La farfalla blu

4,99

Formato: Epub, Kindle

Autore: Bruna Nizzola

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-084-9 Categoria: Tag:

Descrizione

La storia di Annuccia è emblematica: la classica ragazzina di campagna degli anni Cinquanta, sempliciotta e non particolarmente graziosa, ma fresca di ingenuità e giovinezza, che finisce, dopo un percorso ahimè troppo banale, in quelle che ancora si chiamano “case chiuse”. Ben presto, la cosiddetta “Legge Merlin”, in nome della dignità della donna, butta in mezzo alla strada le donne che ancora ci lavorano, sane e malate, giovani e vecchie. Annuccia, che pure ha venduto il suo corpo, ha però conservato quella freschezza di cuore che le permette di volare come una farfalla. Volare come una farfalla blu, “nel blu dipinto di blu”, come canta una nota canzone.

INCIPIT

“Sei tu quella della Pina?”

“Sì, è la Pina che mi ha detto di venire qui.”

“Quando mai!” – pensava Annuccia, già pentita d’aver dato retta alla vecchia governante, ex tuttofare della famiglia Alessi.

Quando le era comparsa davanti la Signora, spumeggiante nel suo trasparente baby-doll, ancora con la faccia unta di costose creme rigeneranti, la ragazza aveva percepito una sensazione di gelo, del tutto ingiustificata dalla stagione estiva al culmine degli appiccicosi caldi umori, sapidi di lezzi suini, della grassa terra padana.

Non certo con il luogo, l’ampio atrio della villa, e nemmeno con l’ora, quasi mezzodì, s’accordavano invece con il clima i notturni veli leggeri che accompagnavano come ali di libellula i movimenti nervosi della Signora: un’effimera altezzosa e apparentemente incazzata.

“Beh, m’aspettavo qualcosa di meglio!”

“Grazie! Mi ci voleva proprio!” pensava ancora la ragazza, senza profferire parola, ricordando l’incoraggiante saluto del padre, quando lo aveva informato della proposta della vecchissima e diroccata Pina di sostituirla alla villa.

“Sì, vai, va’ pure. Tanto che ci stai a fare qui. A te nessuno ti sposa, questo è sicuro!”

Ed ora sotto lo sguardo indagatore della probabile futura padrona, una specie di raggelante oculare vivisezione, Anna, detta Annuccia e qualche volta Nuccia, aveva dei brividi incontrollati che non presagivano nulla di buono.

“Giovane, sei giovane e sembri abbastanza robusta, ma ragazza mia da dove vieni? Nessuno t’ha insegnato a pettinarti? E quei vestiti? Sembri una dei “Poveri figli di Maria”.

La Signora sembrava sinceramente preoccupata di riuscire a contrabbandare quella specie d’inelegante sgorbio che le stava davanti, con l’aspetto da ottocentesca orfanella, come domestica referenziata.

Che diamine! Lei aveva un’immagine da salvare con le amiche, le Dame di San Vincenzo, che sacrificavano diverso tempo dei loro caritatevoli raduni a sputarsi addosso reciproci veleni.

Sarebbe stato di qualche difficoltà presentare la nuova servetta annunciando con sussiego: “Sapete, me l’ha raccomandata la contessa!”

Già, la contessa! Il logo di nobiltà degli incontri parrocchiali, titolo non di nascita ma acquisito proprio da una ex servetta che in virtù delle sue prorompenti grazie s’era fatta sposare verso gli anni venti dal giovane e un po’ citrullo primogenito del conte Alessi, in pratica il proprietario dell’intero paese.

Un trentennio di dolce vita della mediamente aristocratica coppia aveva dissipato i patrimoni familiari, ma era rimasto il prestigio del titolo nobiliare a raccogliere il servile ossequio del femminino paesano.

“L’ha detto la contessa!”

Eh, se l’ha detto la contessa…

Spacciare quella squallida Annuccia per un suggerimento della nobildonna?

Una vera sfida!

La Signora ci si mise d’impegno.

Così Anna si trovò a servire il tè alle gentili Dame con tanto di guanti bianchi che le impacciavano i movimenti, mettendo a rischio le fragili tazzine di porcellana del servizio buono e con un corsetto che le stringeva in vita quasi a soffocarla.

“Insomma, ragazza mia, un po’ di linea per questo tuo sacco di patate!”

Poi c’era la crestina bianca inamidata, inevitabile, che le si metteva sempre di traverso, dandole l’aspetto di una povera pollastra spaventata.

Il corsetto, invece, aveva dei notevoli effetti collaterali. L’esagerata compressione alla cintura spingeva al debordare dallo scollo a barchetta del vestito nero di un esubero di rotondità fresche e bianche, molto accattivanti, che non mancarono d’attirare l’attenzione del signore della casa: ilpoverocarochelavoracosìtanto!

Oh, quanto lavorava!

Il povero caro al mattino si alzava, con comodo per carità, verso le dieci. Ci teneva assai a conservare la pelle levigata, senza rughe, del suo volto giovanile da sessantenne nulla facente. Si concedeva un’abbondante colazione tutta padana: pane casereccio bianco, fette di salame spesse un dito e qualche volta una bella fetta della polenta della sera prima, abbrustolita sulla brace e un “piccolino” di frizzantino bianco.

Vestito di tutto punto, lino d’estate, lana Zegna d’inverno, velluto a coste nella mezza stagione, sempre con cappello di paglia o di feltro a tese larghe, panciotto e fazzoletto di seta annodato al collo, l’onesto lavoratore saliva sulla sua automobile.

Era una splendida Alfa Romeo 1900 che era costata al conte il sacrificio di diversi ettari di maggese.

“È lì a far niente” si giustificava il lungimirante proprietario nel considerare l’ampio appezzamento di terreno lasciato a riposo per potersi rigenerare secondo la pratica agricola corrente.

E poi, come non estasiarsi davanti a quella sinfonia di forme e stile che era la sua auto? Tutta curve eleganti.

All’epoca le curve andavano forte, nei primi concorsi per Miss qualchecosa, sugli schermi cinematografici come nei cartelloni pubblicitari e nelle riviste di moda, e al maturo signore, sempre scoraggiato dalle marito-repellenti untuose creme della legittima consorte, le “curve” piacevano tanto ma tanto! Così un giorno, dopo il lavoro, vale a dire dopo un giro in macchina per l’azienda, raccogliendo con superba dignità l’ossequio dei contadini che si toglievano il cappello mormorando fra i denti il consueto saluto augurale “Ca ‘t vegna an cancar!” e dopo la sosta obbligata in paese al caffè Borsa, il suo vero ufficio, dove incontrava e chiacchierava d’affari e d’altre amenità con l’esclusivo club di agricoli proprietari e mediatori più o meno fino all’ora di pranzo, al padrone cadde l’occhio sul turgido biancore della scollatura di Annuccia.

L’attivarsi del circuito occhi – arti superiori fu repentino.

La Signora colse i due proprio nel momento in cui le mani del marito affondavano voluttuose nel morbido lumeggiare delle sode carni di Anna incantucciata a viva forza in un angolo della cucina.

Altrettanto tempestivo fu il ritrovarsi della ragazza fuori dal cancello della villa, con la sua valigetta di cartone e gli stessi abiti da orfanella con i quali s’era presentata, ma quantomeno libera dal corsetto, capace di tirare un profondo ampio respiro a tutto polmone.

Nutrirsi d’aria fritta?

Consuetudine antica nella civiltà contadina, ma ahimè, dagli esiti letali. Respirare, sia pure a pieni polmoni, aria di libertà non garantisce affatto la sopravvivenza.

Ci vuole la pagnotta!

“Che faccio adesso?” si chiedeva Anna.

“Dove la trovo adesso la mia pagnotta?”

“Torno a casa” decise alla fine rassegnata e disperata.

Rannicchiata su di una panchina, con la testa incassata fra le spalle, in una posizione così dimessa da rivelare lo scarso entusiasmo per la decisione presa, aspettava la corriera che l’avrebbe riportata al paesello quando:

“Ciao! Che ci fai qui?”

La voce roca che l’apostrofava apparteneva ad una matura frequentatrice del bar latteria dove si recava Anna per l’acquisto di una miscela speciale di caffè, irrinunciabile per i gusti raffinati e lo stomaco delicato della Signora.

“Digerisco solo questo!” proclamava la Dama con nobile sussiego, come se parlasse di caviale o lingue di pappagallo.

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