelle questioni su campioni e tenori.

Allora fu che il piccolo decise da solo, correndo sparì oltre gli alberi, scese il marciapiede e si spinse rapido gattonando tra le ruote del grosso automezzo ancora immobile al semaforo.

La madre, richiamata in sé da un presagio, accortasi che una tragedia stava per compiersi, sbiancò in volto, scattò disperata lasciando le pianelle sul selciato e correndo raggiunse da tergo il grosso mezzo mentre gridava con un tono acuto e drammatico.

“Mario! Mario… esci, jesce, ’a cca sotto! Tentennò, ma dopo aver considerato la scelta, si diresse spedita lungo la fiancata dal lato dell’autista e sparì alla vista degli astanti.” Fermati! Dannato fermati!

Ma l’uomo al volante non sentiva: il motore ansimava, i tuoni riecheggiavano in alto, vibravano le lastre ai finestrini e nell’attesa, fissava il pensiero in un punto lontano.

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