La spina dorsale del diavolo

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Stefania A. Napoli

Note sull’autore

COD: ISBN: 978-88-5539-070-5 Categoria: Tag:

Descrizione

«Per ogni cosa c’è il suo momento. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per gioire e un tempo per uccidere. Dio giudicherà il giusto e l’empio, perché c’è un tempo stabilito per ogni cosa.»

Ecclesiaste, 3.

Tre religiosi brutalmente assassinati, una casa per donne bisognose in un Monastero traboccante di segreti, una croce, uno spietato serial killer. E un bianco Natale.

CAPITOLO 1

Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso.”

Genesi, La Creazione

«Alex, chiudi tu? Devo scappare a prendere Andy da mia madre e sono già in ritardo!»

Lorraine ‘Lora’ Hatley, mia collega e amica, nonché titolare del Lora Hatley Dance and Pilates Studio di Gilroy in cui lavoro adesso, sistema il morbido cappello cloche di feltro color lavanda sui lunghi capelli argentati e si appresta a uscire dalla sala corsi, ma si ferma, torna indietro e mi abbraccia: «Buon Natale, tesoro».

«Grazie, Lora, anche a te, e a Jacob e Andy.»

«A proposito, che programmi hai per il 25?»

«Niente di che, pensavo di pranzare a casa, poi forse vedo Lucas.»

«Come procede la vostra liaison amoureuse

Sorrido, infilo le sneakers colorate e accompagno Lorraine all’uscita della palestra: «Insomma… Luc è un po’ noioso».

«Lo dicevi anche di Danny, di Richard e dell’altro tizio, quello pelato con il naso grosso.»

Rido questa volta e le ricordo il nome: «Jeff».

«Sì, esatto, Jeff. Alex, quella con Lucas è la terza relazione che rischi di mandare all’aria da quando tu e Scott vi siete lasciati. Non dai modo agli uomini di conoscerti, li tieni a distanza e loro poi si stufano.»

«Beh, magari nemmeno io sono così interessante» ironizzo, ma lei ribatte seria: «Non è vero. È che da dopo quella faccenda, tu…»

Lorraine sa troppo e io sto cercando di dimenticare, quindi la interrompo: «Vai, fai tardi da tua madre».

«Va bene, ti chiamo dopo. A Natale ti aspettiamo da noi per pranzo, con Lucas.»

Rispondo al tendenzioso invito con una smorfia di insofferenza e Lora scuote la testa in segno di disapprovazione, mi saluta di nuovo e si affretta all’uscita.

Rientro in sala e mi guardo attorno. È passato poco più di un anno dalla carneficina di Lansing1. È stata durissima riadattarsi alla normalità e infatti non ci sono riuscita del tutto.

Il giorno dopo essere tornata a Gilroy, California, il 28 novembre del 2015, ho rassegnato le dimissioni dalla polizia nonostante la strenua opposizione del mio capo, il Tenente Denise J. Gardner, secondo cui la mia scelta era stata presa sulla scia di un’ondata emotiva generata da una sorta di sindrome da stress post traumatico.

La mia ostinata decisione non è stata influenzata neppure dalla revoca della sospensione per disobbedienza aggravata nei confronti del Tenente Michael Collins, responsabile del Major Crimes Section2, la task force di Atlanta incaricata dell’indagine denominata il ‘Ladro di bambine’, la drammatica vicenda che ha cambiato me e la mia vita per sempre.

Nonostante ci fossimo ripromessi di restare in contatto, non ho più avuto notizie di nessuno dei colleghi con cui ho lavorato all’epoca. E per ‘nessuno’ intendo in modo particolare John Riley, lo scorbutico e carismatico senior detective che ho affiancato durante il caso e per cui ho perso la testa praticamente dal primo giorno.

Come tutte le donne innamorate e non ricambiate, ho cancellato il suo numero dalla rubrica del mio smartphone per sfuggire alla tentazione di chiamarlo, sperando che magari, forse, si sarebbe fatto vivo lui, ma non è successo. Confesso però di essermi tenuta aggiornata tramite Denise, divenuta la mia spia inconsapevole. Riley ha ottenuto la promozione a Tenente in virtù del suo coraggio e della sua temerarietà, gli è stato perfino offerto l’incarico di Collins alla guida del Major Crimes, ma il poliziotto ha inspiegabilmente rifiutato entrambe le proposte senza fornire una motivazione precisa.

La mia idea di mettere nero su bianco quanto accaduto durante il caso del ‘Ladro di bambine’ è rimasta e ha preso forma, e questo ha aiutato se non altro a sfogare e a metabolizzare. Tuttavia, ho deciso di tenere per me il racconto di quegli incredibili, terribili e intensissimi nove giorni. Perché scrivendo ciò che era successo, ciò che avevo trovato e perso, mi sono resa conto che l’unico modo per andare avanti era chiudere con il passato, completamente, e dimenticare.

Solo Lorraine sa tutto, anzi, troppo, come vi accennavo. Non ho mai avuto molte amiche, un po’ per il mio carattere non particolarmente estroverso, un po’ per l’effettiva difficoltà di inserimento qui in California, e Lora è stata un toccasana. Mi ha letteralmente trascinata fuori dall’appartamento in cui mi ero rintanata a leccarmi le ferite e, spalleggiata dal suo compagno Jacob, mi ha presentato alcuni suoi simpatici amici.

Ho dato il via a relazioni che sapevo essere senza sbocco fin dal primo momento, sperando mi aiutassero ad allontanarmi da quelle sensazioni meravigliose e spaventose, talmente violente da lasciarmi un enorme senso di vuoto quando tutto è finito. Ha funzionato, ma solo per poche settimane, nel caso migliore, Jeff e il suo nasone, addirittura per quasi tre mesi.

Sì, è vero, ho usato quegli uomini, e ho sprecato me stessa e il mio tempo con persone di cui in fondo non mi importava granché. Però, sapete, è molto difficile rialzarsi dopo una caduta rovinosa e a volte le provi tutte. Poi capisci che le stampelle sì ti tengono in piedi, ma ti impediscono di riprendere a correre.

A ogni modo, dopo le dimissioni dalla polizia e a dispetto dei miei 43 anni suonati, sono tornata al mio vecchio lavoro e amore: insegno Danza Jazz e Pilates qui da Lora, e Yoga da Anytime Fitness, noto centro sportivo a Morgan Hill, a poche miglia da Gilroy. La mia vita ha ripreso i suoi ritmi tranquilli, cadenzati dagli orari delle lezioni e dalle passeggiate con Charlie, il mio indemoniato barboncino nano.

È il 23 dicembre e sono in attesa che gli allievi di Pilates escano dallo spogliatoio dopo aver terminato l’ultima lezione prima della pausa natalizia.

Verifico la presenza delle chiavi della palestra nella tasca interna della mia shopping bag rossa, spengo lo stereo e mi accorgo di aver lasciato aperta una delle tre finestrelle a ribalta posizionate in alto sul muro sabbiato giallo ananas. Recupero la sbarra di metallo che mi serve per chiuderla e mi sposto in fondo alla sala, ma mi blocco a mezz’aria.

«Ciao, Gilroy.»

Il cuore schizza in gola, lo stomaco si sigilla all’istante e un brivido improvviso mi attraversa da capo a piedi. Era un anno che nessuno mi chiamava più così. Anzi, soltanto lui lo fa.

Abbasso lentamente il bastone e mi volto: «Oh mio Dio…»

«Dai, non esagerare, sono solo io.»

Scoppio a ridere come non mi capitava da una vita, e freno inopportune lacrime di emozione e commozione.

John Riley entra nella stanza, le dita delle mani forti e quadrate intrecciate dietro la schiena, l’abituale sorrisetto ironico dipinto sulle labbra asimmetriche, l’immancabile gomma da masticare in bocca: «Quindi è qui che ti eserciti a sparare, adesso. Dovrai fare attenzione agli specchi» accenna all’asta di metallo che stringo ancora. «O ti sei convertita alle armi bianche?»

Rido di nuovo, chiudo la finestra e rimetto il bastone al suo posto: «Come mi ha trovata?»

«Sono uno sbirro, è il mio mestiere rintracciare la gente. Comunque, non è stato difficile, eri una ballerina, in questa micro città avete un’unica scuola di danza… Due più due fa sempre quattro, è inevitabile, ricordi?»

Sì, lo ricordo eccome.

«Perché è a Gilroy?»

«Passavo dalla California e ho sentito parlare del vostro famosissimo Festival dell’aglio. Non potevo perdermelo.»

«Beh, è un po’ in anticipo, detective Riley, il Festival inizia tra sette mesi.»

Lui sorride e le rughe che tagliano verticalmente le sue guance si accentuano rendendolo perfino più sexy: «Lo sai come sono fatto, no? Voglio sempre arrivare per primo».

Riley non è cambiato. Ho pensato ogni giorno degli ultimi tredici mesi a lui, a quel bacio di addio così intenso. Mi rendo conto che i miei sentimenti per lui sono gli stessi e che in fondo non è cambiato proprio niente. O quasi.

«Hai tagliato i capelli.»

Sfioro il mio carré asimmetrico, decisamente più vermiglio e corto dell’anno scorso (e di quanto avevo chiesto alla mia parrucchiera), e mi giustifico: «Le parrucchiere hanno questo vizio di decidere loro il tuo styling…»

«Styling? Cristo, avevo quasi scordato il tuo linguaggio impeccabile, ma stai bene, mi piace.»

Arrossisco, come mi capita solo con lui: «Anche lei è in gran forma».

Riley assesta un paio di colpetti sullo stomaco leggermente sporgente e sospira: «Naaa, devo ancora perdere quei dannati quattro chili».

Non è vero. Nonostante i capelli, il pizzetto e la barba di due giorni un po’ più grigi, e qualche segno del tempo più profondo sul viso a diamante, per me lui è sempre bellissimo.

«Gilroy, hai due minuti?»

«Certo! Ho finito lezione proprio ora.» Sbircio i numeroni neri dell’orologio a parete che segna le 8.22 di sera: «Se non ha impegni e non ha già cenato, potremmo mangiare assieme… insomma, se le va».

«In aereo mi hanno rifilato un dannato panino che avrà avuto 30 anni, con del tacchino anche più vecchio di lui, ma bevo volentieri qualcosa.»

Mi scopro emozionatissima, le mie mani tremano visibilmente quando recupero la borsa, e infilo la giacca e lo scaldacollo nero.

John Riley invece è perfettamente a proprio agio, come sempre: «E dimmi, Gilroy, dove si va a Gilroy quando si vuole uscire un po’?»

«Di solito frequento il…»

«O hai impegni? Magari con Mr. Perfezione.»

Sorrido e ignoro la frecciatina al mio perfetto ex fidanzato architetto: «Non vedo Scott da un po’». Riley annuisce e io riprendo: «C’è un locale carino, Mimi’s Bistrò, a pochi minuti da qui».

«Ok, vada per Mimi.»

«Alex, che testa che ho! Ho scordato di lasciarti la…» Lorraine si ferma sul limitare della porta della sala e ci scruta incerta. «Oh, scusa, non sapevo che fossi in compagnia…»

«Non fa niente, Lora. Ti presento John Riley, è arrivato poco fa da…»

Ma lei mi interrompe sorpresa: «Quel John Riley?»

Le lancio un’occhiataccia che lei prima mi restituisce e poi rilancia su di lui: «Incredibile come vola il tempo! Ci ha impiegato addirittura un anno a dare sue notizie e intanto Alex aspettava una…»

«Scusa, Lora, ma tu non stavi andando da tua madre?»

Un lampo di rimprovero attraversa i suoi occhi grigi e distanziati: «Sì, Alex, ora me ne vado. Ho dimenticato di lasciarti la gratifica natalizia» estrae dalla borsa a tracolla verde una busta e me la mette in mano. «Tieni, tesoro, te la sei meritata» e si rivolge aspra a Riley: «Lei forse non ne è al corrente, Signor Riley, ma Alex Ricci è una ragazza meravigliosa, una lavoratrice creativa e instancabile, qui tutti la adoriamo. Ha una fila di uomini che…»

La blocco di nuovo: «Lora, Andy ti aspetta».

La mia amica (anzi, a questo punto, la mia convinta PR) sospira: «Chiamami appena ti liberi». E saluta Riley con lo stesso tono secco di poco fa: «Buon Natale e soprattutto buon ritorno ad Atlanta».

Lui stranamente risponde con un pacato: «Buon Natale, Signorina». La osserva uscire, poi la indica con un cenno della testa e commenta: «Alla faccia dell’accoglienza californiana. O ce l’ha proprio con me?»

«Cosa?! No! Non la conosce nemmeno! E io non le ho mai parlato di lei! O meglio, ecco, soltanto un paio di volte, un accenno, ma, insomma, solo cose positive.» Sospendo il mio imbarazzante sproloquio prima di aggravare ulteriormente la mia posizione: «Meglio sbrigarci, qui alle 9.30 di sera i locali chiudono».

Spengo le luci, chiudo il portoncino della palestra e abbasso la serranda elettrica. Ricordo ai miei allievi persi in chiacchiere davanti al cancello che i corsi ripartono il 10 gennaio e saliamo sulla mia piccola Toyota rossa parcheggiata sulla Monterey Road.

Durante il miglio scarso di viaggio che ci conduce al bistrò non smetto di parlare a causa dell’agitazione, di banalità per lo più. Infatti, quando fermo l’auto nello slargo di fronte all’insegna rossa del Mimi’s Bistrò & Cafè, Riley è al corrente dei recenti problemi intestinali di Charlie e della detartrasi a cui l’ho costretto la scorsa primavera.

Scendiamo dalla macchina e ci avviamo al locale, Riley apre il portoncino dogato azzurro e si ferma per lasciarmi entrare. Passandogli accanto sento il suo profumo fresco, speziato e avvolgente, e mi ritrovo catapultata a un anno fa, per la quarta volta in venti minuti.

Occupiamo un tavolo d’angolo dell’accogliente risto-bar illuminato da scintillanti faretti incassati nel soffitto e addobbato con decine di luci colorate, candele e un grande abete accanto alla porta. Non è affollato stasera, i Gilroyani saranno tutti a casa ad allestire presepi, alberi di Natale e a organizzarsi per il cenone della Vigilia.

Togliamo le giacche e quando Riley prende posto accanto a me, il mio cuore inizia a galoppare e le mie mani riprendono a tremare per l’emozione.

Le infilo sotto le gambe per evitare che lui se ne accorga, ma mi sa che non funziona.

«Hai freddo, Gilroy?»

«Io? No.»

«Allora perché tremi?»

«Non sto tremando» appoggio le mani sul tavolino a rischiosa testimonianza della mia fraudolenta dichiarazione, e Riley osserva le mie unghie corte e trascurate. «Che ne è della tua perfetta french manicure

«Era troppo scomoda per ballare.»

«Per catturare criminali invece era indispensabile…»

Prima che possa ribattere al pungente sarcasmo del poliziotto, ci raggiunge con passo spedito Brandy Taylor, la leziosa cameriera del locale. La conosco da quando mi sono trasferita a Gilroy e non sono mai riuscita a stabilirne l’età. Potrebbe avere 40 anni come 60, capelli rosa marshmallow cotonati, push up di pizzo viola in bellavista, trucco pesante, e più che masticare, rumina un chewing gum.

Posa i menù plastificati sul tavolo, ammicca a Riley e si rivolge a me con il suo tono caramelloso: «Ciao, angelo. Vi avviso che la cucina è già chiusa, Chef Fayed è andato a casa un po’ prima. Come vedi questo posto è un mortorio stasera».

«Oh, non c’è problema, non ho molto appetito.»

«Va bene, stellina. Cosa vi porto da bere?»

«Io prendo il mio bicchiere di Chardonnay, grazie.»

Brandy scrive l’ordinazione sul taccuino e si concentra sul mio commensale: «Tu, amore?»

«Per me una birra bionda.»

«Ok, biscottino. Abbiamo Honey Blonde, Guinness Draught, oppure…»

«Sorprendimi.»

Scusate, è una mia impressione o Riley sta flirtando con lei? Davanti a me?!

Brandy, che inizia a starmi enormemente sulle scatole, sorride languida e mette più in mostra le sue due voluminose grazie: «Chi è il tuo affascinante amico, Alex?»

«Il Signor Riley.»

E lui si alza in piedi: «John, e sono onorato di conoscerti».

No, non è una mia impressione. Sta flirtando. Incredibile! Eppure sa bene che io…

– Lasciamo stare.

Sì, il mio disincantato lobo frontale ha ragione, lasciamo proprio perdere.

La cameriera sorride di più, se possibile: «Piacere tutto mio, John. Io sono Brandy, come il liquore».

Sorride anche lui e io… non so cosa mi prenda: «Mi scusi, Brandy, vorremmo avere da bere prima dell’arrivo dei Re Magi. Le dispiace?»

Si voltano entrambi sorpresi verso di me ed è evidente che Brandy si è offesa, quindi cerco di rimediare: «Ecco, il Signore è stanco, è appena arrivato dalla Georgia…»

Ma lei replica secca: «Sì, vi porto subito le bevande» e si allontana sculettando allegramente seguita dallo sguardo attento di Riley a cui spaccherei volentieri la testa.

Invece gli sorrido: «Allora, come va ad Atlanta?»

Il poliziotto sospende la minuziosa analisi delle massicce natiche a mandolino di Brandy, insalsicciate in un paio di attillati pantaloni animalier e risponde: «Nella norma. Ah, Harris e Moore ti salutano».

«Oh, grazie! Ricambi, per favore, quando li vede. Come stanno?»

«Bene, i soliti imbecilli.»

Rido questa volta e domando: «E la detective Baker?»

«Stronza come sempre, ma se li sgranocchia a colazione gli altri due.»

«Sì, è una poliziotta in gamba.»

«Yep, la migliore. Peccato per il carattere di merda che si ritrova.»

«È ancora innamorata di lei?»

«Ma va. Jodie non si innamora mai di nessuno. Le piace trombare e io gravito nel suo raggio d’azione, tutto qui.»

Rido di nuovo e obietto: «Non è vero, è pazza di lei».

Riley sorride e scuote la testa, e io mi rendo conto che mi manca Atlanta.

Strano, vero? Quando un anno fa sono arrivata nella capitale dello ‘Stato delle pesche’ non vedevo l’ora di scappare dal suo clima afoso, dal traffico congestionato, dalle battute sessiste dei poliziotti maschi del Dipartimento e dalle continue provocazioni dell’unica detective donna del team, Judith Baker. Invece adesso ho nostalgia di tutto, perfino di loro.

Non ci voglio pensare e svio il discorso: «Sua moglie e i suoi figli stanno bene?» Riley lo tronca: «Tutto ok».

E io lo cambio di nuovo: «Ho saputo che le hanno offerto il posto del Tenente Collins alla direzione dell’MCS3».

«Che fai, Gilroy, mi spii?» scherza. Poi continua, più serio: «Non sono fatto per quelle stronzate, sai, stare in ufficio, coordinare gli sbirri veri, quelli che si spaccano il culo sulla strada…» e arriva al dunque con calcolata noncuranza: «A proposito, stiamo seguendo un caso, abbiamo bisogno del tuo aiuto».

«Del mio aiuto? Io non so come…»

«Ci servi, Gilroy.»

«Ma io non…»

«Ascolta, hai sentito parlare del Cross killer

L’assassino della croce. Ne hanno dato notizia tutti i giornali settimane fa: una suora e un prete cattolici sono stati uccisi ad Atlanta.

Lei lavorava in una delle Catholic Charities, una rete di istituti di beneficenza sparsi per gli Stati Uniti, ce n’è uno anche nella mia Contea. Il sacerdote invece era un alto prelato dell’Arcidiocesi di Atlanta. Entrambi i religiosi sono stati strangolati con una corda e sul loro petto è stata incisa una figura a forma di croce. Questa storia ha provocato parecchio scalpore, ma sapendo che era accaduta ad Atlanta ho cercato di tenermene fuori più possibile, quindi non ne ho seguito gli sviluppi.

Torno ad ascoltare Riley che precisa: «Abbiamo bisogno di qualcuno che reperisca informazioni dall’interno».

Non capisco. Dall’interno di dove? Ma non ho il tempo di chiedere chiarimenti perché il detective aggiunge: «E chi meglio di una ragazza cattolica, con l’aria angelica e lo sguardo ingenuo, che sa quasi tutto sul criminal profiling4

«Sinceramente, non credo proprio di conoscere così tante…»

Questa volta a interrompermi è l’indiscreta comparsa di Brandy con un vassoio e le nostre ordinazioni.

A momenti mi scaraventa contro il calice di Chardonnay, poi, sorridendo, appoggia con cura il boccale di birra e un piatto di nachos ricoperti di formaggio fuso di fronte a Riley che ne infila in bocca una manciata e le strizza l’occhio.

Lei si scioglie subito e gli indirizza un civettuolo bacetto mentre si allontana, e lui beve una sorsata di birra e riprende: «Allora, Gilroy, che ne pensi? Ci dai una mano?»

«Non sono più un poliziotto.»

«Sì, bella cazzata che hai fatto.»

«Non è stata una cazzata! È che non sono adatta a questo lavoro.»

«Io dico di sì e dico che tu sei ancora uno sbirro.» Pulisce sui jeans scuri le dita unte di grasso del formaggio, estrae dalla tasca della giacca un distintivo argentato a forma di scudo trattenuto dagli artigli di un’aquila, la stessa che troneggia nel centro ad ali spiegate tra le parole Special e Police. Me lo piazza davanti: «Congratulazioni. Sei un SPO del Dipartimento di Atlanta».

Special Police Officer, agente speciale chiamato a potenziare e coadiuvare le normali forze di polizia in casi particolari, o per determinati periodi di tempo.

Onestamente non mi ci vedo tagliata, cioè non so davvero come potrei essere utile, e cerco di spiegarlo anche a Riley che però non mi ascolta: «Riferirai direttamente a me e dopo aver risolto questo caso, se vorrai, potrai riprendere la tua carriera ad Atlanta o anche qui a Gilroy».

«Non so nemmeno cosa devo fare! E poi non so niente di preti, suore, chiese…»

«Ti forniremo i particolari alla riunione di domani. Il volo è alle 9.00 del mattino.»

Mi agito subito: «Il volo?! Quale volo?! Per andare dove?!»

«Torrington, Connecticut.»

«Cosa?! No, senta, davvero io non… ho il mio lavoro qui!»

«Credevo fossi in vacanza fino al 10 gennaio.»

«Da Lora sì, ma nell’altra palestra le lezioni riprendono il giorno dopo Natale.»

«Avviserai che devi andare via.»

«Non posso! E il mio cane? A chi lo lascio?!»

«Non conosci nessuno che se ne possa occupare?»

«Io… forse, ma… non avete altri poliziotti ad Atlanta?!»

«Sai come si dice, no? Squadra che vince non si cambia.»

«Ma se l’ho quasi fatta ammazzare a Lansing!»

«Stronzate, Gilroy, hai risolto il caso e salvato quella bambina.»

Inutile, ha una risposta per tutto. E perché mi è così difficile dirgli di no?

Sospiro e non accampo altre scuse: «Mi dispiace, non posso ritrovarmi più in una situazione come quella di Lansing. Ci ho impiegato mesi per recuperare un po’ di stabilità».

Riley si sporge verso di me e abbassa il tono: «Lo so, ma stavolta sarà diverso, ok? Non combineremo cazzate, collaboreremo con gli sbirri locali. Sarò un angioletto e mi atterrò servilmente alle disposizioni del Tenente incaricato dell’indagine».

Scuoto ancora la testa, soprattutto perché non credo a una sola parola, e il poliziotto insiste: «Gilroy, per favore, non sarei venuto fino a qui se non fosse importante».

Certo, non è venuto ‘fino a qui’ perché io sono importante per lui. Ma scaccio questo pensiero adolescenziale e ricordo a me stessa di smetterla di vivere nelle favole: «Davvero, detective Riley, non posso».

Lui si lascia andare contro lo schienale della sua sedia, rigira attorno all’anulare sinistro la larga e spessa fede matrimoniale in oro bianco, e commenta infastidito: «Ok. Pazienza. Troverò qualcun altro».

«Mi dispiace, veramente, è che…»

«Sì, sì, ok. Non preoccuparti. Mi arrangio» ingurgita altri nachos e mi domanda sarcastico: «Allora, come procede la tua tranquilla, stabile e pallosissima vita?»

E io sospiro di nuovo, e capitolo: «Qual è l’incarico…»

Riley sorride compiaciuto per aver raggiunto il suo obiettivo più velocemente del previsto e senza sforzi eccessivi: «Il dossier del caso è nella mia valigia in macchina, ti spiego tutto domattina andando in aeroporto». Solleva il suo boccale: «Brindiamo. Si torna in pista, Gilroy».

Alzo anch’io il mio bicchiere, arrendendomi a lui e all’insindacabile potere che esercita su di me, da cui non riesco o forse non voglio liberarmi.

– Non imparerai mai.

Sono già le 9.40 di sera e siamo rimasti solo noi nel locale, quindi ci rivestiamo e ci spostiamo alla cassa dove Brandy ci attende come un predatore notturno in un pollaio.

Estraggo il portafoglio dalla mia shopping bag, ma Riley mi ferma: «Lascia stare. Sono in trasferta, ho il rimborso».

Mentre passa la America Express sul POS, la cameriera si protende talmente tanto oltre il bancone che è un miracolo se non stramazza di sotto: «Ti è piaciuta la tua birra, bocconcino?»

«Moltissimo, grazie.»

«Ti ho sorpreso, allora…»

Il poliziotto infila la carta di credito dorata nella tasca della giacca in velluto marrone e risponde con noncuranza: «Altroché».

Ma l’assatanata e determinatissima Brandy non molla l’osso e, come si vede nei peggiori filmetti rosa, scrive su una salvietta di carta il suo nome e il numero di cellulare, disegnandoci accanto un cuoricino: «Se ti fermi qualche giorno e hai voglia di conoscere un po’ la nostra simpatica cittadina, bel John, telefonami, ti farò da accompagnatrice».

Lui prende il tovagliolino e legge le informazioni: «Ti chiamo di sicuro, Brandy».

Lei batte le mani come una bambina eccitata, io invece sospiro più rumorosamente del dovuto, e trattengo gli insulti che ho in testa e che rivolgerei a entrambi.

Salutiamo Brandy e il distratto gestore del locale, e usciamo diretti alla macchina.

Appena fuori, Riley appallottola la salvietta e la getta nel cestino vicino all’uscita. E io sorrido.

«In che hotel alloggia, Signore?»

«Gilroy Inn. Certo che ne avete di fantasia con i nomi da queste parti.»

Vi spiego alcune cose su Gilroy. La mia città è stata fondata dal marinaio scozzese John Cameron che, appena undicenne, scappò di casa e che, per evitare di essere rintracciato, assunse il cognome di sua madre, Gilroy, appunto. Dopo anni e svariate peripezie, John Cameron Gilroy approdò in Alta California, si convertì al cattolicesimo romano e sposò la figlia del ricco proprietario di un ranch presso cui lavorava, ereditando un terzo del possedimento attorno al quale si sviluppò il centro abitato di cui divenne anche il Sindaco.

Questo è il motivo per cui qui tutto porta il suo nome. Perfino io, da quando conosco John Riley.

Mentre guido in direzione dell’hotel, il detective mi informa che da Torrington ci sposteremo a Bethlehem, una cittadina del Connecticut con una forte comunità religiosa cattolica. Domani mi spiegherà nel dettaglio il collegamento esistente tra questo posto e Atlanta.

Pochi minuti dopo aver lasciato Mimi’s, fermo l’auto nel parcheggio deserto del Gilroy Inn, un anonimo edificio color ocra molto vicino al mio appartamento. Riley scende dalla macchina, e io apro il bagagliaio e lo raggiungo mentre recupera la sua valigia.

Indica l’albergo con un cenno del mento triangolare: «Mi accompagni in camera?»

«C-cosa?»

«Non ti va?»

«Oh, io, io… Certo che mi va! Tantissimo! È che non ero preparata a… insomma… non mi aspettavo che lei…»

Riley interrompe il mio inconcludente balbettio: «Ok, speravo di essere più discreto, ma lo faremo in macchina» risale sul lato passeggero della Toyota, e io lo seguo incerta e riprendo posto alla guida.

Fruga all’interno di una tasca laterale del suo trolley nero rigido e ne estrae una pistola: «La tua nuova amica. Ti piaceva tanto questo modello, così me ne sono fatto dare uno uguale».

Mi porge la Glock 19 semiautomatica, identica a quella che il Dipartimento di Lansing mi ha requisito l’anno scorso. Sorrido sentendone di nuovo il peso tra le mani e devo ammettere che anche questo mi è mancato.

Non che sia una fanatica dell’uso delle armi, eppure stringerne il calcio, avvertire il contatto con il metallo freddo e levigato mi riporta alle scelte che ho compiuto nella mia vita, mi ricorda perché ho deciso di diventare un poliziotto, demolendo con fatica i muri costruiti dalle mie paure e dalle mie insicurezze.

«Ci si vede domattina, Gilroy. Passo a prenderti alle 7 precise. 8200, Kern Avenue, corretto?»

«Sì, ma lei come… Ah, già, è il suo mestiere trovare la gente.»

E Riley sorride e confessa: «Pagine bianche di Google e una sola persona di cognome Ricci in tutta la tua città. Ti faccio uno squillo sul telefonino quando arrivo. Hai sempre lo stesso numero?»

«Sì, Signore.»

«Ce l’hai ancora il mio?»

«I-io…sì, certo! Perché avrei dovuto cancellarlo? Insomma, non ce n’era ragione!»

«Ok, a domani, allora.» Chiude la valigia, scende dall’auto e si riaffaccia allo sportello: «Dimenticavo, Bethlehem non è come qui da te, la temperatura è sotto zero e ha già nevicato parecchio. Preparati a un bianco Natale, Gilroy».

Come prevedibile, passo la notte praticamente insonne. Dopo aver lasciato Riley al suo hotel e prima ancora di arrivare a casa, ho telefonato a Lora chiedendole se conoscesse qualcuno che si potesse prendere cura di Charlie per qualche giorno, per evitare di doverlo sistemare in una pensione per animali. Lei ha risposto che i suoi zii hanno perso un cagnolino da pochi mesi e che saranno felici di occuparsi del mio. Poi mi ha rivolto una sfilza di domande, insinuando che la causa della mia partenza improvvisa sia collegata all’altrettanto inatteso arrivo di John Riley.

Ovviamente ho mentito. Le ho spiegato che il poliziotto ripartirà domani per San Francisco dove è atteso per una trasferta di lavoro e che il mio allontanamento è dovuto a una gita improvvisata da alcuni amici di mia sorella in Connecticut.

Non sono certa che mi abbia creduto, ma meno Lora è coinvolta meglio è, di qualunque cosa si tratti.

Subito dopo averla salutata e ringraziata per il suo aiuto, ho mandato un messaggio a Lucas avvertendolo di un imprevisto che mi porterà fuori città per un po’.

Lui ha replicato qualche minuto dopo con questo sms: ‘Capisco. Ci ho riflettuto molto, Alex. Il nostro amore è finito. Siamo scaduti nella monotonia quotidiana e non camminiamo più verso gli orizzonti che ci eravamo prefissati. Ritengo che la nostra relazione sia divenuta a questo punto altamente insignificante’.

E io mi sono chiesta quali fossero gli ‘orizzonti prefissati’ in questo mese scarso in cui ci siamo frequentati, ma soprattutto quando mai ci sia stato amore tra noi due.

A me piaceva Lucas, altrimenti non ci sarei stata insieme, ma niente di più. Lui non è importante, non è quello giusto, non è Riley. Nessuno lo è.

Comunque, ho scritto in risposta che sono d’accordo con lui, è finita, e ho mantenuto il ridicolo stile melodrammatico del suo messaggio sostenendo che è meglio avviarci verso ‘orizzonti separati’. L’ho ringraziato per i bei (rari) momenti passati assieme e gli ho augurato buon Natale.

Ho preparato la valigia e mi sono informata tramite Google riguardo al clima di Bethlehem di questo periodo: temperatura minima -6°, massima +8° Celsius. Per questa settimana è prevista pioggia alternata a nevicate. Ho aggiunto in valigia un paio di maglioni di lana e sono andata a dormire.

Ma alle 5.20 del 24 dicembre sono già affacciata alla portafinestra della cucina, una tazza di caffè fumante tra le mani, lo sguardo perso nel profilo scuro delle Green Hills all’orizzonte.

Mi chiedo se sto facendo la cosa giusta. Vi ricordate l’altra volta? Ero partita con grande entusiasmo ed è stato un disastro. Sì, alla fine il caso l’abbiamo risolto, ma a che prezzo?

Rivivo tutto, come se stesse accadendo adesso: le bambine con gli occhi strappati, lo spaventapasseri, il gioco della sabbia, il furgone su cui sono dovuta salire bendata. Il lavaggio del cervello a cui mi hanno sottoposta la Dottoressa Elsa Brouwer e Rachel Collins, inducendomi a credere che fosse proprio John Riley lo spietato serial killer a cui davamo la caccia.

E poi Albert, il figlio della Brouwer affetto dall’impietosa Sindrome di Williams-Beuren, il mio eroe, che mi ha permesso di fuggire assieme a Kristy Davey, l’unica delle piccole vittime scampata al massacro, che Riley, e non io, ha salvato mettendo a rischio la sua stessa vita. Il rasoio che ha reciso la sua arteria femorale e il momento in cui ho creduto di averlo perso per sempre.

Mi domando se ho ancora le energie necessarie ad affrontare altre morti violente e soprattutto altri assassini.

Sussulto quando il mio cellulare squilla alle 6.59. Rimemorizzo immediatamente il numero di Riley, indosso il piumino imbottito e afferro la valigia. Scocco un bacio sul musetto grigio e riccio di Charlie che reagisce con un umanissimo sguardo di condanna, quasi lo stessi abbandonando a un infausto destino.

Scendo velocemente le scale, busso alla finestrella a vetri della portineria e chiedo al Signor Sanchez, l’operoso custode dello stabile, di accompagnare Lora nel mio appartamento quando verrà a prelevare il mio cane. Esco dal portoncino del caseggiato, un taxi bianco è fermo sul ciglio della Kern Avenue.

Riley è appoggiato al cofano, la mano sinistra infilata nella tasca dei pantaloni a quadri scozzesi, il cielo cobalto riflesso nei suoi Ray-Ban Aviator a specchio, sulla testa la coppola beige a righine e tra le labbra un sigaro.

Me lo mostra con un sorriso appena lo raggiungo: «Da dopo Lansing mi concedo qualche vizio, ogni tanto». Indica il complesso a due piani in cui abito: «Carino qui».

«Sì, non è male.»

«Ho visto poco di Gilroy, ma capisco perché l’hai scelta per viverci. Bel clima, bel posto, molto tranquillo.»

E io ripeto quanto già profetizzato l’anno scorso: «Lei si annoierebbe a morte».

Il poliziotto ridacchia e mi sequestra il trolley turchese in tessuto che carica nel portabagagli. Sfrega la punta del sigaro contro il cordolo del marciapiede e infila il mozzicone nella tasca interna del giaccone nero, quindi mi raggiunge sul sedile posteriore del taxi.

Mentre partiamo diretti all’aeroporto di San Josè mi porge il dossier del caso contenuto in un portadocumenti di cartone marrone, e io so già a cosa dovrò assistere: immagini di cadaveri, ma almeno stavolta non sono bambine.

Eppure scopro che mi provoca lo stesso turbamento, forse perché mi ero allontanata molto e in molti modi da questa vita.

«Gregory Wilson» Riley indica la fotografia 20×30 che ho in mano, che ritrae un uomo anziano, in carne, con evidente doppio mento, occhiali e folti capelli bianchi. «Arcivescovo di Atlanta, 68 anni, assassinato circa un mese fa, trovato appena fuori dal confessionale della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. Guarda qui» mi passa un’altra istantanea in cui il prete è sul pavimento della chiesa, supino, occhi e bocca spalancati, una corda stretta attorno al collo rugoso di cui ha segato la pelle, e sangue che esce dalla piccola croce incisa sul suo torace.

«Nessuno ha visto niente, come al solito.» Mi mostra un’altra foto: «Questa è Sorella Katherine Conrad, 76 anni, serviva la Saint Thomas More Catholic Church a Decatur. Stessa fine di Padre Wilson, trovata morta nella sua cella nel convento».

Osservo l’immagine della suora da viva, abito religioso grigio, velo nero e occhi di un azzurro intenso. Poi quella da morta, e penso che somiglia in maniera impressionante a padre Wilson non solo nel modo in cui è stata assassinata, ma anche nella smorfia sofferente, sbigottita e per me terribilmente angosciante dipinta sul suo viso angoloso.

Sospiro e chiudo gli occhi.

Ma Riley sembra non notare il mio turbamento: «Dalle analisi autoptiche risulta che la pressione esercitata sulla carotide per soffocare i religiosi è la stessa. L’incisione sul petto è stata praticata post mortem con un agente affilato, presumibilmente un taglierino o un bisturi, ma la ferita prodotta era piuttosto superficiale. Dai un’occhiata qui».

Mi porge la fotocopia di un biglietto scritto a mano: ‘Il dragone e i suoi angeli combatterono ma non vinsero, e per loro non ci fu più posto nel cielo. Il gran dragone, il serpente antico, chiamato diavolo e Satana, fu gettato sulla terra, e con lui i suoi angeli.’

Poi un altro ingrandimento: ‘Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che trama iniqui progetti, piedi che corrono rapidi verso il male, falso testimone che diffonde menzogne e chi provoca litigi tra fratelli.’

«Apocalisse di Giovanni, capitolo 12, estratti dai versetti da 7 a 9. Libro Sapienziale di Salomone capitolo 6, versetti da 16 a 19. Il killer li ha lasciati sul corpo dei due religiosi di Atlanta.» Riley mi mostra un’altra fotografia: «e questa è l’ultima vittima, Sorella Irene De Asis, Abbazia benedettina Mater Misericordiae».

«Ma… credevo che le vittime fossero solo due.»

«I media non sono ancora al corrente del terzo omicidio. Sorella Irene è stata trovata due giorni fa nella lavanderia del monastero di Bethlehem in Connecticut.»

Ed ecco perché andiamo laggiù.

Osservo l’immagine della terza suora assassinata: indossa un abito nero e il velo bianco da cui esce una ciocca di capelli scuri. Anche lei porta occhiali leggeri, ma è parecchio più giovane della sua ‘collega’ di Atlanta, sui 50 anni, ed è, anzi era, filippina o giù di lì.

«L’ha trovata Sorella Phillys, una novizia. Ha chiamato la polizia ma, quando i colleghi di Torrington sono arrivati, Sorella Irene era già stata spostata in infermeria. Le consorelle non hanno permesso che il corpo fosse esaminato, sostenevano che si è trattato di un incidente, che la suora era scivolata finendo sulle lenzuola che stava raccogliendo ed è soffocata, e che la novizia ha telefonato al 911 presa dalla paura e dall’agitazione, ma senza effettivo bisogno. La polizia del posto non è riuscita a parlarle, è stata spedita il giorno dopo in un monastero di clausura nel Missouri. Ora, però, tu spiegami come un cazzo di lenzuolo può soffocare una persona.»

Scuoto la testa e suggerisco: «Proteggono qualcuno, Signore?»

«Forse, ma pensiamo che Sorella Irene sia morta strangolata, non soffocata, e siamo praticamente certi che sia stato il Cross killer a far fuori anche lei. Durante la perquisizione la polizia ha trovato questo biglietto nella sua stanza. Secondo me era sul corpo, ma è stato spostato dalle consorelle. Sempre Apocalisse, capitolo 2, versetti da 20 a 22.»

Prendo in mano l’ennesima istantanea: ‘Tu permetti a quella donna Iezabel, che si dice profetessa, di sedurre i miei servi inducendoli a fornicare e a mangiare cose sacrificate agli idoli. Le ho dato tempo per ravvedersi dalla sua fornicazione, ma lei non si è ravveduta. Ecco, io la getto in un letto di sofferenze.’

Anche questo foglio porta la stessa firma degli altri: Angelo della Morte.

«Gilroy, sai cosa significa e perché io sono qui?»

«Sì, Signore. Tre omicidi, stesso modus operandi. È un assassino seriale.»

«Corretto. Idee?»

«No, Signore, per ora solo domande.»

«Ok, spara.»

«Perché pensate che l’assassino si trovi in Connecticut? Non è possibile che sia già tornato ad Atlanta?»

«Non sappiamo se abiti effettivamente in Georgia. Abbiamo rintracciato e interrogato i passeggeri di tutti i voli da e per Atlanta degli ultimi due fottuti mesi. Niente. Non ci sono treni che colleghino i due Stati, quindi il bastardo si muove in automobile. Fino a Bethlehem sono quasi mille miglia di viaggio, ossia circa quindici o sedici ore, e l’ultimo omicidio risale a meno di quarantotto ore fa. Perciò supponiamo, e speriamo, che il Cross sia ancora in quel monastero o nei paraggi.»

«L’assassino si firma ‘Angelo della morte’. Che significato ha?»

«Secondo Padre Griffith, il nostro consulente esterno, nella teologia cristiana rappresenta la raffigurazione dell’Arcangelo Michele che guida le milizie celesti contro l’esercito di Satana. È così che si sente il killer, un vendicatore?»

«Forse, Signore. Chi è Iezabel?»

«La moglie di Acab, uno dei Re di Israele, donna crudele che perseguitava i profeti.»

«I biglietti sono scritti a mano, vero?»

«Sì, ma niente impronte dell’assassino. Dall’analisi grafologica effettuata sui primi due è risultato che li ha fatti scrivere alle vittime prima di ucciderle.»

«Oddio…»

«Già. E che mi dici del cooling off5? Meno di tre giorni tra i primi due omicidi, e addirittura un mese tra questi e l’ultimo. Non è strano?»

È presto per azzardare ipotesi, ma ci provo: «Ha colpito le prime due vittime ad Atlanta, la terza in Connecticut. Forse ha avuto bisogno di organizzare il viaggio, magari una copertura, gli è servito del tempo».

«Un seriale organizzato6, quindi. Ma tutti quei riferimenti alla religione, all’espiazione dei peccati, non suggeriscono più un missionario7

«Secondo me no, Signore. Il seriale missionario vuole eliminare individui che contaminano il mondo, quindi prostitute, pedofili, eccetera. Non credo che identifichi in preti e suore lo stesso genere di corruzione morale. Inoltre, per quanto i biglietti lasciati sui cadaveri e la croce incisa sul petto indichino un impulso spirituale all’esecuzione del crimine, il suo comportamento non ha i tratti del delirio mistico. Al contrario, l’assassino è lucido nella pianificazione, quasi usasse la religione come un pretesto. La sua organizzazione contrasta con il movente che suggerisce.»

«Beh, Gilroy, i seriali non sono altro che gente ordinaria che porta agli estremi istinti ed emozioni comuni. A proposito, c’entra il sesso?»

«Tutti i seriali hanno problemi di natura sessuale e le citazioni che ha scelto, le parole ‘seduzione’ e ‘fornicazione’, lo dichiarano espressamente.»

«Ottima osservazione. Questo cosa ci dice?»

Ci rifletto un attimo, poi scuoto la testa: «Non lo so, Signore».

E Riley sbotta: «La pianti con questo ‘Signore’? Non mi chiamavi così l’anno scorso».

«L’anno scorso eravamo colleghi, adesso lei è il mio capo.»

«Puttanate, io non sono il capo di nessuno» e torna all’indagine. «Ricordi la vecchia equazione dell’FBI, ‘Perché + Come = Chi’? Il crimine deve essere valutato nella sua totalità, ma noi per ora abbiamo solo il come e dobbiamo scoprire il perché. Dato che ti è piaciuto così tanto giocare a fare l’infiltrato a Lansing, abbiamo pensato di mandarti in uno di questi istituti di carità cattolici collegato al Mater Misericordiae. Sarai una volontaria ansiosa di servire la comunità, aiuterai le suore nella distribuzione dei pasti ai poveri della zona e vaccate del genere. Non dovrai stare nel monastero tutto il giorno, entrerai giusto un paio di volte, quel che basta per annusare in giro, rivolgere qualche domanda e trasmetterci informazioni su chi frequenta quel posto.» Abbassa la voce simulando la rivelazione di un segreto inconfessabile: «Forse non ne sei al corrente, ma l’ambiente ecclesiastico è un tantino taciturno, sai, sigillo sacramentale, profezie e stronzate del genere».

Sorrido al suo linguaggio sempre poco politically correct e lui infila le foto nel fascicolo del caso: «Tu credi in Dio, Gilroy?»

Mi volto a guardarlo sorpresa per la domanda, poi torno a osservare il paesaggio fuori dal mio finestrino. Scorgo il sole sorto da poco baciare le montagne di questa nuova, fredda ma limpidissima giornata di fine dicembre, l’esplosione di colori nel cielo terso e avverto l’emozione che questo spettacolo della natura accende in me ogni volta.

«Non so se ci credo. Diciamo che ci spero.»

Riley sorride: «Bella risposta».

E io penso che è bello essere di nuovo qui con lui, è bello sentire il calore della sua voce, della sua risata un po’ stridula, il contatto con la sua gamba che sfiora la mia sul sedile.

«Lei, invece, Signore? Crede in Dio?»

Lui accenna un altro sorriso e scuote appena la testa: «Io ho smesso anche di sperarci».

Sono le 9 di sera passate quando il taxi che ci ha raccolto al Bradley International Airport di Windors Locks ci deposita davanti al Dipartimento di Torrington, un edificio in mattoncini rossi con colonnato bianco centrale, situato tra un negozio di autoricambi e una chiesa cattolica maronita.

Un agente in divisa blu all’ingresso esamina le nostre credenziali e ci invita a salire al secondo piano dello stabile in cui si trova l’ufficio del Tenente Carlos Mariago, capo del Detective Bureau locale e ufficiale incaricato di coordinare le indagini sulle morti dei religiosi in collaborazione con il team di Atlanta.

Ci apre la porta del suo studio il Tenente in persona, un uomo di origini ispaniche e corporatura tarchiata sui 55 anni. La luce dei neon appesi al soffitto riverbera sulla sua fronte ampia e liscia, mentre sul resto della testa rotonda si mantengono saldamente ancorati ispidi capelli sale e pepe tagliati a spazzola. Stringe con la sua mano tozza quella decisa di Riley e non risponde al mio sorriso quando veniamo presentati.

Assieme al Tenente Mariago nella stanza è presente anche il suo vice, il Sergente Rey Stone, circa 40 anni, prestante ed elegantissimo in un completo gessato blu scuro. La carnagione olivastra, la statura non propriamente alla Shaquille O’Neal, gli zigomi pronunciati e gli occhi neri quanto i folti capelli impomatati testimoniano la sua discendenza da una qualche tribù di nativi americani.

Contrariamente al suo capo, ci accoglie con entusiasmo, e mi riserva un sorriso perfetto e sfolgorante quando mi cede con galanteria il suo posto di fronte alla scrivania su cui luccica un alberello di Natale finto. Quando si sposta accanto alla finestra, mi investe la scia della sua acqua di Colonia all’aroma di violetta, cuoio e vaniglia che si propaga nel resto dell’ufficio.

Riley si accomoda sulla sedia libera accanto alla mia, estrae i dossier dalla valigia e li allunga al Tenente Mariago che li studia e aggrotta le sopracciglia cespugliose sovrastanti gli occhi scuri a palla in cui è dipinta un’espressione severa e imperscrutabile. Chiude il fascicolo, glielo restituisce e manda all’aria tutti i nostri progetti: «Questo piano non è più valido. Il suo superiore non l’ha avvisata delle variazioni?»

«No. Quali variazioni?»

«Vede, detective, in seguito all’‘incidente’ che ha coinvolto Sorella Irene, quest’anno l’accesso al Mater Misericordiae sarà negato agli esterni anche sotto Natale. Quindi, d’accordo con il suo capo Jenkins e con il Tenente Foley della Omicidi di Hartford, abbiamo deciso di inserire stabilmente nel monastero un agente che si amalgami con i religiosi e capisca cosa sta succedendo lì dentro. Uno che rimanga lì H24, per intenderci.»

Trattengo una risata immaginandomi come Whoopi Goldberg in Sister Act e mi auguro che non mi chiedano di impersonare una suora. Verrei smascherata in pochissimi secondi.

Mariago recupera dallo schedario in metallo alle sue spalle una cartellina in plastica verde con copertina trasparente contenente un plico di fogli dattiloscritti. La posa sul tavolo e la allunga verso di noi: «Questa è la nuova copertura del detective Ricci».

Riley afferra il fascicolo prima che io possa spiarne l’interno, scorre alcune righe della prima pagina, lo lancia sulla scrivania e si alza: «Arrivederci».

Il Sergente Stone sospira: «Senta, Riley, se ci dà modo di…»

«No, gli accordi non erano questi.»

«Lo so, ma le garantisco che la sua collega non correrà alcun rischio.»

Carlos Mariago dà manforte al suo vice: «Il detective Ricci verrà istruita perfettamente su come comportarsi».

«No, non avete capito. Voi non istruite un cazzo di nessuno. Lei se ne torna a casa. Forza, Gilroy, muoviti.»

Scusate? Vi siete accorti che ci sono anch’io? E che state parlando di me?

Mi alzo in piedi incerta sul motivo di questa discussione: «Cosa c’è che non va?»

Ma loro non mi considerano minimamente e continuano a battibeccare, quindi apro il dossier della mia copertura. Il nuovo piano consiste nell’infiltrarmi in una delle strutture gestite dal Mater Misericordiae fingendomi una donna maltrattata alla ricerca di un posto in cui nascondersi. Premesso che sinceramente nemmeno io mi ci sento proprio tagliata, non mi sembra così pericoloso, insomma, è un compito che penso di poter svolgere decentemente.

Le narici già larghe del naso dritto e socratico del Tenente Mariago si dilatano considerevolmente: «Non dipende da lei, Riley! Le è stata data la possibilità di scegliersi una partner da infiltrare, il resto non la riguarda!»

«Sì, invece! Gilroy è mia! Cioè… voglio dire, la detective Ricci è sotto la mia responsabilità. Se avessi saputo cosa avevate in mente portavo un’altra poliziotta.»

Ah, ottimo, quindi io sono qui in quanto donna, anzi, in quanto donna semi-abile che esegua alla lettera gli ordini di John Riley.

– Le persone non cambiano.

Ma io forse sì e stupisco perfino me stessa quando dichiaro: «Io rimango».

Riley sbuffa rumorosamente: «Gilroy, per favore, non mi voglio incazzare. Non sei preparata. Non lo fai. Fine della storia».

«No, lei mi ha trascinata qui, e adesso io resto e porto a termine l’incarico. Non decide sempre tutto lei.»

Il poliziotto perde le staffe: «Cristo, ma ci tieni così tanto a farti ammazzare?!»

E io ribatto a voce perfino più alta: «Non ho più niente per cui vivere davvero!»

All’improvviso nella stanza cala un silenzio sconcertato. I detective mi osservano sorpresi e incerti, e sono anch’io sconvolta dalle mie stesse parole. Perché lo penso, non ho niente per cui valga la pena vivere, solo questo. Questo momento. Questo lavoro. Oggi.

Il tono ragionevole di Rey Stone interrompe il lungo momento di imbarazzo: «Perché non ci dormite su e domani mattina ne riparliamo?»

Ma Riley replica aspro: «Non c’è un cazzo di cui riparlare». Poi si rivolge a me: «Hai deciso di restare? Ok, fantastico, ma ci rimani da sola. Io non voglio altri pesi sulla coscienza». Con un gesto secco chiude la cerniera lampo della sua valigia, agguanta la giacca ed esce dall’ufficio senza salutare nessuno.

«Venga, Alex, la accompagno in hotel.»

«Mi scusi, Sergente, prima devo parlare con il mio collega.»

No, non esiste che Riley adesso mi lasci qui così e senza un minimo di spiegazione. Non infilo nemmeno la giacca, corro giù dalle scale e lo trovo all’ingresso del Dipartimento accanto alla guardiola con l’iPhone incollato all’orecchio.

Non aspetto che abbia terminato la conversazione come richiederebbe il bon ton e lo affronto impavidamente: «Mi molla così?! Grazie mille! Se pensa che io sia un’incompetente, perché mi ha cercata? Perché è venuto a Gilroy?»

Lui chiude la comunicazione telefonica e si volta: «Senti, hai deciso di restare. Benissimo. Lavora con questi idioti. Io me ne lavo le mani».

«Perché?!»

«Se non lo capisci da sola…»

Ma io mi impunto: «No, basta giochetti! Perché?!»

E John Riley sbrocca: «Non sei pronta, cazzo! Non sai cos’è un infiltrato! Te lo si legge in faccia quando racconti palle! Cristo, non sai rispondere ‘no’ quando non vuoi fare qualcosa!»

L’agente di guardia bussa energicamente contro il vetro antiproiettile sollecitandoci ad abbassare la voce e Riley replica con un rapido e inequivocabile gestaccio, ma è più calmo quando riprende: «E io non sono pronto a stare lì fuori chiedendomi se sei viva o se ti hanno ammazzata, sfregiata e poi buttata da qualche parte. Non potrò proteggerti in alcun modo, lo capisci? Dovrò solo aspettare che recuperi le informazioni e trovi la maniera di comunicarcele. Non voglio commettere gli stessi errori di un anno fa».

Mentre lo ascolto mi rendo conto che:

1. non ho la minima idea di quali siano le reali mansioni e i rischi che corre un agente infiltrato;

2. Riley tiene a me più di quanto pensassi o sperassi e questa nuova consapevolezza riempie quel vuoto enorme che sento da dopo Lansing, almeno in parte.

Quindi insisto usando contro di lui le sue stesse astute tecniche persuasive: «Si ricorda cosa mi ha detto l’anno scorso quando ero io a voler mollare? ‘Puoi partire e dimenticarti di questa storia, ma chiediti se riuscirai a dormire ogni notte. Se la risposta è sì, allora fai bene ad andartene’. Lei riuscirà a dormire, Signore?»

Il detective mi fissa per un istante e ripete un’altra frase che aveva pronunciato un anno fa, con lo stesso guizzo divertito nello sguardo profondo e risoluto: «Vaffanculo, Gilroy». Poi mi minaccia: «Ora andiamo in hotel e cominciamo a prepararti. Ti avviso, dovrai imparare tutto sulla tua copertura, dovrai saperla come l’Ave Maria, giusto per restare in tema. Alla minima esitazione o incertezza, te ne torni di filato a casa e stavolta senza storie. Non pensare che ci andrò giù leggero, chiaro? Ho imparato qualcosina anch’io a Lansing».

Indica il piano di sopra con un cenno del sensuale mento appuntito: «Si gela, va’ a metterti la tua fottuta giacca. Io ti aspetto qui, che se vedo quel finocchio di Stone esibire un altro dei suoi sorrisi a quattrocento denti glieli faccio saltare uno per uno».

Sì, John Riley è sempre lo stesso.

1La vicenda è narrata nel romanzo Sandplay, della stessa autrice. Atlanta, Georgia. Novembre 2015. Sette bambine scompaiono da casa e vengono ritrovate barbaramente assassinate. Alex Ricci, detective italiana, ex ballerina, dotata di buone capacità deduttive ma spesso distratta da un intenso dialogo interiore, viene convocata da Gilroy, sonnolenta cittadina californiana in cui vive e lavora, per coadiuvare la task force che dà la caccia al serial killer, nel caso denominato ‘Il Ladro di bambine’. Ad affiancarla il senior detective John Riley, uomo d’azione dal passato colmo di ombre e segreti, che si rivela un importante compagno di viaggio, capace di risvegliare nell’impacciata e inesperta collega emozioni sopite da molto tempo. Tra i due protagonisti nasce un legame profondo che tuttavia si spezza al termine dell’indagine, quando Alex Ricci, più matura e consapevole, fa rientro a Gilroy e rassegna le dimissioni dalla polizia.

2 Unità speciale del Criminal Investigation Division della Polizia di Atlanta, formata da detective specializzati nella soluzione dei crimini più violenti.

3 Major Crimes Section.

4 Strumento investigativo utile all’identificazione di un criminale attraverso la definizione del suo profilo psicologico e comportamentale.

5 Periodo di raffreddamento in cui il serial killer prende distanza emotiva e fisica dagli omicidi commessi.

6 Tipologia di serial killer che agisce con meticolosità e premeditazione.

7 Serial killer spinto dalla convinzione di dover compiere una missione per il benessere della società.