La primavera e i nontiscordardime

16,00

Formato: Libro cartaceo pag. 190

Autore: Gerardo Saponara

Note sull’autore

 

COD: ISBN: 978-88-5539-197-9 Categorie: , , Tag:

Descrizione

La primavera e i nontiscordardime ripercorre la storia di Gabriele, soprattutto negli anni dell’infanzia, trascorsi prima in collegio a Pesaro, scelta obbligata dei genitori per motivi di lavoro, ma dal bimbo vissuti come “abbandono”, e successivamente di anni più ricchi e piacevoli, a San Severino, a casa dei nonni. Anni certo più liberi per il ragazzino, ma non meno formativi, sotto l’amorevole guida degli anziani, circondato dall’amore di una famiglia numerosa che si riunisce nei giorni di festa.

Questo è un romanzo sui valori della famiglia e della persona, che guarda con affetto e riconoscenza alla generazione dei nonni, oggi troppo spesso cinicamente considerati inutili e rinchiusi nelle case di riposo.

INCIPIT

Cap. 1 – Settembre 1970

Erano le nove del mattino di una calda giornata di fine settembre ed ero già da tempo affacciato alla finestra ad attendere l’arrivo dei miei amici e andare al campetto di calcio.

Con i gomiti puntati sul davanzale guardavo fuori e d’un tratto notai un uomo in fondo al viale procedere a passo spedito sul marciapiede dell’altro lato della strada e una volta giunto in corrispondenza della mia abitazione lo vidi attraversare e fermarsi proprio davanti al cancelletto di casa.

Lo riconobbi, era il Ferroni, un signore che abitava non molto lontano da casa mia: È venuto proprio da noi, pensai.

Pochi attimi e suonò il campanello.

«Gabriele, vai a vedere chi è!» gridò mia madre dalla cucina.

Corsi direttamente da mamma e a bassa voce le dissi: «È il signor Ferroni».

Quel tizio era il padre di Maurizio, il bambino con cui mio fratello Nicola aveva preso da tempo a litigare quasi ogni giorno.

«Ancora lui, chissà cosa vorrà adesso?» esclamò mia madre aprendo la porta dell’appartamento per recarsi verso il cancelletto; io le andai appresso e mi piantai sull’uscio a osservare i due sul marciapiede che discutevano e gesticolavano vivacemente.

Mio fratello osservò la scena dalla finestra del soggiorno e vedendo nostra madre ascoltare in silenzio il padre di Maurizio che gesticolava in maniera alquanto scalmanata, fece un gesto di stizza ed esclamò: «Chi la vuole sentire adesso mamma!» e senza indugiare si diresse in tutta fretta in camera sua, chiudendo la porta a chiave.

Io restai sull’uscio ad aspettare mia madre per farmi dire il motivo di quella visita o meglio per avere la conferma di quello che sospettai appena ebbi udito il campanello suonare.

Mia madre rientrò e senza nemmeno guardarmi, visibilmente adirata, percorse il corridoio, si fermò davanti alla camera di mio fratello e non riuscendo a entrare urlò appoggiando letteralmente la bocca sulla porta: «La prossima volta ti spedisco di filato in collegio! Hai superato ogni limite!»

A ogni malefatta di mio fratello spuntava sempre la stessa prospettiva come punizione, il collegio, e quella prospettiva ha sempre turbato più me che Nicola, al punto che io, per scongiurare il pericolo di finire in quel luogo, ho sempre cercato di rigare dritto, convinto com’ero che, se mi fossi comportato sempre bene, non avrei mai rischiato di andarci.

Ben presto, però, imparai a mie spese che non sarebbe bastato essere bravi e costumati figlioli per evitarlo, perché in collegio ci si poteva finire anche per colpa di altri.

Nella mia famiglia, per l’appunto, il bambino irrequieto era mio fratello, che oramai non perdeva occasione di maltrattare e fare dispetti a Maurizio per ogni cosa da questi detta o fatta.

Così i miei genitori, dopo quella ennesima sfuriata dei signori Ferroni contro Nicola, che aveva scaraventate le scarpe di Maurizio sul tetto di una casa costringendo il loro figlio a ritirarsi scalzo a casa nel bel mezzo di un furioso temporale, decisero di porre fine una volta per tutte alle intemperanze di mio fratello e convennero che spedirlo in collegio sarebbe stata l’unica soluzione praticabile.

E così fecero.

Poi, però, venendo a sapere dai vicini che era spesso Maurizio a provocare Nicola prendendolo in giro davanti agli altri compagni per via della sua stazza grassottella, i miei genitori considerarono quella loro punizione troppo frettolosa e un po’ troppo severa e per questo, da bravi genitori, decisero che Nicola non avrebbe dovuto stare da solo in quell’istituto e che io avrei dovuto stare con lui.

Fu dunque per l’irrequietezza di mio fratello e la frettolosità dei miei genitori che di lì a poco toccò anche a un bambino di appena sette anni andare in collegio.

Lo ricordo bene quel fatidico giorno, accadde pochi giorni dopo l’episodio delle scarpe sul tetto.

Di buon mattino venne a chiamarmi il mio amico Severino: «Andiamo a fare una partita» mi gridò dalla finestra.

«Aspettami, vado a cambiarmi!» gli risposi con entusiasmo.

Mi recai immediatamente nella mia stanza per infilarmi le scarpette da calcio e, aperta la porta, vidi mia madre intenta a piegare con cura i miei indumenti e riporli in una valigia marrone adagiata sul mio letto.

Quella vista mi tolse per un attimo il respiro. Siamo nuovamente sul punto di trasferirci per lavoro, pensai.

Superato quell’attimo di perplessità, rivolgendomi a mia madre domandai: «Perché metti la mia roba in valigia? Dobbiamo di nuovo trasferirci?»

Mia madre mi guardò per un solo istante e, come se non avesse udito la mia domanda, continuò a piegare una maglietta e dopo averla riposta mi fece segno con la mano di avvicinarmi a lei e quando le fui vicino, mostrandomi l’interno della valigia, mi disse: «Dunque, Gabriele, guarda bene: qui ci sono le tue mutandine e qui, sotto le canottiere, i calzini. Qui di lato alle canottiere ti ho messo le magliette per quando esci e qui sotto tutti i tuoi pantaloni. Tutte le volte che ti cambi, devi portare la biancheria sporca alla lavanderia; lì ti diranno dove e quando».

«Lì, dove?» domandai alzando il tono della voce.

Mia madre anche questa volta non rispose.

La incalzai: «E poi perché tutti i miei pantaloni?»

Mia madre si fermò, si pose a braccia conserte e rizzando la schiena per accompagnare un lungo respiro, rispose: «Andrai anche tu in collegio».

Fu un tuffo al cuore, ero preparato a molte risposte, ma non a quella.

Con voce rotta dallo sgomento dissi: «Perché, che cosa ho fatto?»

Mia madre si accasciò come un sacco vuoto sul bordo del letto e con tono leggermente incupito rispose: «La decisione l’abbiamo concordata con tuo padre; lì c’è tuo fratello che ti aspetta e non vede l’ora di vederti».

«Sì, figuriamoci! Mio fratello, che non mi porta mai a giocare con lui, adesso sta male senza di me» replicai stizzito.

Non mi lasciai rabbonire da questa scusa e con le lacrime che già premevano per uscire, urlai furente: «Non ci credo. Voi volete solo riparare allo sbaglio di averlo rinchiuso in collegio. È per farvi perdonare da lui che ci mandate anche me!»

A queste mie parole mia madre non replicò.

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