Il tramonto delle aquile

12,54

Formato: Libro cartaceo pag. 280

Autore: Chiara Curione

Note sull’autore

COD: ISBN 978-88-6690-220-1 Categoria: Tag:

Descrizione

Manfredi di Svevia, ultimo sovrano svevo del regno di Sicilia, racconta in prima persona le complesse e drammatiche vicende di cui fu protagonista, fino alla battaglia di Benevento, in cui perse la vita nel 1266, sconfitto da Carlo d’Angiò. Romanzo scorrevole, di buona scrittura, è adatto anche ad un pubblico giovane, ed ha il merito di avvicinare il lettore alla storia di un periodo complesso e travagliato, in cui il papato lotta per essere protagonista di primo piano, ed usa tutti gli strumenti, compreso quello della scomunica e il sostegno al partito guelfo, per tentare di avere ragione dei suoi avversari del partito ghibellino, di cui Manfredi è il capo riconosciuto. La documentazione attenta e accurata permette inoltre al lettore di immergersi nella vita quotidiana dell’epoca, ricostruita vividamente attraverso un’ambientazione convincente e di comprendere la mentalità medievale, le credenze, le abitudini, di un’epoca in cui affondano le radici del mondo moderno.

INCIPIT

Il tramonto delle aquile

All’alba di quel giorno, tra le nubi, in mezzo a lampi e tuoni si videro due grandi figure umane combattere paurosamente tra loro.

Intanto, nella prigione sotterranea del castello, la bellissima Bianca soffriva atrocemente per dare alla luce il suo bambino.

Al tramonto, un servo portò all’imperatore Federico lo Svevo un vassoio d’argento su cui poggiavano il neonato e i seni che la madre aveva reciso per dimostrare la sua fedeltà. Solo allora l’imperatore riconobbe che il bambino era suo figlio e lo prese tra le braccia commosso, prima di correre dalla sua amata a chiedere perdono. In quello stesso istante la finestra del castello si spalancò, e in cielo tra fulmini e saette una delle due figure si trasformò in un monaco e venne spinta a nord da un vento impetuoso.

Il mago allargò le braccia e cadde a terra, poi chiuse gli occhi. E dalla sua bocca uscì una voce innaturale come fosse dall’oltretomba.

“Verrà il tempo in cui il Lambrello rosso a tre gocce, chiamato dalla ferula, scenderà con uno sciame di cavallette contro il sultano. A Maloenton l’arco vincerà contro la spada, ma il cavallo tutto travolgerà. L’aquila chiederà gloria al suo condottiero, dove la rosa sarà l’orgoglio mirabile contro l’oblio.”

Poi il mago di corte si riprese lentamente mentre gli altri lo soccorrevano.

Era ancora scosso. “Questo bambino non sarà mai un semplice mortale…” disse indicandomi.

Parte Prima

I

Il cielo mattutino si schiariva rapidamente sui tre sobborghi della città di Foggia, quando giunsi trafelato al vicino palazzo imperiale, in compagnia di due amici.

Entrai da un ingresso secondario della grande residenza con numerosi edifici compresi nella cinta muraria e sperai che nessuno avesse notato la mia assenza. Smontai da cavallo allegro e sudato, quando notai il disappunto dell’anziano mago Teodoro che aveva fatto capolino nel cortile.

“Manfredi, dove sei stato tutta la notte invece di pregare per l’investitura?” esclamò.

Osservò i miei amici: un suonatore provenzale e l’inseparabile Giorgio. “Siete andati in giro per la città a suonare strambotti e a cantare!” indovinò fissandoci uno a uno.

“Se lo sapesse tuo padre non sai cosa accadrebbe e io che ti copro ogni volta! Vergogna!” mi ammonì, puntando contro di me l’indice della mano deformata per l’artrosi.

Brontolava sempre perché non rispettavo le regole di corte, eppure faceva di tutto per giustificarmi con mio padre che ordinava e stabiliva tutto con precisione quasi maniacale.

Entrammo nell’elegante palazzo con colonne di marmo e statue pregiate, dove c’era un andirivieni di servitori e di cuochi che si apprestavano a preparare cibi prelibati per la festa.

La vecchia nutrice mi vide e si fece il segno della croce.

“Dio sia lodato! Ho fatto dire all’imperatore che ti stavi vestendo!” disse, facendomi immergere in una vasca colma di acqua e lavandomi, aiutata dalle altre domestiche. Mio padre mi attendeva con impazienza, il vescovo era già in chiesa. Giorgio si allontanò facendo cenno che ci saremmo rivisti più tardi.

Socchiusi gli occhi mentre mi lavavano, la ragazza bionda che avevo notato in città era bellissima, non l’avevo mai vista a corte ed ero sicuro che non fosse del posto. Volevo sapere tutto di lei e rivederla. Avevo incaricato Giorgio di informarsi sul suo conto.

Nell’aria serena di primavera, il sole del mattino splendeva sull’imponente cattedrale di Foggia, facendo risaltare il bianco della pietra dell’edificio diviso in due da un cornicione ricco di sculture, che distingue la parte superiore più leggera dalla parte inferiore compatta e ravvivata da archi ciechi. La campana suonava a festa nell’alto campanile, la guardia saracena e i cavalieri tedeschi vigilavano il tempio e un venticello leggero faceva sventolare i vessilli imperiali con l’aquila nera su fondo dorato. Intanto i nobili e i cavalieri entravano in chiesa, seguendo l’imperatore e i suoi figli. Dietro si accalcava una folla di popolani per vedere la cerimonia della mia investitura.

Attraversai la navata centrale seguito da un corteo di paggi miei coetanei, spiccavo tra loro per i capelli biondi, per la tunica di seta bianca e rossa, simbolo di purezza di vita e del sangue di Cristo, e per i calzari neri, emblema delle tenebre della morte.

Davanti all’altare mi attendeva mio padre, l’imperatore Federico lo Svevo, dal volto autoritario, labbra carnose e zigomi alti, che mi lanciò uno sguardo di rimprovero, ero decisamente in ritardo. Con lui c’era Berardo, l’arcivescovo di Palermo che presiedeva a ogni cerimonia.

Tra i nobili vidi Pier delle Vigne, il consigliere e fidato amico di mio padre, avrei riconosciuto tra mille il suo fisico massiccio e la sua espressione vigile. Poi incrociai lo sguardo dei miei fratelli più grandi, Federico di Antiochia ed Enzo. Enrico, il più piccolo di tutti noi, osservava attentamente la cerimonia, sognando di crescere in fretta e diventare anche lui cavaliere. Era assente solo Corrado, che ormai risiedeva stabilmente in Germania.

I cantori intonavano inni sacri quando giunsi davanti all’imperatore, che indossava una leggera corazza intarsiata in oro su cui poggiava un lungo mantello riccamente ricamato. M’inginocchiai ai suoi piedi, e lui mi fissò con severità. Poi con la sua voce chiara e forte domandò: “Sei pronto a giurare fedeltà al tuo re?”

“Giuro di essere sempre fedele” dissi, osservando la sua fronte ampia cinta dalla corona, da cui spuntavano i capelli rossicci, e pronunciai i voti cavallereschi. Subito dopo ricevetti l’armatura con gli speroni, il giaco di maglia, il guanto e infine la spada dalla bianca cintura tempestata di pietre preziose.

“In nome di Dio, di san Michele, di san Giorgio io ti armo cavaliere, sii prode, intrepido e leale!” esclamò, colpendomi con una piattonata sulla spalla e, per non dimenticare il giuramento, un sonoro ceffone che mi lasciò a bocca aperta.

Fissai i suoi grandi occhi celesti mentre raddolciva il suo sguardo. Mio padre non riuscì a nascondere l’emozione che provava: ero il suo prediletto.

Da quando avevo nove anni, mi aveva fatto allenare duramente per diventare cavaliere e attendeva con impazienza il giorno in cui avrei compiuto quindici anni per dichiararmi maggiorenne.

Da parte mia amavo lo sport e avevo imparato a combattere, ma ero indisciplinato non sopportando le regole ferree che lui imponeva.

“Per saper comandare, prima bisogna saper ubbidire” diceva spesso Federico, notando la mia astuzia nell’evitare le imposizioni e cogliendomi in fallo. In realtà non tolleravo il suo controllo sulla mia vita e notavo i suoi difetti. Tuttavia amavo mio padre e volevo dimostrargli che avrebbe sempre potuto contare su di me una volta ricevuta l’investitura.

Da lontano mi osservava attentamente Giorgio, il caro amico, con cui avevo studiato a Napoli. Lui non ambiva a diventare cavaliere, ma mi seguiva dappertutto. Era figlio di un mercante e aveva frequentato con me un corso di studi scientifici all’Università, dove si era distinto ricevendo la borsa di studio che aveva istituito mio padre per gli alunni poveri ma meritevoli.

Più tardi, quando terminò la cerimonia, lo raggiunsi nel campo fuori della città, dove erano piazzate le tende dei partecipanti al torneo che seguiva la solenne investitura.

“Manfredi, ci sono novità a proposito di quella ragazza che ti piace…” disse Giorgio appena entrai nella tenda. “Si chiama Annabella, è figlia di un nobile napoletano e cugina di un funzionario di corte… e presto la vedrai assistere ai giochi…”

“Sei insostituibile!” esclamai per la sua capacità di raccogliere informazioni… “In tutto tranne che con le armi!” aggiunsi subito dopo, per la confusione che faceva mentre mi aiutava a indossare l’armatura.

“Non avrei mai pensato di diventare uno scudiero!” esclamò Giorgio, mentre infilavo la maglia.

“Uno scudiero maldestro” replicai.

“Perdonami, Manfredi” rispose, togliendo una ciocca dei miei capelli lunghi e sottili che si erano impigliati nelle maglie.

“So che vuoi diventare scienziato e seguire le orme del nostro mago di corte, anche se tuo padre ti vorrebbe cavaliere. Ma sta tranquillo, un giorno accetterà l’idea. Ora sbrighiamoci!”

Poi lui mi aiutò a infilare l’armatura disegnata per il mio fisico alto e snello. Mi porse l’elmo e, ammirandomi, disse: “Tu e l’imperatore vi somigliate, anche se sei più alto di lui, ti muovi con la stessa fierezza, sei un grande principe e sarai un grande re, come lui!”

“Ora stai esagerando!” esclamai fissandolo contrariato. Se qualcuno lo avesse ascoltato, avrebbe pensato che stessi tramando per usurpare il trono.

Giorgio, che era timido, abbassò lo sguardo e ammutolì, temendo di aver ecceduto con i complimenti.

“Sono l’ultimo dei suoi figli a poter aspirare al trono e a desiderarlo” osservai subito dopo, con un’amichevole pacca sulla spalla di Giorgio.

Il mio amico, che era piccolo di statura, dai capelli scuri e dai lineamenti marcati, sorrise rincuorato.

“Mi dispiace per te! L’erede al trono è mio fratello Corrado, dovrai accontentarti di essere fedele a un principe!” ammisi scherzando.

Dopo uno squillo di tromba, montai sul robusto cavallo e, con le insegne del mio casato, raggiunsi mio padre e i miei fratelli.

L’imperatore armato di tutto punto, con la visiera abbassata, la lancia in resta, entrò nell’arena galoppando e fece il giro d’onore, passando davanti al palco delle dame che assistevano ai giochi. Lo seguii con Enzo, Federico e altri cavalieri, guardando attentamente la tribuna delle dame, piena di un corteggio di paggi, di fanciulle bellissime, con abiti di seta variopinta, che circondavano un trono vuoto tra pennoni e stendardi di cuori fiammeggianti e sanguinanti. Al centro vidi la giovane di rara bellezza che volevo conoscere e che ricambiò con un sorriso la mia attenzione.

“Si dice a corte che le donne già subiscano il tuo fascino! Spero che nel frattempo tu non abbia dimenticato i miei consigli sui combattimenti!” disse Enzo scherzando, appena ci separam-mo dal seguito dell’imperatore.

Intanto mio padre e i cortigiani occuparono la tribuna dipinta con le armi reali, riservata all’imperatore e circondata da scudieri, paggi e guardie in ricche livree.

“Oggi ti dimostrerò di cosa sono capace!” risposi.

“Piuttosto è il tuo cuore che mi preoccupa e credo che presto sanguinerà per quella bionda dall’abito verde mare.”

“Sono qui per combattere!” esclamai infastidito dalla sua ironia. Intanto raggiungemmo il lato nord del campo, dove si vedevano numerose piume ondeggianti, rilucenti elmetti e lunghe lance dei cavalieri pronti a misurarsi con i cinque campioni che avevano lanciato la sfida.

“Largo, largo, prodi cavalieri!” proclamarono gli araldi e i cinque sfidanti si fecero avanti nella lizza mentre su di loro cadeva una pioggia di monete d’oro e d’argento dalle tribune, soprattutto da quelle più inclinate occupate dai nobili e dai ricchi.

“Amore alle dame! Onore ai generosi!” gridarono gli araldi, accompagnati da numerosi trombettieri che diedero fiato ai loro strumenti.

Il suono cessò e gli araldi si ritirarono dal campo in cui rimasero i marescialli a cavallo e armati, immobili alle opposte estremità della lizza. Quando furono aperte le barriere, entrai con il primo gruppo di cinque sfidanti capeggiato da Enzo e altri tre cavalieri, con cui avanzammo lentamente nell’arena, cavalcando i destrieri coperti di ricche gualdrappe.

Salimmo sulla piattaforma, dove c’erano le tende dei cavalieri sfidanti adorne di pennoni con i colori delle loro insegne. Lo scudo di ogni cavaliere era sospeso lì davanti. Ognuno di noi toccò leggermente con il rovescio della lancia lo scudo dell’av-versario. Era il segno che avremmo usato le armi di cortesia e la punta della lancia sarebbe stata coperta da un pezzo di legno piatto per evitare di ferire l’avversario.

Spavaldamente toccai lo scudo del cavaliere con le insegne rosse. Volevo dimostrare di essere bravo quanto i miei fratelli e mi sentii fiero che la ragazza mi stesse fissando.

Con Enzo ci ritirammo in capo alla lizza, dove rimanemmo allineati. Intanto gli sfidanti uscirono dalle tende e montarono sui loro cavalli, poi discesero dalla piattaforma contrapponendosi individualmente ai cavalieri che avevano toccato i loro rispettivi scudi.

Osservai bene la sagoma del cavaliere che avevo sfidato e che cavalcava con estrema destrezza.

“Attento, Manfredi! Quello è uno dei campioni che si sono distinti negli ultimi tornei. Non abbassare mai la guardia! Ha fama di essere molto furbo: colpisce quando meno te l’aspetti e non rispetta le regole” mi raccomandò Enzo preoccupato e poi si allontanò.

Notai che quel cavaliere era alto e robusto. Ero stato incosciente a sfidarlo, ora ne ero consapevole più che mai.

Al suono delle trombe mio fratello si lanciò al galoppo contro il suo avversario. Il cavaliere non riuscì a schivare il colpo e crollò al suolo, seppellito dal suo cavallo, tra le grida eccitate della folla.

Non mi sorpresi per la vittoria di Enzo. Era molto valoroso, e notai che mio padre posò lo sguardo fiero su di lui. Mi chiesi se sarei stato in grado di dimostrare la stessa abilità.

Quando giunse il mio turno, mi recai all’estremità del campo e guardai l’agguerrito sfidante: temevo di essere disarcionato al primo istante. Le trombe squillarono ed io e il cavaliere dall’elmo con le lunghe piume rosse ci lanciammo al galoppo l’uno contro l’altro. Le nostre due lance incrociandosi si ruppero fragorosamente, ma rimanemmo in sella.

Pensai di essere stato fortunato e sperai che la buona sorte mi assistesse ancora. Ritornammo a capo del campo, quando vidi uno scudiero che si avvicinò al mio avversario comunicandogli qualcosa, poi notai che il cavaliere cambiò lo scudo con uno meno robusto, fatto che mi sembrò strano.

“Attento Manfredi!” gridò Giorgio in ansia, mentre mi porgeva la lancia di ricambio.

Afferrai la lancia e squadrai bene l’avversario prima di muovermi, mirando la parte che avrei colpito e pregando la buona sorte. Appena le trombe diedero il segnale ci lanciammo l’uno contro l’altro e ci incontrammo nel mezzo della lizza. Le lance volarono in schegge fino al manico con un rumore di tuono ed io fui disarcionato. Mi liberai dalla staffa e afferrai la spada, tentando di rialzarmi, ma l’avversario fu sopra di me.

“Avresti bisogno di una buona lezione, ma tuo padre non vuole vederti perdere” disse il cavaliere.

Dopo un breve combattimento in cui dimostrò di essere molto bravo, si fece battere da me. Ero furioso per questo, forse non ero il campione che mio padre avrebbe voluto, ma anche se ero insicuro, non ero esattamente un vigliacco e quella vittoria che non mi spettava mi bruciava come uno schiaffo. Mio padre col suo spasmodico controllo sulla mia vita ora aveva davvero esagerato. Desideravo conquistare qualcosa con le mie sole forze e volevo che lui lo capisse.

Continuai ad assistere al torneo con una grande amarezza, nonostante la ragazza che mi piaceva mi stesse sorridendo. Il turno degli altri tre sfidanti terminò in pareggio. Poi scesero in campo altri tre gruppi di cavalieri. Il terzo gruppo era capeggiato da mio fratello Federico che si distinse battendo gli avversari.

Alla fine mio padre chiamò me, Enzo e Federico al centro del campo. Subito dopo raggiungemmo la tribuna reale, dove i marescialli ci aiutarono a togliere gli elmi. Tra sventolii di fazzoletti e applausi, l’imperatore si congratulò con noi vincitori e ordinò di consegnarci il premio.

Poco dopo gli staffieri portarono tre splendidi cavalli, uno nero, uno marrone e uno bianco. A un cenno dell’imperatore a me fu consegnato lo stallone bianco. Mio padre non aveva dimenticato che desideravo quel cavallo pregiato della sua scuderia. Mi viziava come sempre, ma quello era un premio immeritato, non potevo accettarlo. Mentre i miei fratelli montarono in sella, io rimasi a terra.

“Non ti conviene rifiutare il premio” mi consigliò Enzo che mi capì al volo. “Oggi è giorno di festa e lui ha riunito la famiglia per te” aggiunse. Mi guardai intorno, gli occhi di tutti erano fissi su di me. Ero furioso, tuttavia decisi di rinviare a dopo le proteste con mio padre e montai a cavallo. Subito dopo egli ci consegnò la corona di seta rosa, orlata da un cerchio d’oro con punte a cuori e a frecce, con cui sarebbe stata proclamata la regina del torneo. Enzo che capeggiava la nostra squadra, mi fece cenno di raccogliere sulla punta della mia lancia la corona.

La raccolsi e lentamente feci il giro del campo per posarla davanti alla fanciulla bionda dal sorriso incantevole, che con un lieve inchino mi ringraziò dell’omaggio. Ormai ero sicuro di averla conquistata. Mentre ci ritiravamo nelle nostre tende per cambiarci, pensai che avrei rivisto la ragazza a corte e che di questa giornata fosse l’unica nota positiva.

“Comunque sia andata, hai dimostrato di essere un vero guerriero!” disse Enzo per consolarmi, avendo notato tutto e conoscendo nostro padre.

“Dopo quanto è successo potrai dirlo se mi misurerò su un vero campo di battaglia!” risposi.

“Nostro padre ti protegge perché tu pensi che combattere sia un gioco! Ma quando affronterai il nemico sarà diverso. Non avrai il tempo di pensare che si tratti di un uomo come te. Dovrai ucciderlo. O tu o lui!”

“Credi che non abbia coraggio?” m’infuriai per il suo modo di trattarmi da ragazzino e darmi consigli sempre con una certa fatalità. Non volevo essere sottovalutato. Un giorno avrei com-battuto come lui e anche meglio.

“Non disperare, anche tu avrai il battesimo sul campo, ma quando avverrà capirai le mie parole… Adesso cambiamoci. Nostro padre ci attende al banchetto” disse Enzo, interrompendo la polemica.

Lo guardai entrare nella sua tenda, alto come un gigante, i capelli biondi e lunghi fino al bacino, gli occhi chiari, era sicuro di sé e della sua forza. L’imperatore l’aveva premiato nomi-nandolo luogotenente nell’Italia settentrionale. Un giorno forse avrei trovato anch’io l’occasione per mostrare il mio valore e meritare in pieno la fiducia di mio padre.

Imponenti fiaccole e numerosi candelieri di ferro battuto illuminavano a giorno la sala del palazzo reale, dove si teneva il banchetto. A ogni arco c’erano corone intrecciate di fiori freschi, la musica di cetre e flauti che suonavano i menestrelli saliva come sottofondo, rendendo l’atmosfera dei commensali gaia e serena.

Sedevo accanto a Enzo, mentre passavano davanti a noi grandi vassoi d’argento pieni di cacciagione decorata con la frutta e insaporita con le spezie.

Pier delle Vigne si fece servire in abbondanza dalle odalische vestite di veli, mangiò con il solito appetito, mentre mio padre toccava appena il cibo e continuava a parlare di filosofia con i suoi illustri ospiti. Intanto Enzo m’informava che nostro padre aveva invitato la regina del torneo alla battuta di caccia del giorno seguente.

“Voi due, sempre a parlare di donne” osservò nostro fratello Federico di Antiochia, che sedeva dalla parte opposta del tavolo e per carattere era meno loquace di noi.

Federico era nato otto anni prima di me dalla relazione tra mio padre e una principessa siriana, infatti avevamo un aspetto completamente diverso: lui con la pelle olivastra e gli occhi verde marcio, io con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Invece io ed Enzo, pur essendo figli di madri diverse, ci somigliavamo e avevamo la stessa passione per la poesia e la musica. Tra noi c’erano oltre dieci anni di differenza e la storia d’amore che mio padre aveva avuto con sua madre, Adelaide di Ursilghen, figlia del duca di Spoleto, era stata breve ma importante. Ammiravo Enzo che era colto e dotato in tutto. Molte volte avrei voluto superarlo in bravura, vedendo che nostro padre lo amava moltissimo e riponeva grandi speranze in lui, al contrario di me che aiutava anche a vincere un torneo. Ma per competere realmente con Enzo, che si era distinto in numerose battaglie, avrei avuto bisogno di tempo e di esperienza.

Enzo fissò suo fratello Federico e rispose: “Di cosa dovremmo parlare? Di Corrado che ci detesta? O di Enrico che ha tradito nostro padre, sollevando prima la ribellione dei principi tedeschi, poi alleandosi con i comuni lombardi contro di lui?”

“Abbassa il tono! Meglio evitare di nominare Enrico” disse Federico, ben sapendo che il padre soffriva molto per quello che era accaduto al primogenito Enrico. L’aveva perdonato la prima volta, ma aveva dovuto fermarlo la seconda. Per l’imperatore la lealtà era tutto e un figlio non poteva tradire suo padre!

“Già, è morto suicida quando nostro padre l’ha fatto arrestare. Non ha mai avuto molte qualità, un debole pronto a farsi manovrare” deprecò Enzo.

“Nemmeno Corrado, che è stato nominato re di Germania al posto di Enrico, mi sembra un grande uomo con tutti i suoi capricci” aggiunse Federico.

Enzo annuì, vuotò la coppa di vino, rispondendo poi al fratello germano: “Come vedi, meglio parlare di donne e dare consigli fraterni al nostro Manfredi, tanto ammirato dalle belle ragazze!”

“Giusto!” disse Federico, che mi fissò consigliando: “Declama i tuoi versi senza farti prendere al laccio. I begli occhi incantano, ma possono ferire!”

“Traduco le sue parole: attento all’amore e alle donne, devi dominarle, non farti dominare!” precisò Enzo scherzando.

“Conosco bene le donne!” risposi, offeso che mi conside-rassero un ragazzino.

I due scoppiarono in una fragorosa risata. Mentre l’ancella si avvicinava con una capiente bacinella d’acqua e fiori profumati per lavare le mani, alzarono lo sguardo e smisero di ridere, sorpresi di veder entrare nella sala il conte Lancia.

Mio padre fu lieto di rivedere il conte e lo abbracciò con calore. Ma si stupì che fosse già tornato dalla missione nel nord Italia. Intanto lo invitò a tavola per mangiare qualcosa.

“Non reco buone notizie” precisò il conte all’imperatore, appena si fu seduto. “La città di Piacenza rifiuta di pagare le tasse e non accetta il vostro governatore!” riferì Galvano Lancia, che riceveva spesso incarichi diplomatici.

L’espressione distesa di Federico cambiò.

“Sfidano la mia autorità e non pensano che potrei schiacciarli come fece mio nonno con i comuni del Nord!” sbottò, irritato per la situazione incandescente che si stava creando in Italia settentrionale.

“Avevate cercato un compromesso…” ricordò Pier delle Vigne. L’imperatore stava per zittirlo con uno sguardo.

“Per dimostrarvi magnanimo…” si affrettò ad aggiungere il consigliere, che temeva la collera di Federico più di tutto e trovava sempre il modo adatto per dirgli quello che pensava, a volte adulandolo.

“Finché il papa sarà dalla loro parte, si sentiranno forti” s’intromise Enzo, che aveva conquistato molte città del Nord, distinguendosi nella battaglia della Meloria e diventando un uomo temuto. “Non dovevo lasciare Cremona per partecipare alla festa” ammise rammaricato.

“La verità è che per troppi anni i comuni non hanno sentito il peso della nostra autorità e adesso credono di potersi governare da soli. Tuttavia nessuno m’impedirà di unire l’Italia sotto la corona imperiale” dichiarò.

“La situazione sarà sempre critica finché i Guelfi che appoggiano il papa fomenteranno le rivolte nei comuni del Nord” asserì Pier delle Vigne. “Proviamo con un’altra trattativa” consigliò all’imperatore.

“Troppi compromessi e senza risultato, finora. Bisogna sedare la ribellione con la forza. Porremo d’assedio la città, è l’unico modo” concluse Federico, che ormai aveva perso la speranza di raggiungere accordi con estenuanti trattative. Il papa si affidava ai Guelfi per contrastare l’imperatore e tentare di dominarlo con ogni mezzo. L’ingerenza della Chiesa nello stato era insop-portabile e prima o poi Federico sarebbe riuscito ad affermare la sua volontà, dalla propria parte aveva i Ghibellini – ed erano tanti – e contava di reclutarne molti altri alla sua causa. Il papa avrebbe dovuto essere il pastore delle anime e non altro. Invece aveva il potere di togliere la corona a un sovrano, era il potente tra i potenti. Tutti i re e principi lo temevano, tranne Federico.

“Partirò all’alba e radunerò il mio esercito” decise Enzo, che era sempre pronto a combattere per la grandezza dell’impero.

“Voglio partire con te!” dissi. Invece di aspettare il momento di essere solo con mio padre e protestare per quello che era accaduto durante il torneo, decisi di cogliere l’occasione dell’avventura in un campo di battaglia.

“Preferisco che tu rimanga a corte” affermò l’imperatore. “Non hai l’esperienza per affrontare queste situazioni.”

“Si può apprendere solo in un campo di battaglia” risposi, sostenendo il suo sguardo duro e dimostrandomi disposto a scontrarmi con lui. Volevo diventare un guerriero come Enzo, ma rimanendo sotto la sua ala protettrice questo non sarebbe mai avvenuto. Così insistetti: “Permettimi di andare.”

Notai in lui una certa indecisione, poi interrogò il mago di corte che interpellava prima di ogni evento.

Mago Teodoro, vicino ad altri ospiti, con il suo lucido e rotondo copricapo d’acciaio, un’ampia veste grigia, si alzò dall’altro lato del tavolo, lasciando a malincuore il dolce al miele che stava gustando.

“Questo è l’anno propizio per Manfredi, sire!” affermò con reverenza e il tono calmo che lo distingueva. “La luna è allineata con i pianeti e predominano le forze del bene” gli assicurò.

Federico per un breve istante rifletté in silenzio, guardando gli occhi piccoli e luminosi del nostro astrologo che spiccavano sulla barba bianca. Poi posò lo sguardo su di me.

“Non manchi di coraggio, ma di prudenza! Tuttavia sono certo che imparerai a superare le difficoltà! E sia! Partirai come desideri” disse.

Finalmente mi concede un po’ di fiducia, pensai, quando si rivolse al conte: “Il conte Lancia ti seguirà, con la sua esperienza sarà sempre in grado di proteggerti.”

Il conte Lancia, lo zio che più mi amava, nonostante la stanchezza, mi sorrise. Accettava volentieri di ripartire e di farmi da angelo custode, ben sapendo che non sarebbe stato un compito facile.

I miei fratelli si scambiarono uno sguardo d’intesa. Mio padre era protettivo con me più di quanto lo fosse stato con loro.

All’alba io, Enzo, zio Galvano e la scorta delle guardie saracene, messe a disposizione dall’imperatore, eravamo pronti per la partenza nel cortile principale, vicino alla grande ed elegante arcata d’ingresso nella cinta muraria quadrangolare.

Giorgio si avvicinò porgendomi il mantello verde, che indossai. Era dispiaciuto che partissi, ma era stato lui a non volermi seguire.

“Ti affido un compito” dissi, porgendogli una pergamena su cui avevo scritto versi d’amore. “Questa è per Annabella. Dille che vorrei rivederla al mio ritorno.”

“La consegnerò presto!” rispose Giorgio, che rimaneva a corte come apprendista di Teodoro.

“Così ci separiamo!” affermai dispiaciuto, perché era la prima volta da quando c’eravamo conosciuti.

“Non avrei voluto. Ma sarei solo d’intralcio per te, un inutile peso!” assicurò Giorgio, mente si avvicinava mago Teodoro per salutarmi.

“Ne ho la certezza anch’io!” riconobbe Teodoro, ascoltando le sue ultime parole e riconoscendo nel suo allievo doti più scientifiche che da guerriero. Poi si rivolse a me.

“Ho convinto tuo padre e mi sento responsabile di tutto, quindi sii prudente!”

Gli sorrisi sicuro di me stesso: le sue raccomandazioni erano superflue.

“Ricorda ragazzo, il tuo cammino è tortuoso, le forze del male sono sempre in agguato.”

“Non temo le vecchie profezie!” risposi, intuendo i suoi pensieri.

“Quando nascesti si videro tra le nubi, in mezzo a lampi e tuoni, due grandi figure umane combattere tra loro dall’alba al tramonto. Le due figure rappresentano il bene e il male che si scontrano e tu devi essere sempre pronto a lottare per non soccombere, ricordalo!” ribadì con affetto.

Teodoro, che brontolava sempre con me, spronandomi a diventare migliore di quello che ero, poi si rivelava protettivo.

“È per te!” disse porgendomi un’ampolla. “Questa essenza di rosa selvatica è ricca di virtù di ogni tipo. Ti aiuterà in tutto, allontanerà ogni male. Non avrai malattie e riuscirai a guarire in fretta se sarai ferito.”

Affidai la boccetta a una delle guardie, ordinando di riporla tra i miei bagagli, quando lui strinse le mie mani tra le sue.

“Qualsiasi cosa avvenga sarai sempre un guerriero vittorioso” disse fissandomi con una certa commozione. Ora era lui a credere in me più di chiunque altro.

Abbracciai Teodoro con la certezza che mi sarebbe mancato, anche se mi ammoniva giudicandomi spesso uno scapestrato. Salii in groppa al cavallo bianco e partii con Enzo, seguito dal conte Lancia e numerosi soldati, ansioso di affrontare la nuova avventura.

1 recensione per Il tramonto delle aquile

  1. Laura Bassutti

    Il romanzo racconta la vita e le gesta di Manfredi di Svevia, figlio dell’Imperatore Federico. Manfredi, dopo diverse vicende storiche e dinastiche, si troverà a capo della casata di Svevia e diventerà il principale antagonista del Papa nella lotta fra Papato e Impero, tentando di contrastare le mire egemoniche del Pontefice e di vanificare il suo costante tentativo di annientare l’Impero. Al di là e oltre l’impeccabile ricostruzione storica, che permette di calarsi in un’epoca di grandissime tensioni e continui sconvolgimenti, la narrazione in prima persona da parte di Manfredi coinvolge il lettore anche a un livello più intimo e personale, facendogli avvertire, quasi fisicamente, la presenza del personaggio principale del romanzo e rendendolo partecipe delle sue diverse emozioni e reazioni. In definitiva, l’autrice ci conduce nella Grande Storia senza però mai perdere di vista l’elemento più squisitamente umano, del suo protagonista. Manfredi di Svevia è un privilegiato, un uomo valoroso e forte, combattente valoroso, sovrano giusto e lungimirante, diplomatico abile e sottile ma di lui Chiara Curione evidenzia anche la grande solitudine fra tradimenti e intrighi di corte, amori tanto appassionati quanto sfortunati, lotte estenuanti per riaffermare il potere dell’Impero nei confronti delle pretese temporali del Papato. Per difendere il suo casato, per sentirsi degno del padre la cui immensa e ingombrante figura lo accompagnerà sempre, Manfredi sarà capace di grandi rinunce, dovrà abbandonare l’amatissima moglie Elena, l’unica donna che aveva saputo donargli serenità e saprà affrontare la morte con disperato coraggio, nel tentativo estremo di salvare il nome, l’onore e il potere della casa di Svevia. Un protagonista reso in modo intenso dall’autrice che ne tratteggia il carattere indomito e, nello stesso tempo, ne sa evidenziare le paure e incertezze, evidenziandone, come detto prima, l’elemento umano. Molto apprezzabili risultano le descrizioni attente dei luoghi visitati dal giovane sovrano, della vita di corte, dei castelli e palazzi dove si svolgeva e degli usi e costumi di un’epoca convulsa, con i suoi conflitti laceranti, la sempiterna lotta per il potere e forse solo apparentemente lontana.

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