Descrizione
Presentazione di Marco Colombo Speroni
Sebenico, 24 marzo 1923: Martino Martinelli, in una lettera, descrive la sua condizione di italiano che abita le terre orientali istriane e dalmate.
Zara, 1981: un vecchio pescatore lancia solitario nella notte una lenza nel mare nero come la pece.
Tra queste due date, con cui si apre e si chiude il libro, vi è l’epopea di Marcella, figlia di Martino, costretta ad abbandonare Zara, la sua città assediata dalle bombe, e a tentare insieme al marito un viaggio della speranza che la porterà dopo innumerevoli impedimenti a rivedere l’Italia. Ma le difficoltà di Marcella e della sua famiglia non si concludono con l’arrivo nel Belpaese: c’è la guerra, prima di tutto, una guerra iniziata sul fronte jugoslavo e conclusa sul fronte interno. E poi ci sono gli italiani, che guardano con curiosità, e a volte con imbarazzo, queste strane figure che prendono il nome di “profughi”: né italiani né croati. Peggio: italiani per i croati e croati per gli italiani.
Con una scrittura chiara e limpida Pietro Prever ci accompagna in un viaggio che avrebbe dell’inverosimile se non fosse tutto documentato, un viaggio compiuto da uomini costretti a fuggire da altri uomini, come tante volte è avvenuto in passato, e come ancora oggi troppo spesso vediamo accadere davanti ai nostri occhi. Un dramma, quello dei profughi dalmati e istriani, sepolto per decenni e solo da poco emerso dal buco nero dell’indifferenza generale della politica e della cultura nostrane.
Il pescatore non è un saggio storico e non è un romanzo: è la testimonianza vera di una vita straordinaria, quella di una donna obbligata a lottare con tutte le sue forze per poter conquistare la propria libertà e legittimare giorno dopo giorno il suo cammino di conquista della felicità.
Fa da corredo al testo un’appendice in cui l’autore illustra schematicamente i più importanti (e terrificanti) genocidi della storia dell’umanità perpetrati negli ultimi cinque secoli, un lavoro di ricerca documentaria da cui partire per riflettere su cosa siamo stati capaci di fare e allo stesso tempo impegnarci a evitare di ripetere sempre, alla stregua di novelli Sisifo, gli stessi errori.
INCIPIT
Credo che più o meno tutti sappiano perché sono nati in un certo posto e perché vi abbiano vissuto con la loro famiglia. Io no.
Il 24 marzo 1923, nonno Martino scriveva questa lettera alla zia Vittoria:
MARTINO MARTINELLI
COMMISSIONI – RAPPRESENTANZE
Sebenico, il 24 marzo 1923
Carissima Vittoria,
abbiamo ricevuto la vostra lettera e tanto Darinca che io siamo rimasti oltremodo contenti che finalmente abbiamo vostre notizie.
Grazie tante della vostra offerta, ma la nostra situazione finanziaria spero che cambierà presto perché non può tardare la decisione dell’Alta Corte Amministrativa che obbligherà il Governo ad eseguirmi il cambio di 750.000 corone, per le quali incasserò Lit. 210.000.
Perché io mi sono trovato in questa condizione che il Governo Italiano, interpretando a modo suo una legge, sospese il cambio a me e a parecchi altri che in seguito al trattato di Rapallo abbandonarono la Dalmazia, mentre aveva pagato agli altri per l’importo complessivo di ben 11.000.000 di lire.
Ricorremmo tutti al Consiglio di Stato, il quale ha già accolti una parte dei ricorsi. Per il mio non c’è stata ancora l’udienza la quale non può tardare, e non v’è dubbio, almeno lo spero, che il mio ricorso sarà accolto.
Inoltre la rimanenza delle corone che avevo a Sebenico non mi venne cambiata dal governo Jugoslavo (come ne aveva l’obbligo), perché il governo Jugoslavo sospese il cambio a tutti gli italiani fino a quando non fossero regolati i rapporti tra l’Italia e la Jugoslavia, ma ora con la ratifica del trattato di Santa Margherita non può tardare neppure il cambio jugoslavo il quale però, dato il cambio di cinque dinari per una lira non mi frutterà granché.
Ecco perché mi trovo in ristrettezze finanziarie. Il cambio italiano avrei dovuto riceverlo in settembre del 1921, sono passati un anno e mezzo durante il quale, in attesa di esso, ho dovuto vivere consumando circa L. 20.000 che avevo, perché mai avrei creduto che sarebbe durato così a lungo ritenendo che il ritardo al massimo sarebbe stato di qualche mese.
A tutte queste condizioni di cose si è aggiunta la mia malattia che da cinque mesi non mi dà pace. Dai primi giorni di novembre sono stato colpito da coliche epatiche (al fegato) e dal 2 gennaio sono sempre a letto, cibandomi di solo latte, ne potete figurare come sono ridotto. In questi giorni mi farò visitare da un bravo chirurgo per vedere se non sia il caso di farmi l’operazione.
Sentiamo con piacere che con il Mihalj in maggio o luglio avreste il trasloco a Spalato e allora v’attendiamo senza fallo a Bari e speriamo che sino allora le nostre condizioni finanziarie saranno diverse.
L’ultima nata fa sei mesi il 3 aprile, si chiama Marcella e cresce che è una bellezza, è veramente una bella bambina. La Livia cresce anche benissimo. Gli altri vanno a scuola a Bari e studiano abbastanza bene specialmente Narduccio ed anche Maria. Maria il primo ginnasio, Nardo e Anna la quarta elementare e Mario la seconda.
Vi prego di informarmi la grandezza di tappeti che avete comprati perché non è escluso che ne compreremo noi tre o quattro. Perciò scriveteci quanto è il prezzo di vendita in dinari, la grandezza di essi, il peso e possibilmente anche il disegno.
Non mi dilungo più a scrivere perché sono stanco (scrivo stando a letto), soltanto ti prego che mi scriva anche il Miki, cosa è di lui, quando sarà promosso e se ha ancora l’intenzione di andare in pensione.
Domani o dopodomani se mi sento meglio vi farò scrivere dai bambini. Tanti baci dalla Darinca e dai bambini gli auguri di buona Pasqua ed io salutandovi caramente assieme al Mihaly mi sottoscrivo.
Martinelli
P.S: Un amico collezionista di francobolli mi ha interessato per avere tutte le serie dei francobolli emessi dalla Jugoslavia. Prego il Mihaly (nessuno può farmi il piacere meglio di lui) di procurarmeli e mandarmeli in doppio esemplare indicandomi la spesa.
[Seguono alcune annotazioni illeggibili in lingua croata].
Questa lettera, unica testimonianza di nonno Martino, forse dice poco o nulla a un italiano metropolitano, ma racconta una pagina di quelle genti d’Italia che agli inizi del Novecento abitavano le terre orientali istriane e dalmate, alle quali ricorda patrie perdute, misconosciute, case abbandonate, amici e parenti scomparsi nel vortice di una storia dolorosa e dimenticata, in cui lo Stato italiano − prima monarchico e poi fascista e repubblicano − brillò per assenza, superficialità e ignoranza.
La lettera reca l’intestazione della città di Sebenico, che nell’originale risulta cancellata con un tratto di penna perché scritta a Bari, mentre non so in quale città del Regno dei Serbi e dei Croati sia stata spedita. L’intestazione e il testo autorizzano a ritenere che il nonno possa aver avuto un ufficio a Sebenico, mentre secondo i racconti, la famiglia aveva abitato a Spalato, dove erano nati Anna, Maria, Nardo e Mario.
Sebenico è una città della costa dalmata, sulle cui origini non ho trovato fonti recenti né dati certi.
Per lo storico Giuseppe Praga, autore della Storia di Dalmazia per i tipi di Cedam 1954, questa terra era un unicum già all’epoca di Giulio Cesare, che nel 59 a.C., oltre alla Gallia, ottenne il governo dell’Illirico, di cui la Dalmazia faceva parte.
È interessante notare che per l’autore la latinità della Dalmazia è un fatto talmente scontato da non rendere necessario indicare le origini delle principali città. Così, quando descrive la rivolta provocata nel 52 a.C. da Pompeo contro Cesare, si limita a riferire che mentre le popolazioni dell’interno si schierarono con il senatore, i Liburni e le città greco-romane della costa − Zara, Salona, Epidauro, Issa e Lisso − rimasero fedeli a Cesare.[1]
Il Praga non cita Sebenico, perché sembra che in epoca romana quest’area, pur abitata, non fosse assurta al rango di città, qualifica che ebbe solo nell’Alto Medio Evo, quando vi si insediarono popolazioni latine provenienti dalla vicina Scardona.
La questione delle origini di Sebenico è stata affrontata da tempo e, ritengo, risolta dallo storico Giovanni Lucio nella sua Historia di Dalmatia et in particolare delle città di Trau, Spalatro e Sebenico, testo disponibile in Internet, nell’edizione stampata “In Venetia, presso Stefano Curti M.D.C.L.XXIV”(1674).
Il Lucio − richiamato dal Praga che la ritiene «la prima, e ancor oggi l’unica storia veramente scientifica di Dalmazia, nata nello spirito condotto con il metodo del Baronio, del Rainaldi, dell’Ughelli…»[2] − alla pagina 5 della sua opera monumentale (545 pagine), contesta con un’analisi minuziosa che la Sebenico dei suoi tempi (e odierna) sia l’antica Sico, e afferma con decisione che: «Dunque quelli che la Città di Sibenico pigliano per l’antico Sico s’ingannano, indotti solo da afferirlo dalla sola fallace similitudine delle voci: attesoche Sibenico o’ ver Sibinico, è città fondata da Croati doppò la declinatione dell’Imperio Romano».
Lasciando l’opera del Lucio, è utile notare che la prefazione, da pagina 10 a pagina 17, riporta l’elenco dei Vescovi, Priori, Conti, Podestà e Rettori che si sono succeduti in Dalmazia dall’anno Mille all’anno 1663. Tutti nomi di Italiani.
È storia che i popoli slavi invasero la Dalmazia tra il VI e il VII secolo d.C., ed è altrettanto storia che sulla città di Niccolò Tommaseo, noto per Il Dizionario della Lingua Italiana, troneggia una cattedrale del 1400 in stile Rinascimento-adriatico, opera dell’architetto Giorgio Orsini, nato a Zara intorno al 1410.
Parrebbe quindi che Sebenico, con la sua storia, possa essere presa ad esempio di quella convivenza tra i popoli troppo spesso ignorata e avversata dagli stati sovrani: sul sito croato di Sebenico, alla voce Cattedrale di San Giacomo,[3] si legge che la chiesa fu «Realizzata completamente in pietra e marmo dell’isola di Brac (Brazza) secondo le direzioni geniali di Jurai Dalmatinac (italianizzato Giorgio Orsini), una delle più significative figure del Rinascimento croato», che nell’esecuzione dell’opera fu «Affiancato da un altro artista dell’epoca, l’italiano Niccolò Fiorentino a sua volta conosciuto in Croazia come Nikola Firentinac».
Jurai Dalamtinac e Nikola Firentinac: la pulizia etnica dell’arte.
Quel poco che sappiamo del nonno è che, originario di Mola di Bari, aveva sposato Darinca Del Bianco – Stipcevic Simic, sorella di Vittoria, che era proprietario di una piccola società che si occupava di rappresentanze e navigazione tra l’Italia e le città della costa dalmata, e che sarebbe stato console onorario per l’Italia a Spalato,[4] dove viveva una comunità di lingua italiana.
Nonno Martino nel richiamare il trattato di Rapallo, che il 12 novembre 1920 assegnò all’Italia, oltre a Trieste, Gorizia e altre località di frontiera, l’Istria e Zara, riferendosi alla sua attesa del «cambio jugoslavo», cita impropriamente la «ratifica del trattato di Santa Margherita».
Sul punto ho trovato una nota dell’ISGI, “Istituto di Studi Giuridici Internazionali – Consiglio Nazionale delle Ricerche, 167/3, Accordi di Santa Margherita”, dove si legge che nel maggio 1922 si tenne a Santa Margherita Ligure una Conferenza italo-jugoslava per la definizione degli accordi di esecuzione del Trattato di Rapallo.
All’esito dei lavori della Conferenza, il 23 ottobre dello stesso anno l’Italia e il Regno dei Serbi e dei Croati firmarono a Roma gli Accordi e le Convenzioni per l’esecuzione del Trattato di Rapallo, noti al pubblico come gli “Accordi di Santa Margherita”, alias Trattato di Santa Margherita. Superata l’incertezza sulla necessità di una ratifica del Parlamento, tali accordi vennero approvati e resi esecutivi con la Legge 21 febbraio 1923 n. 281, che nonno Martino nella sua lettera considera l’attesa legge di ratifica.
La laconica frase «a me e a parecchi altri che in seguito al trattato di Rapallo abbandonarono la Dalmazia» rivela la miopia con cui alla conclusione della Prima Guerra Mondiale i nostri alleati pretesero di applicare i principi enunciati da Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America, nei suoi famosi “Quattordici punti”, esposti al Senato l’8 gennaio 1918.
È noto che una delle controversie che emersero alla conferenza di Parigi, riguardò la definizione dei confini tra l’Italia che chiedeva l’annessione dell’Istria e della Dalmazia, e il governo serbo–croato, che oltre a opporvisi con l’appoggio di Francia, Stati Uniti e Inghilterra, avanzava pretese su Gorizia e Trieste.
Ricordo che a scuola − forse in seguito all’azione di D’Annunzio che nel settembre 1919, rompendo gli ostacoli frapposti dalla Conferenza e gli indugi del governo Nitti, occupò Fiume per evitare che fosse affidata a un corpo di polizia interalleata, atto ritenuto prodromico della sua cessione al Regno dei Serbi e dei Croati[5] − l’argomento fu presentato biasimando il comportamento del ministro Vittorio Emanuele Orlando il quale, in segno di protesta nei confronti dell’orientamento favorevole alle richieste serbo-croate degli altri membri, abbandonò la trattativa e rientrò in Italia, dove fu accolto dal favore della piazza che dimostrava contro la “vittoria mutilata”.
Io non so se la decisione di Orlando di abbandonare l’assemblea (che proseguì i lavori in sua assenza, costringendolo a un rientro definito umiliante nel manuale scolastico di storia) fu politicamente corretta o no, ma non posso non pensare che quella scelta sia stata condizionata anche dal peso delle migliaia di vite appena perse per quei confini.
La lettera del nonno, nella sua calma signorile, rappresenta la conferma “sul campo” che, in seguito a quel trattato, lui e parecchi altri cittadini delle Comunità italiane della Dalmazia dovettero fare le valigie.
È peraltro vero che se da una parte, in seguito al trattato di Rapallo, 356.000 sudditi dell’ex Impero austro-ungarico di lingua italiana ottennero la cittadinanza della loro lingua e della loro cultura, dall’altra, secondo quanto si legge oggi, 490.000 tra Croati e Sloveni, volenti o nolenti si ritrovarono loro malgrado cittadini italiani, con altra lingua e altra cultura, mentre altri Dalmati di lingua italiana che vivevano fuori dalle terre annesse all’Italia, come nonno Martino, dovettero rientrare nella Penisola.
Queste contraddizioni confermano il fallimento degli accordi sulle controversie di confine presi con il solo principio di sovranità che, trattando gli esseri umani quali sudditi e non quali cittadini, impone spostamenti delle frontiere senza tener conto delle conseguenze che hanno sui popoli e sulle minoranze che le abitano. E ciò indipendentemente dal fatto che all’origine delle “nuove” frontiere vi siano dei conflitti, come nel caso della Grande Guerra, o accordi tra Stati, come avvenne per la Corsica venduta dai genovesi, e per Nizza e la Savoia, che furono cedute dal Piemonte in cambio degli aiuti francesi nella Seconda Guerra d’Indipendenza.[6]
La frase «che il Governo italiano interpretando a modo suo una legge sospese il cambio a me ed a parecchi altri», conferma il disinteresse del governo − prima monarchico, poi fascista (la lettera è del 24 marzo 1923 e il primo governo Mussolini era in carica dal 30 ottobre del 1922) − per le sorti della gente comune, che, persa casa e terra, si trovò addosso anche il blocco dei cambi, divenendo così facile preda degli speculatori che sicuramente non saranno mancati. Nonno Martino poté mantenere sé stesso e famiglia grazie alla disponibilità liquida di 20.000 lire, ma gli altri?
Dalle parole «Sentiamo con piacere che con il Mihaly in maggio o giugno avreste il trasloco a Spalato», apprendo che la zia Vittoria, che nei racconti di Marcella sembrava aver sempre abitato in quella città, vi arrivò invece nel 1923, ma da dove venisse rimane un mistero. L’ipotesi più plausibile è che arrivasse da Sebenico.
Così nonno Martino e famiglia abbandonarono Spalato e dopo una breve parentesi romana di cui so ancora meno, se non che vi nacque Livia, finirono a Bari: le prime tappe di un esodo forzato che, con alterne vicende, si trascinerà per oltre vent’anni.
[1]Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Cedam 1954, pag. 8.
[2]G.Praga, cit., pag.250.
[3]Cattedrale di San Giacomo Croazia, 2013.
[4] Una ricerca all’Archivio Consolare ha dato esito negativo, ma Ottavia conferma la notizia.
[5] Indro Montanelli, l’Italia di Giolitti, “Fiume”, Rizzoli, 1974, pag. 432.
[6] 21 luglio 1858, Accordi segreti di Plombières tra Cavour e Napoleone III.
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